‘Chi dice e chi tace’ di Chiara Valerio o della non qualità dei libri del Premio Strega

Chiara Valerio ha sempre avuto tutte le carte in regola per poter arrivare nella sestina del Premio Strega: è nota per essere fra le intellettuali più amate dalla sinistra, storica amica di Michela Murgia, così come del segretario del PD Elly Schlein, editor di Marsilio, in prima linea per i diritti della comunità LGBTQ+, sceneggiatrice del film Mia madre (2015) di Nanni Moretti, autrice di 14 libri, così come di un divertentissimo articoletto (tanto per tenere alta la fama di scrittrice impegnata antifascista) su Repubblica dello scorso anno dal titolo Il fascismo nel sangue” dove fra le altre cose scriveva: “Non mi viene in mente niente di più fascista del sangue. Il sangue che stabilisce parentele, gerarchie, eredità, tradizioni. Il sangue che consente di mantenere i privilegi…” Che delirio.

A leggere Chi dice e chi tace sembra davvero inspiegabile, dal punto di vista strettamente stilistico e contenutistico, che sia stato anche solo preso in considerazione nella dozzina del premio letterario più importante d’Italia. Ma tant’è, Chi dice e chi tace è arrivato addirittura terzo.

Chi dice e chi tace, è un tripudio di strafalcioni, frasi fatte e sperimentazioni linguistiche del tutti velleitari. Una prosa ed espressioni dimenticabili (“Mi salivano domande che non mi sono mai fatta”, “la madre non è certissima nel cattolicesimo”, “Di Gesù per esempio è più certo il padre”), per una trama confusa che ruota intorno alla figura di Valeria, una donna carismatica che arriva all’improvviso nella località marina di Scauri, con una giovane amica al seguito. Valeria lavora in una farmacia, ma sa di medicina più di parecchi medici, ama la natura, i fiori del suo giardino, ama le partite a carte al dopolavoro ferroviario e le lunghe nuotate solitarie. Dovrà misurarsi con un mistero che riguarda la morte di una donna in una vasca da bagno.

Il romanzo vorrebbe essere un noir esistenziale che racconta di una comunità del sud Italia a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, fatta di silenzi ma a in realtà sembra un memoriale ambizioso che non ce la fa a spiccare il volo verso il genere giallo o thriller e a fissare modelli e visioni universali. La confusione è data soprattutto dall’impossibilità di distinguere il tempo della narrazione da quello della scrittura che rende insofferente il lettore, complice una paratassi troppo insistita che non crea tensioni narrative, anzi le dilegua in un malessere esistenziale al femminile ripetitivo e fastidioso:

<<Ma mò che è questa ossessione? C’è qualcosa che non capisco, Lea, amore mio, Vittoria è morta.

E se invece fosse piaciuta lei a me?

Ti piaceva Vittoria? Non lo so.

E non puoi più saperlo, Lea, amore mio, Vittoria è morta. Ma io devo saperlo, Luigi, sono viva>>

 

Con Chi dice e chi tace, ci si trova ancora una volta di fronte a prevedibili meta-narrazioni, viaggi nell’io più profondo che escludono il gusto dell’invenzione letteraria.

Chiara Valerio veste i panni di una nipotina smarrita di Italo Svevo, passando dal narrato al dialogo per addentrarsi “dentro le cose” con morbosità, risparmiando al lettore colpi di scena, arrivando, come aveva auspicato il Direttore della Fondazione Bellonci, all’inclusività! La quale si manifesta tra Lea e Vittoria in una relazione ideale e platonica. Infatti Lea indaga per sapere semplicemente se è stata davvero attratta da Vittoria, lesbica dichiarata. Dal noir che si pensava inizialmente di dover leggere si passa al romanzo sentimentale più puerile che si potesse immaginare.

Nel trionfo del politicamente corretto il marito di Vittoria, un ricco avvocato, risulta, in quanto uomo, un pervertito (una bella bordata al patriarcato non la diamo?), e un’amica insospettabile di nome Filomena, appare anche lei prossima all’omosessualità., salvo poi dichiarare che le piace “il pesce”.

Insomma anche quest’anno il Premio Strega conferma la sua vocazione al gioco remunerativo e al familismo e non lo si può considerare un metro con cui misurare la reale qualità letteraria italiana.

 

Salone del Libro di Torino, o del posto al sole degli egoriferiti

Anche quest’anno il Salone internazionale del libro di Torino dimostra essere un altro salotto che lascerà tutto come prima: i soliti quattro nomi chiamati a gestirlo, un grigiume di assistenzialismo culturale che, con i soldi degli editori che per qualche ragione ignota ancora frequentano il salone, permette a queste figurine tutte postura e superbia, ma poco cervello ed originalità, di comprarsi le loro costosissime scarpe ortopediche artigianalmente cucite da immigrati palestinesi.

Il solo successo cui ambisce il salone è la presenza, la massa, indistinta e chic. Il che è anche emblematico della miseria intellettuale. L’elenco di incontri di questa fiera della vanità, che consente a questa massa indistinta di para-editoriali di campicchiare sulle macerie della cultura italiana con i soldi di editori, contribuenti e lettori, ha pochi eguali. Della serie: dobbiamo cercare di mettere dentro tutti quelli che contano, che sono nel giro.

Il Programma è sempre il medesimo ma con i libri nuovi, così i grandi editori accontentano gli autori, e i “lettori” possono mettersi in fila per ore per scattare una foto con il loro beniamino da mettere su Instagram.

Il salone del libro è una grande fabbrica, un parco giochi sempre più costoso in cui gli editori prenotano un giro di giostra ad autori egoriferiti che accorrono felici nella città dei Savoia dove si ascoltano attori che leggono qualcuno o qualcosa, Saviano e Michela Murgia che tengono omelie antifasciste, virostar, scrittrici che incontrano solo e soltanto donne con cui parla solo e soltanto di donne che hanno avuto le peggiori sciagure di questo mondo; Luciana Littizzetto che parla del suo futuro fuori dalla RAI.

Il Salone del libro di Torino ha tuttavia offerto anche un altro ridicolo spettacolo un paio di giorni fa: un drappello di fascistelli travestito da compagnucci ribelli ha impedito al ministro per le pari opportunità, Eugenia Roccella, di presentare il suo libro «Una famiglia radicale». Scandendo lo slogan «fuori i fascisti dal salone» hanno vietato un confronto pubblico. Roccella ha invitato i contestatori a spiegare le loro ragioni, dando una lezione di stile, ma naturalmente questi ultimi non ne hanno voluto sapere.

Ma la cultura non può avere a che fare con la destra, cosa c’entra un ministro di un governo di centro-destra o destra-centro con la cultura che si sa, è da sempre appannaggio della sinistra? Ha obiettato qualcuno.

Dipende.. Non è tutto oro quello che luccica, non tutto ha un valore, per quanto cercano di convincerti del contrario. Ci sono scrittori stati grandi scrittori conservatori in Italia; Tomasi di Lampedusa, Dino Buzzati, Giovannino Guareschi, Giuseppe Berto, Eugenio Corti, Guido Morselli, Carlo Alianello, Carlo Sgorlon. È la sinistra che è malata, ed è malata perché è la sua piattaforma “intellettuale” che fa acqua dappertutto. Ad esempio, nel momento in cui cerchi di analizzare la politica in modo “intellettuale”, molto probabilmente sei di sinistra, mosso da quello che Hegel chiamava il lavoro del negativo. Fai domande e offri risposte in linea con la teoria, semplicistiche, capaci di farti illudere di essere quasi un intellettuale, un illuminato capace di leggere la realtà. Ma il negativo persiste, persiste in libreria tra gli attivisti  attivisti antifascisti perditempo, assetati di potere (ovviamente indottrinati) e come scrisse William Blake; “La mano della vendetta trovò il letto dove fuggì il tiranno viola, la mano di ferro schiacciò la testa del tiranno e divenne tiranno al suo posto.”

Ecco il vero destino della sinistra, sempre e per sempre, incline a distruggere, incapace di conservare e non portata a creare, con il cuore pieno di lavoro del negativo.

La cultura è anche comprendere che le opinioni sono diverse. Si contesta dialogando, non silenziando.

 

Salone del libro: il solaio degli egoriferiti. Non vi sopporta più nessuno – Pangea

Il bestiario del DDL Zan a partire da Draghi l’incommensurabile. Una cronaca grottesca

Facciamoci del male. A ravanare tra i pensieri spericolati di questa tre-giorni-di-paura Vaticano versus Ddl Zan, c’è quasi da rimpiangere i bollettini in diretta del Comitato Tecnico-Scientifico. Ma il rispetto per l’intelligenza, unico partito cui sentiamo di dover immeritatamente iscriverci, ci impone l’improbo lavoro di decrittazione. Armiamoci e armatevi di coraggio.

Draghi, per gli amici Pilato. Il nostro primo ministro, finora conosciuto come l’Infallibile, dopo aver ricordato che l’Italia è uno Stato laico, ha precisato che la laicità “non è indifferenza dello Stato rispetto al fenomeno religioso”, ma “tutela del pluralismo e delle diversità culturali”, e che fra le norme costituzionali a garanzia dell’indipendenza rispetto alla Chiesa di Roma c’è il Concordato, che in effetti figura nell’articolo 7 della Carta, non in fondo, nelle transitorie e finali.

“Queste sono le dichiarazioni che oggi mi sento di fare, senza entrare ovviamente nel merito della discussione parlamentare”, ha concluso l’Incriticabile. Peana da sinistra: Draghi salvatore della patria laica (e antifascista, non guasta mai). Applausi da destra: Draghi difensore delle fede contro i laicisti mangiapreti. Sveglia: l’Incommensurabile se n’è solo lavato le mani, chiudendo subito qui la rogna e passando il cerino alla commedia delle parti, anzi dei partiti, in Senato dove è fermo il disegno di legge Zan in seguito al via libera della Camera, il 4 novembre scorso. Non sarà un politico in senso stretto, l’Inscalfibile, ma è più furbo del politicante medio. È uomo della finanza.

Murgia as usual. “La principale preoccupazione vaticana è che, se la legge viene approvata, le scuole cattoliche non saranno esentate dal dover insegnare il rispetto per le persone, quale che sia la loro condizione e il loro orientamento. Ma perché mai dovrebbe essere diversamente? Perché per una parte del sistema scolastico finanziato dallo Stato dovrebbero valere leggi diverse da quelle che valgono per tutti gli altri?” (La Stampa, 24/6).

Non ci duole sottolineare che la scrittrice inventrice del “fascistometro”, genialata senza pari, come al solito non ha capito granché. Proprio lei che fa parte della schiera di feticisti della Costituzione sembra ignorare che il Concordato, erede dei Patti Lateranensi del 1929 e revisionato nel 1984, sta appunto dentro la Costituzione.

Ora, gli accordi fra Stato italiano e Santa Madre Romana Cattolica Apostolica eccetera eccetera, da sempre vengono contestati dai laici (quelli veri, non ad annate alterne), perché consistono in un privilegio legislativo inammissibile in un ordinamento giuridicamente normale, il quale non dovrebbe riconoscere trattamenti speciali a questa o a quella religione, anche questa dovesse rappresentare il 99% di chi ha traffici spirituali con qualche Dio.

Rileva poco, qui, che il cattolicesimo faccia sempre meno presa nella vita quotidiana degli italiani; quel che importa è che, fino a quando il favoritismo concordatario non sarà stato abolito, le garanzie previste sono uno scudo che non si capisce perché mai la Chiesa beneficiaria non dovrebbe poter sfruttare, per salvaguardare scuole in cui, sic stantibus rebus, preti e suore hanno tutto il diritto di insegnare la loro dottrina.

Il finanziamento statale alle ‘paritarie’ (in teoria “senza oneri per lo Stato”: sì, come no) diventa scandaloso solo se si presuppone di denunciare quel benedetto Concordato e riscrivere la legislazione religiosa, per intero e daccapo.

Altrimenti, è la solita litania che ogni tanto riciccia fuori dal dimenticato fondo di un certo anticlericalismo di maniera, che suona grottesco in bocca agli sfegatati fan del Papa ambientalista, pro-migranti e, almeno così pareva, filo-lgbt (“Chi sono io per giudicare?”).

Cirinnà, facce ride. “Un prete potrà tranquillamente dire cos’è per la Chiesa la famiglia, se invece dovesse invitare i fedeli a prendere a botte le coppie gay commetterebbe un reato. Chiaro no?” (Il Manifesto, 25/6).

L’autrice di questa perla è Monica Cirinnà, senatrice del Pd la cui fama si deve alla legge d’introduzione delle unioni civili che porta il suo nome. Secondo il diritto, l’ignoranza della legge non salva il reo.

La Cirinnà dimostra di non sapere che se chiunque, non un prete ma proprio chiunque, dovesse esortare qualcuno a usare violenza contro qualcun altro, finirebbe, almeno si spera, davanti a un giudice.

E già oggi, ora, nunc, non grazie al Ddl Zan. A parziale e insufficiente compensazione, la brillante Cirinnà rivela almeno che “se la vecchia maggioranza del Conte 2 tiene senza defezioni, i numeri ci sono”. Leggi: se Renzi e i cattolici del Pd non fanno scherzi, Zan passa. Quanto meno un’informazione utile e sensata l’ha fornita, la neo-ripetente in giurisprudenza.

Verità est una (ma anche no). Nella nota informale, come da gergo diplomatico è chiamata la comunicazione consegnata dal Segretario per i Rapporti con gli Stati, Paul Gallagher, al nostro Ministero degli Esteri, si legge: “Ci sono espressioni della Sacra Scrittura e delle tradizioni ecclesiastiche del magistero autentico del Papa e dei vescovi, che considerano la differenza sessuale, secondo una prospettiva antropologica che la Chiesa cattolica non ritiene disponibile perché derivata dalla stessa Rivelazione divina”.

Non ci si può stupire che il Papa faccia il Papa, e che il suo magistero “autentico” rimarchi la totale contrarietà a qualsivoglia concezione diversa dalla Verità rivelata, che essendo tale è fissata per sempre, punto e basta.

La leggenda di un Bergoglio aperto e riformatore al punto da rinnegare i fondamenti stessi del cattolicesimo è, appunto, una leggenda.

Funzionale ai suoi detrattori diciamo di destra (che dal punto di vista teologico, le loro ragioni ce le hanno) e ai suoi adoratori diciamo di sinistra (che neanche sanno, nella loro crassa fatuità, di essere stati preceduti da un certo Tolstoj e da un meno noto, ma forse ancor più grande e acuto Elull, grandi eretici in quanto contestatori di tutto ciò che è venuto dopo Cristo, ovvero l’intera Chiesa con annesso armamentario di divieti, sessuofobia e moralismi assortiti).

Il fatto è che nella modernità relativista le verità si scrivono con la minuscola e si declinano al plurale, e piaccia o no questa non è un’interpretazione, è un dato fattuale. Anche eventualmente da combattere, sia chiaro, ma comunque inaggirabile.

Il che dovrebbe indurre gli scatenati adepti del decostruzionismo gender al senso del relativo e, di conseguenza, al rispetto della libertà di professare anche l’idea considerata più retrograda, purché non intacchi la libertà di professare quella altrui. Altrimenti è uno scontro fra asserzioni assolute e dogmi di fede.

Decisamente non un passo avanti ma indietro. Molto indietro. Diciamo alle guerre di religione con cui si affacciò all’onor del mondo la modernità.

Parola di Parolin. Il Segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, intervistato da Vatican News il 26 giugno ha smorzato la polemica: “Non è stato in alcun modo chiesto di bloccare la legge. Siamo contro qualsiasi atteggiamento o gesto di intolleranza o di odio verso le persone a motivo del loro orientamento sessuale, come pure della loro appartenenza etnica o del loro credo. La nostra preoccupazione riguarda i problemi interpretativi che potrebbero derivare nel caso fosse adottato un testo con contenuti vaghi e incerti, che finirebbe per spostare al momento giudiziario la definizione di ciò che è reato e ciò che non lo è”.

Detto che nel conquibus il prelato ha ragione, perché un povero giudice avrà la sua bella gatta da pelare quando dovrà stabilire il confine fra ciò è ammesso sostenere e ciò che non lo è, l’impressione è che il pontefice, ben nascosto dietro le quinte da consumato comunicatore quale è (ah, i gesuiti, che lenze), abbia mandato avanti il fido Parolin per dire una parola di distensione che riduce molto la forma, ma non la sostanza della contesa. Ci sarà pure una ragione, d’altronde, se la Chiesa bene o male dura da duemila anni.

Lucetta dei nostri occhi. Ebbene sì, una mente illuminata che l’ha messa giù bene, piana, semplice e incontrovertibile, c’è. È cattolica, ma anche un miscredentaccio uscito dal tunnel postmodernista potrebbe tranquillamente sottoscrivere.

Udite e gioitene tutti: avversare la filosofia ispiratrice del Ddl Zan non è “istigazione all’odio contro gli omosessuali, o i transgender o quanti vogliono essere classificati come fluidi, ma solo libertà di dire che gli esseri umani, tranne una minoranza esigua, nascono o donne o uomini. Dire questo non significa ovviamente che non si possa poi scegliere il comportamento sessuale, anche in opposizione all’appartenenza biologica. Significa solo poter affermare una verità che è sotto gli occhi di tutti, sostenuta anche da laici e da una parte delle femministe. Significa dire che i desideri trovano un limite nella realtà, e dobbiamo tenerne conto se non vogliamo entrare in una confusione pericolosa e sterile”: Lucetta Scaraffia (Il Giorno, 24/6).

Andate in pace, che non è ancora tempo di svaticanamenti.

 

Alessio Mannino

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