Sanremo 2022. La mistificazione della musica e della realtà. Zalone fuoriclasse

Nel 2019 fu la volta di Mahmood come il ragazzo figlio di madre italiana e padre egiziano perfettamente integrato a vincere il Festival di Sanremo con la canzone “Soldi” le cui frasi in arabo e rime furbe avevano mandato in visibilio la giuria di qualità (infima) radical chic che annullò il verdetto popolare che voleva Ultimo al primo posto, quest’anno, a Sanremo 2022 Mahmood si è presentato in coppia con tale Blanco cantando “Brividi”, canzone inascoltabile e incantabile, con scontato inserto rappato, testo debole e messaggio mainstream incorporato, la solita solfa dell’italo-immigrato e del carrozzone gender-fluid che ha fatto la differenza più che la canzone stessa e le voci lagnose dei tue interpreti, soprattutto quella salmodiante di Mahmood. Della canzone si salvano le due battute iniziali, quella senza voce, che sembrano un’introduzione Fusion.

Sanremo 2022: la canzone vincitrice

Brividi, manco a dirlo, ha vinto Sanremo 2022 suscitando polemiche, come accade da sempre alla kermesse canora (basti pensare alle edizioni più recenti: il vergognoso secondo posto del principe Filiberto, la vittoria del piccione di Povia sulla meravigliosa canzone dei Nomadi “Dove si va”), battendo la fiabesca ed eterea Elisa, che trasmette una sensazione di pace quando canta, seconda classificata con “O forse sei tu” e l’eterno ragazzo Gianni Morandi, terzo classificato con l’allegra canzone “Apri tutte le porte”.

C’erano almeno altre 5 canzoni più belle della vincitrice di quest’anno, più orecchiabili ed emozionanti, ma durante le serate del Festival sala stampa e giuria demoscopica hanno tenuto in alto Mahmood e Blanco, fino all’ultima serata che prevedeva anche il voto da casa. Segno dei nostri tempi: si deve affermare quanto più si può una ideologia, quasi a volerla installare a tutti i costi della testa dei più riottosi, retrogradi fascisti, transomofobi!

Come tante altre parate della televisione pubblica, il festival, da leggere come fatto antropologico, veicola messaggi politici e nuovi conformismi, quindi è esso stesso propaganda di opinioni e stili di vita che non hanno utili economici immediati ma di condizionamento delle masse, soprattutto dei giovani. Non sono le case discografiche a tratte profitto dal festival luogo, come tanti altri, dove si consumano markette, bensì gli sponsor.

Le presenze perlopiù da “superopsiti” di Elisa, Massimo Ranieri, Gianni Morandi, Iva Zanicchi sono servite ad alzare l’asticella del concorso, a far contenti tutti, visto che Sanremo è un festival nazionalpopolare. Si certo i suddetti cantanti non hanno bisogno di Sanremo, continuano a stare sulla scena da anni, hanno venduto e vendono dischi, fatto concerti, hanno una carriera. Carriera che molto probabilmente non avranno la maggior parte di coloro che hanno partecipato alla gara, perlopiù incapaci di cantare, “rapper” improvvisate per mascherare le proprie lacune canore.

Brividi tra qualche anno sarà dimenticata, non entrerà nel quotidiano degli italiani, nella storia del Festival, e non vincerà nemmeno all’Eurovision, le canzoni di Ranieri, Zanicchi, Morandi, Elisa e altri che magari non hanno nemmeno mai partecipato a Sanremo (Venditti, De Gregori, Guccini, che però fu escluso e De André che non amava la competizione), oppure non hanno mai vinto, invece sono entrate nel nostro cuore, sono diventate parte della nostra italianità.

La formula sanremese andrebbe ancora una volta rivista: è indecente e irrispettoso inserire all’interno della stesso gruppo quelli che una volta si chiamavano “big” e i giovani sconosciuti o usciti dai talent, le “quote Maria de Filippi” che registrano migliaia di visualizzazioni sui social e su Youtube. Si ritorni alla divisione tra big e nuove proposte, possibilmente dando più spazio alla qualità musicale piuttosto che allo show e ai pistolotti moralisti per educare il popolo incivile che non vuole adeguarsi alle ideologie e al politicamente corretto.

L’ipocrisia dei benpensanti

Del resto bisogna ricordare che nel 2019 nessuno scrisse che a vincere Sanremo era stato un rapper di nome Mahmood, tutti scrissero che a vincere era stato un italo-egiziano di nome Mahmood. E a farlo furono soprattutto i giornali di sinistra, strumentalizzando la sua vittoria per andare contro Salvini.

Non ci sarà mai integrazione se si continuerà a sottolineare in questo modo le differenze. lo stesso discorso vale anche se ci spostiamo sul terreno del gender fluid, del femminismo, del razzismo. Non si fa che parlare di inclusività; si è visto un lungo e imbarazzante monologo da parte di un’attrice italiana di colore, Lorena Cesarini, in veste di moralizzatrice tesissima e testimonial di un libro sul razzismo edito dalla Nave di Teseo, in virtù del fatto di aver ricevuto insulti razzisti sui social da qualche imbecille. Questi atti vergognosi non fanno dell’Italia un paese razzista e probabilmente certi insulti non hanno nemmeno quella matrice. Ma fa comodo pensarlo a chi si prepara la lezioncina moralistica.

Non ci sono forse anche altri preoccupanti problemi? Ad esempio la confusione nelle nozioni più semplici, il pressappochismo dialettico, l’instabilità emotiva, l’inclinazione, oltre che al narcisismo e all’omologazione, a un cripto-fascismo travestito da movimentismo progressista, che sfociare in delirio di onnipotenza, il vittimismo a prescindere, i pregiudizi al contrario, la superficialità?

I pistolotti moralistici

Il cantante Marco Mengoni nella serata finale del Festival, ha menzionato la Costituzione, facendo confusione tra minaccia ed insulto, citando alcune espressioni di utenti social, a senso, perché naturalmente le vittime sono sempre quelle categorie di persone che a quanto pare non possono essere oggetto di satira, di scherzo, perché no di insofferenza. Insofferenza dovuta al continuo martellamento mediatico su tematiche che non dovrebbero essere nemmeno tali, perché si tratta della sfera più intima della persona. A Sanremo possono partecipare tutti, purché dotati di una qualche cifra artistica, nessuno impedisce ad un omosessuale, ad un figlio di immigrati, ad un transgender, di partecipare. Perché questa ossessione? Perché nominare chi fa una critica, una battuta, come hater? Perché non dire che anche chi è ritenuto vittima a priori, si lancia in offese, praticando turpiloquio e violenza verbale?

Lucio Dalla, che amava partecipare a Sanremo, era omosessuale, ma non ne ha fatto mai una bandiera. La sua bandiera erano le sue canzoni. Promuoveva la sua arte, non una causa, una ideologia da far assimilare a tutti i costi a chi la vede in modo diverso o a chi non interessa minimamente il privato di una persona.

L’insofferenza si fa ancora più forte se si pensa al periodo storico gli italiani stanno vivendo, alle restrizioni, a chi si vede privare di veri diritti, a chi viene discriminato perché non ha un pass per andare dal tabaccaio, a chi si vede costretto a cedere ad un ricatto per non perdere il lavoro. Dal punto di vista di queste persone, vedere pontificare in tv su razzismo (inesistente) e fluidità di genere può annoiare e infastidire, non perché le persone siano tutte razziste, omofobe o perché tirino fuori il loro lato razzista ed omofobo, adagio trendy per assecondare la convinzione di chi vede questo mondo cattivo, razzista, e omofobo, contro di loro, piuttosto perché sono consapevoli di non essere fortunati quanto i fenomeni arroganti che salgono su un palco importante, dimostrando quanto siano distaccati dalla realtà e dai problemi seri della gente comune che in testa ha ben altri pensieri e che non capisce che cosa si dovrebbe dire o fare per supportare la gender fluidity stando attenti a non urtare mai la sensibilità altrui.

 

Checco Zalone: una boccata di ossigeno

A squarciare il velo dei buoni propositi e dei sentimenti nobili a Sanremo 2022 ci ha pensato Checco Zalone, un moderno Alberto Sordi che si fa beffe del famigerato uomo medio, e che pure ha suscito qualche disappunto nella comunità LGBTQ che evidentemente non ha compreso il sarcasmo di Zalone e che vorrebbe essere narrata in termini entusiastici. C’è anche chi ha etichettato il suo sketch sui trans come anti-omofobo. Insomma ognuno ci ha visto quello che voleva.

Tuttavia Zalone non ha fatto nulla di quello accennato, il comico pugliese di diverte a fare la spola a tutta velocità tra gli opposti estremismi dove risalta alla sua inimitabile maniera bipartisan di prendersi gioco di tutti, senza scadere in discorsi lacrimevoli che menzionano la parola diritti, ottenendo il risultato di far credere ogni volta a ciascuno (tele)spettatore che non sia lui, bensì il vicino di sedia, casa o di poltrona a essere preso per il sedere e svelato nella sua ipocrisia. Strepitose anche le parodie del rapper assalito dai propri demoni e del virologo di Cellino San Marco che scimmiotta Albano.

Sanremo ormai è diventato anche il festival dei meme, ma c’è ben poco di edificante e magnifico in questa mutazione virtuale; ciò dimostra che siamo una società chiusa su se stessa, legata ai video, agli smartphone, alle faccine, ai meme, dove ogni pettegolezzo di bassa bottega o pensierino da due soldi diventa virale! Si dovrebbe invece insegnare ai giovani che virale non è sinonimo di importante, rivoluzionario, eversivo e di fare di se stessi uomini e donne costruttori della Storia, imitando i loro nonni e nonne non cantanti improbabili con i capelli rosa, con la gonna e autotune. Non li rende dei geniali ribelli, semmai dei pargoli ammaestrati che pensano di fare successo senza avere talento, senza studiare, senza capire cosa sia l’Arte.
Quale sarà il prossimo step moralistico-canoro? Una canzone anti-specista? Perché no. Ambientalista? C’è già, ed è la soave “Ci vuole un fiore” di Sergio Endrigo, scritta da Gianni Rodari ben prima di Greta Thunberg e company.
Brevissima nota a margine: fanno tenerezza alcuni vecchi ed irriducibili comunisti come Vauro che si sono eccitati credendo davvero che il pugno chiuso della Rappresentante di lista alla fine della canzone Ciao Ciao fosse un riferimento alla loro ideologia. Anche Salvini ci ha creduto, e si è lamentato.
Ma come funziona esattamente il televoto? Davvero è impensabile che chi sponsorizza un artista non abbia il potere di acquistare molti voti.

 

 

 

Claudio Lolli, poeta malinconico prestato alla canzone d’autore italiana

Molti cantautori italiani sono scomparsi prematuramente. Si pensi solo a Fred Buscaglione, Luigi Tenco, Rino Gaetano, Lucio Battisti. Claudio Lolli, uno dei padri della canzone d’autore italiana, è morto a 68 anni nel 2018.

È scomparso anzitempo se consideriamo l’aspettativa di vita in Italia, seppur non giovanissimo. Soltanto con la pubblicazione del suo ultimo album è riuscito a vincere la targa Tenco, nonostante avesse frequentato per anni quel palco. Ciò è il segno che la qualità del cantautorato fosse elevata, ma dimostra anche una certa incomprensione, una certa miopia nel giudicare l’arte di Lolli.

Qualcuno negli anni settanta diceva molto malignamente che Lolli istigasse al suicidio, ma era totalmente errato. Invece amava la vita. È del tutto naturale talvolta guardarsi indietro, volgersi dietro, soffermarsi a pensare al tempo trascorso. La malinconia è un sentimento universale, una costante umana e assumono una posa coloro che non ne parlano o fingono di non provarla in nome di una presunta oggettività o in nome di un posticcio stoicismo.

Lolli non era per autodistruzione ma per piacere, peraltro moderato, che amava le sigarette ed il vino. Lolli era un poeta malinconico prestato alla canzone ed ispirato da una autentica passione civile. Eppure non si riteneva un poeta. Pensava che la canzone d’autore fosse una supplente della poesia contemporanea. Era da sempre schierato contro la retorica ma anche contro la puerilità delle canzonette.

Non cercava mai formule facili né slogan politici, pur essendo dichiaratamente di sinistra. Certe sue canzoni sono dei ritratti memorabili di una Italia che non esiste più. Lolli è stato cervello acuto e cuore pulsante del movimento studentesco bolognese; mai sdolcinato, mai mellifluo, è rimasto negli anni sempre fedele a sé stesso; ha sempre saputo suscitare emozioni e sentimenti senza mai voler persuadere nessuno.

Per dirla con una delle sue ultime canzoni non è stato un uomo senza amore. I suoi testi sono sempre stati incisivi, letterari e pregnanti. Lolli ha cantato il tormento, la disillusione, l’estraneità, l’inadeguatezza della sua generazione, alternandoli a momenti di intimismo. Nonostante il riflusso ed il disastro degli anni ottanta ha continuato a descrivere i vizi e le virtù della nostra penisola. Anche musicalmente è sempre stato originale, sapendo fondere elementi di jazz con il rock progressive.

Per dirla alla Vittorini ci sono due tipi di opere creative: quelle che ci confermano il mondo come noi lo conosciamo e quelle che ci fanno vedere in modo nuovo il mondo. Ebbene Lolli aveva un suo stile unico, inconfondibile e personale. Spicca per il lirismo con cui ha cantato i giovani del ’77 e con cui ha cantato la sua Bologna.

Era per quanto possibile contro il sistema. Infatti dopo il successo chiuse i rapporti con la EMI, una multinazionale, per approdare ad una casa discografica indipendente. Insomma nessuno poteva dargli del venduto in quanto era di specchiata moralità, lontano  da ogni tipo di compromesso. Ritornando al discorso della nostalgia, tutto al più si sarebbe potuto considerare depresso ma non deprimente. Lolli aveva molto da dire e le sue canzoni lo hanno sempre testimoniato.

Lolli è stato il poeta della generazione bolognese del 1977. Ha cantato le inquietudini, le contraddizioni, le speranze, i sogni di quella generazione. Come ha detto il professor Franco Berardi, detto Bifo, quella generazione, difficilmente inquadrabile ed etichettabile, e con essa Claudio Lolli aveva il merito fondamentale di chiedersi cosa fosse la felicità. Il nostro ha frequentato ed influenzato altri cantautori impegnati.

Ha insegnato a Vecchioni a strafregarsene dei ritornelli. Si è dedicato con passione all’insegnamento ed ha lasciato una traccia indelebile nei suoi studenti. È stato un docente umano, mai fazioso o settario, sempre pronto a formare culturalmente invece che a deformare giovani menti a propria immagine e somiglianza. Era un uomo di parte ma mai fazioso e sempre aperto al confronto, al dialogo. Era perfettamente consapevole che nessuno ha la verità in tasca e che chiunque ha la facoltà di fare la propria scelta di campo.

L’insegnamento, peraltro mestiere  sempre svolto ottimamente, è stata anche una scelta obbligata per garantirsi uno stipendio fisso e per avere più libertà come cantautore.

Claudio Lolli ha raccontato di aver preso la decisione di insegnare dopo aver cantato un pomeriggio in una discoteca di Salerno. Prima ha fatto un lungo viaggio da Bologna a Salerno. Poi ha cantato davanti ad un pubblico disinteressato, impaziente di scendere in pista a fare quattro salti. Capì allora che per garantirsi un futuro doveva insegnare.

Lolli raggiunse il culmine del successo con l’album “Ho visto anche degli zingari felici”. È nella prima canzone dell’album che tratta delle conflittualità e delle incomprensioni della sua generazione e di quella dei suoi genitori, mentre propone i rom come un mondo altro, che può proporre altri valori e una altra vita.

I rom quindi come realtà alternativa da valutare seriamente e a cui guardare con interesse. Ma in quell’album c’era anche “Anna di Francia” in cui scriveva che l’alternativa non era “solo ideologia ma organizzazione”. Aveva naturalmente ragione. Si pensi a quante astruserie e quanti discorsi fumosi la classe operaia era destinata a sorbirsi quando nessun ex operaio sedeva tra gli scranni del parlamento e la vera cultura operaia era un’utopia.

Non parliamo poi di una organizzazione umana e scientifica nelle fabbriche italiane, dove si guardava ancora a Taylor e Ford negli anni settanta, negli anni ottanta si considerava solo alla produzione di massa, e le scoperte più recenti della psicologia del lavoro non venivano minimamente considerate.

Un’altra canzone che fece epoca è Michel, storia di una amicizia dalla fanciullezza alla giovinezza tra due ragazzi in cui venivano amalgamate invidia, affetto, rivalità, piccoli bisticci. È vero che gli amici di infanzia non ce  li scegliamo un poco come i parenti, ma allo stesso tempo sono figure fondamentali che hanno plasmato la nostra personalità di base e fanno parte della nostra esperienza atavica e primordiale.

Spesso sono ricordi lontanissimi, che talvolta scacciamo dalla mente, però poi ritornano quando meno ce lo aspettiamo nei nostri sogni. Michel è una storia triste con l’amico che se ne va, la sua madre che muore, l’addio alla stazione. Michel come dichiarò in una intervista Lolli era finito malandato, trasandato, povero in Francia, dalle notizie che aveva avuto.

Ma ogni volta che la cantava in un concerto era una pagina memorabile della memoria, era la rievocazione di una amicizia. In “Venti anni” Lolli testimonia la grandezza e la miseria di quell’età, la condizione esistenziale di chi era giovane allora. In “Borghesia” il cantautore bolognese aveva denunciato la piccolezza e la grettezza di quella classe sociale da cui proveniva.

In Lolli troveremo più volte nelle sue canzoni la conflittualità edipica della sua estrazione borghese e della sua formazione intellettuale progressista. Chiunque sia solo e diremmo oggi sfortunato con le donne si riconosce benissimo in “Quelli come noi”. In “Piazza bella piazza” viene trattato il tema delle stragi di stato, nel caso specifico dell’Italicus.

La rabbia di chi vive in periferia è descritta magistralmente in “Io ti racconto”. Ma il cantautore ha saputo scrivere anche delle belle poesie d’amore come “Donna di fiume” e “Vorrei farti vedere la mia vita”. Più recentemente con “Il grande freddo” ha fatto una metafora e allo stesso tempo un  resoconto di quella generazione di contestatori.

Da notare che il titolo dell’album è un riferimento al film omonimo di Kasdan, in cui degli ex liceali sessantottini si ritrovano quindici anni dopo al funerale di un loro compagno e fanno un bilancio complessivo. Ma in Lolli il discorso poi alla fine si estende a tutta l’umanità e non riguarda solo la sua generazione.

È indicativo a riguardo che il cantautore pensi all’amore perduto e sprecato sugli autobus. Oggi Lolli viene riscoperto e giustamente valorizzato però più dagli intellettuali che dai mass media. D’altronde non poteva essere altrimenti per uno che aveva come maestri Dylan, Cohen, Brel, Brassens. Recentemente Luca Carboni ha fatto una cover di “Ho visto anche degli zingari felici”.

È consigliabile però ascoltare tutte le canzoni di Lolli e  non fermarsi alle più celebri. Leggete in rete per farvi una idea della grande qualità i suoi testi. Ascoltate su YouTube le sue canzoni. Comprate i suoi CD. Si rimane stupiti della sua precocità artistica. Poco più che ventenne dimostrava già una grande maturità e una grande umanità.

Così come ha sempre impressionato la sua prolificità (più di venti album, delle raccolte di racconti, una silloge poetica, un romanzo) e il fatto che non avesse cadute di tono. Allo stesso tempo nelle sue opere troviamo un fil rouge, ma in ognuna di esse si può verificare quanto il cantautore sapesse rinnovarsi e sperimentare artisticamente.

Ogni canzone era diversa, ma aveva lo stesso imprinting e lo stesso imprimatur. Il cantautore è stato fratello maggiore, compagno, professore, amico di molti ragazzi. Recentemente hanno preparato un evento intitolato “Da Lolli e dintorni. La poesia civile di Claudio Lolli”.

 

Davide Morelli

Sanremo 2018: una nuova e spontanea nostalgia naziol popolare

C’è un barlume di tradizione che fa schizzare l’indice di qualità di qualsivoglia consenso. Non sempre il giovanilismo innovativo (o finto tale) è sinonimo di geniale ascesa darwiniana: macché. A volte il nuovo puzza di vecchio. Altre è morto dentro. Prendiamo Sanremo 68  –, tra i fiotti di artisti trentenni e ventenni della new age musicale, si fa spazio un venticello classicista soffiato da antichi lupi di mare. L’onda briosa solletica il pubblico, che in molti casi, mica è fesso.

Prendiamo Ron, ha assorbito gentilmente l’idea di un cantautore niente male: Lucio Dalla. L’inedito di Lucio cantato alla Lucio (fiocamente stralunato ma senza onomatopee), ridisegna l’orizzonte dell’innamorato speranzoso. Almeno pensami: «Ah fossi un piccione, che dai tetti vola giù fino al suo cuore. Almeno fossi in quel bicchiere, che quando beve le andrei giù fino a un suo piede. Fossi morto tornerei per rivederla ogni mattina quando esce. Avessi il mare in una mano, ce ne andremo via fino al punto più lontano. Almeno pensami, senza pensarci pensami. Se vai lontano scrivimi, anche senza mani scrivimi». Il tutto condito da un arpeggio di chitarra, a scanso di effetti speciali. L’elogio dell’amore semplice, del rodimento vero e non della sciancata banalità.

Prendiamo Barbarossa, ha l’intuizione di rispolverare l’etimo delle borgate romane, quello incastonato nell’epica letteraria da Pier Paolo Pasolini, quello giocoso e bruciante di Trilussa e Aldo Fabrizi. Sì, anche quello di Gadda in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Passame er sale, un invito genuino all’amore di sempre, alla nemica di sempre. Invito di autentica esistenza, da afferrare senza esagerare, sia chiaro. Perché “er sale fa male”.

Prendiamo i Decibel (Enrico Ruggeri e company). Alzano i decibel! Misteriosi come sempre, fuori dal tempo come sempre. Lettera dal duca è una missiva di stima artistica mandata da David Bowie – da chissà quale dimensione postale – al sodalizio meneghino. Questo pezzo, come la gran parte delle produzioni ruggeriane, è un giallo in musica, un rompicapo possibile. Il sound è cautamente glam-rock, con influenze elettro-pop provenienti dagli idoli della Germania del Settanta: i Kraftwerk.

Ma non finisce qui. Molto bravo Bungaro nel suo inciso di Imparare ad amarsi, suggestione jazz and romantic blues. Sì, bravo anche Pacifico, peccato che il totem Vanoni fagociti la scena con cupidigia.

Prendiamo Max Gazzè, fruitore del pezzo più originale tra i big in gara. Il racconto morbido e caratteristico di una fiaba popolare, di un amore impossibile e per questo eterno: La leggenda di Cristalda e Pizzomunno, una sirena degna di Ulisse assieme al pescatore coraggioso. Narrazione leggendaria che addolcisce il mare di Vieste. Attesa poetica che non conosce fine. I due protagonisti un giorno si rincontreranno e non si separeranno più. Tutti lo vorremmo. E prendiamo il duo Enzo Avitabile-Beppe Servillo, con la loro canzone mediterranea Il coraggio di ogni giorno, che parla di vinti, descrivendo lo sguardo dell’uomo di tutti i giorni che canta la sua vita ovunque e comunque: due superospiti in gara.

C’è un barlume di tradizione che spinge ad abbeverarsi al Lete della qualità. Elemento essenziale in un simposio che si rispetti. Non sempre il giovanilismo innovativo è sinonimo di corretta azione filosofica: tutt’altro. A volte il vecchio è nel nuovo. Non basta tatuarsi e battere quattro quarti, o meglio ancora, non basta solcare le acque di un talent per vivere artisticamente. Spesso è così che il narratore muore dentro. Senza nulla togliere ai primi tre classificati, soprattutto al pezzo vincitore Non mi avete fatto niente interpretato in maniera magistrale dal duo Ermal Meta e Fabrizio Moro, e al secondo classificato, una delle rivelazioni, insieme al duo Diodato-Paci, il gruppo indie-rock Lo Stato Sociale con la scanzonata ma non stupida Una vita in vacanza.

 

L’intellettuale dissidente

In ricordo di Luigi Tenco a cinquant’anni dalla sua morte

Sembrava andare tutto secondo copione quella sera del 1967 al Festival di Sanremo. La diretta televisiva mostrava volti sorridenti e star brillantinate che si esibivano seguendo un ordine prestabilito. L’ultimo cantante in gara, che chiudeva la seconda serata del festival, era Luigi Tenco, ma ad ammirarlo potevano esserci solo gli spettatori del Casinò perché la diretta televisiva era stata interrotta per lasciare spazio ad un documentario intitolato “Un giorno alle corse”.

Il brano di Tenco è bello, un grande affresco sugli addii, sull’abbandono, sulle tradizioni. Ma è troppo per un festival legato a strutture melodiche preimpostate e che accetta malvolentieri canzoni impegnate fuori dagli standard. Così “Ciao Amore, Ciao”, cantata anche da Dalida è eliminata e non viene neanche ripescata dalla giuria di esperti più orientata a mantenere equilibri tra le etichette discografiche che a valutare serenamente il pezzo.

Secondo le versioni ufficiali dopo l’esibizione Luigi Tenco, deluso e amareggiato per l’eliminazione, si sarebbe suicidato nella sua camera d’albergo. A distanza di cinquant’anni, però, il condizionale resta d’obbligo perché le circostanze precise che lo hanno condotto alla morte non sono ancora chiare. Che si sia trattato di suicidio o di omicidio resta però il fatto che quel venerdì 27 gennaio 1967 ci ha lasciato uno dei più grandi innovatori della musica leggera italiana.

Tenco insieme a Fabrizio De André, Bruno Lauzi, Gino Paoli e Umberto Bindi era tra gli esponenti della scuola genovese che, con riferimenti dal gusto internazionale, ha cambiato radicalmente l’approccio della canzone sui temi impegnati. Il sociale, l’individuo, l’ideologia e tanti aspetti della vita quotidiana cominciano ad invadere le melodie di questi cantautori.

Luigi Tenco ha però qualcosa in più. È un sassofonista, il jazz gli è familiare, e da questo genere acquisisce lo spirito di libertà che riecheggia anche nei suoi testi. Tenco riesce a combinare lo spirito rivoluzionario e i sentimenti in un tormentato e struggente racconto della sua contemporaneità che assume toni di sublime poesia.

Forse è arrivato il momento di dire con forza a Luigi, in un dialogo impossibile, ti vogliamo bene e ti ringraziamo per le parole che ci hai lasciato. Il Festival è stato ingrato nei suoi confronti ma, si sa, lo show deve andare avanti. Chissà se oggi a distanza di cinquant’anni Carlo Conti non vorrà rendergli giustizia dedicandogli lo spazio dovuto.

Probabilmente aveva ragione Donatella Rettore che in un celebre pezzo cantava È morto un artista, e invece di piangere fanno festa!. Le parole più belle però sono quelle che gli dedica Faber nella “Preghiera in gennaio”, uno dei brani più struggenti scritti da De Andrè.

A noi non resta che ascoltare e assaporare le note di questi grandi artisti perché, in realtà, Tenco è immortale e ogni volta che riascoltiamo le sue parole torna a vivere nello splendore dei suoi ventotto anni.

“Gli Altri Ottanta”, il viaggio punk di Livia Satriano

Gli Altri Ottanta (2014) è un viaggio raccontato dalla promettente Livia Satriano. Un viaggio percorso a ritroso, con la memoria, immortala un’epoca attraverso i racconti dei protagonisti della scena musicale underground. L’approccio narrativo scelto dall’autrice consente al lettore di ripensare quel decennio ben oltre i lustrini e l’edonismo commerciale.

Il titolo non a caso richiama gli altri ottanta, l’altra faccia della medaglia di un’epoca, raccontata attraverso quattordici testimonianze raccolte dalla Satriano con l’approccio di una cronista e così facendo offre al lettore inediti scorci di vita sociale e di vita personale. In Gli Altri Ottanta la colonna sonora è senza dubbio la rivoluzione punk e il post-punk italiano. Nella trama sottile di questi racconti non emerge la fastidiosa autoreferenzialità ma narrazione sincera. Il testo risulta immediato, merito anche delle numerose foto e locandine che consentono di immergersi in quegli scenari, nell’humus di quello spleen sospeso tra innovazione e sperimentazione, con l’ebbrezza che solo la giovinezza spavalda, irriverente e spettinata può generare.

“Vorrai mica che ti parli degli anni ottanta?”. Inizia così il primo contributo firmato Freak Antoni, leader degli Skiantos. Le voci che si incontrano nelle pagine de Gli Altri Ottanta sfatano i numerosi e ricorrenti luoghi comuni e allo stesso tempo Livia Satriano riesce ad evitare la noiosa operazione revival. Ciò che la giovane autrice realizza in Gli Altri Ottanta è la raccolta inedita delle testimonianze storiche avvalendosi della musica come lente e chiave di lettura socio-antropologica da non sottovalutare.

Emerge il ritratto di una generazione sulla quale molto si è scritto ma forse poco è stato compreso, a causa di quello snobbismo intellettualoide che ha fatto di quegli anni uno stereotipo sdoganato. Infatti proprio sugli anni ’80 resta ancora un punto di domanda e un irrisolto che meriterebbero a mio avviso di essere snodati, per comprendere l’eco che condiziona il presente.

In una sorta di canovaccio a più mani in Gli Altri Ottanta si intrecciano le linee generali di un periodo ma preservano come epicentro la nascita di un nuovo approccio alla musica rock. Gli anni ‘80, infatti, non sono stati soltanto quelli del culto dell’ottimismo e del consumo a tutto campo, della ‘Milano da bere’ e della musica dance. Il decennio compreso tra la fine degli anni ‘70 e la fine degli anni ‘80 è stato, in primo luogo, un periodo di grandi cambiamenti e di profonde contraddizioni. Sono proprio gli anni di quel meraviglioso Week-End Postmoderno firmato Pier Vittorio Tondelli e della fauna cresciuta all’ombra degli anni di piombo e del nuovo boom economico. Questi ultimi hanno determinato il cambiamento dei contenuti di una intera società e dei suoi miti culturali, anche e soprattutto alternativi e di subcultura.

Gli Altri Ottanta non è un testo per nostalgici o estimatori di quel periodo, o meglio non solo, è un testo per chi è mosso da curiosità. Così Livia Satriano preferisce affidarsi ai racconti dei diretti protagonisti nonché testimoni privilegiati. Passa in rassegna il rock “demenziale” e provocatorio degli Skiantos, le influenze punk-wave dei CCCP, la wave cantautorale dei Diaframma… Sintomo di quanto anche nei giovani italiani si era diffuso un senso di insofferenza che andava di pari passo con una forte e sentita necessità di cambiamento.

Negli ‘Anni di Pongo’ (cit. Freak Antoni) una delle Muse oltre che centro di ‘gravità permanente’ è stata Bologna e il Dams, le uniche sedi in grado di raccogliere la smania giovanile che si respirava nell’aria, come non ricordare Andrea Pazienza. Seguirono Firenze e le province italiane, fino ad investire tutta la penisola con una fitta rete underground. Gli Altri Ottanta di Livia Satriano consente di ripensare, a sangue freddo, a quel controverso momento storico e musicale in cui le possibilità sembravano infinite, all’insegna della creatività e di quel nomadismo alla Derrida. Le pratiche di quegli anni si traducono in rituali elettronici, senza alcun sentimentalismo o ideologia dal retrogusto amaramente sessantottino: è il Postmoderno. Quel macrocosmo che racchiude l’uomo tardomoderno, costrutto della spersonalizzazione propria della odierna società dei consumi.

La fauna anni ’80 è archetipica delle categorie sociali ampiamente stereotipate. I contorni della realtà si dilatano sotto l’effetto di luce a neon che crea una dimensione surreale, fittizia e destabilizzante. Si resta ingabbiati in questa luccicante quanto mai asettica realtà, valutazioni artefatte e resta un’incognita. Si dispiega un orizzonte agli antipodi, quasi stessimo parlando d’altro, non di quegli anni. Ecco l’altro volto della stessa medaglia, attraverso una spirale di episodi, di storie che si intrecciano con altre storie, di apnea cognitiva che caratterizzano Gli Altri Ottanta.

Tutto in Gli Altri Ottana richiama il “vuoto pneumatico” di postmoderna memoria, di tutti coloro che non trovavano il baricentro in se stessi e che allo stesso tempo con purezza emotiva coltivavano il sentimento dell’amicizia e dell’amore in modo sincero e ingenuo per la musica. L’amore, appunto, senza sfumature ma nella sua veste più devastante e assoluta, sembra l’unico sentimento in grado di redimere e che esercita una cura catartica alla realtà. Il bisogno costante di viaggiare, di cercare nell’altrove nuovi stimoli e soprattutto il bisogno di dimenticare il grigiore e l’indifferenza che ha circondato quella ‘strana generazione’, in nome di esperienze che potessero fare sentire loro che esistevano.

Livia Satriano è abilissima nel non s-cadere nell’autocompiacimento, nella retorica che redime il passato solo perché ‘si stava meglio quando si stava peggio’ o nell’odierno sdoganato fenomeno Hipster. Al contrario, il suo stile rispetta la vocazione del narrare con lucido realismo e con la consapevolezza che tutto fugge, finisce e muta, senza troppi piagnistei, sia chiaro.

 

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