Lucio Corsi, il mondo poetico e la campagna come ‘locus amoenus’

Un artista delicato, dolce, onirico, un cantautore ispirato come ormai non se ne incontrano quasi più. Ascoltare Lucio Corsi oggi è rivivere un tempo quasi dimenticato. Una Madeleine di Proust, un ricordo felice che si ripresenta; l’estetica vagamente ispirata a Ziggy Stardust di David Bowie, l’universo musicale che ha sfumature di Ivan Graziani, forse Lucio Dalla e Randy Newman pur mantenendo una linea originale netta. Lucio Corsi piace perché, come i cantautori di un tempo, non si vende al mercato dell’infallibilità ma fa poesia cantando la natura che lo circonda.

I suoi testi sembrano avvolti da una sorta di realismo magico e antropomorfismo: popolati da animali e scenari bucolici, come una favola di Esopo o Fedro, i brani di Corsi raccontano la natura, la campagna, il mondo contadino e le tradizioni legate a un tempo ormai dimenticato. Altalena Boy/Vetulonia Dakar è la raccolta dei suoi primi due EP, in cui mescola l’ambientazione bucolica a sfumature fantastiche, mentre Bestiario Musicale è il primo album dell’artista dove la dimensione favolistica è centrale; i testi, apparentemente scanzonati, celano invece significati profondi e ricordano a tratti la poetica di Gianni Rodari.

Bestiario musicale

Nel disco Cosa Faremo Da Grandi, azzardando un parallelismo, si riscontra ancora una sfumatura rodariana; nello specifico il Rodari della raccolta Filastrocche per tutto l’anno dove il poeta di Omegna racconta aspetti della vita quotidiana, il fluire del tempo, i sentimenti come l’amicizia e l’importanza della solidarietà. Il fiabesco ingloba anche la seconda traccia del disco, Freccia Bianca, pur trattandosi di un brano più autobiografico; il treno è lo spirito di un pellerossa che risale, dall’amata Maremma, la strada verso Milano. E anche il vento, per qualcuno fastidioso, può diventare un buon amico; nel brano Trieste, Corsi scrive:

“Il vento no, non è un freno, ma una spinta”.

Risulta chiara l’immagine lirica di cui l’artista fa dono a chi ascolta la sua musica: una condizione apparentemente avversa può nascondere elementi positivi. Anche nella visione di Eugenio Montale a volte il vento può essere segno di vitalità positiva. Il poeta ligure In Limine ( Ossi di Seppia, 1925) scrive:

‘’Godi se il vento ch’entra nel pomario

vi rimena l’ondata della vita […]’’.

Nei versi di Montale il vento rappresenta l’ondata della vita, il cambiamento che può accadere; proprio come Lucio Corsi ricorda in Trieste: a volte lo scompiglio è opportunità. Quello che colpisce dell’artista è l’abilità di cantare la normalità, un quotidiano intriso di sogno ma anche di sentimenti che accomunano; è il caso di Tu sei il mattino (2024) dove Corsi canta la giovinezza e gli anni del liceo in una dimensione intimistica e nostalgica che ricorda le band anni ’70, come La Bottega dell’Arte nel brano Che dolce lei o ancora il già citato Ivan Graziani che pure nel brano Agnese si lascia andare al ricordo luminoso della giovinezza, rievocando malinconicamente nella figura della giovane ragazza un tempo dorato e perduto. Ascoltando con attenzione i brani di Lucio Corsi ci si catapulta in un mondo che non c’è più, anche per quanto riguarda la poetica; il registro linguistico colto e raffinato dell’artista, così come gli scenari descritti nei brani, evocano un mondo poetico e onirico che rimanda a grandi nomi della letteratura italiana difficile da scorgere nell’attuale panorama musicale.

La campagna come locus amoenus e la visione favolistica 

Per Corsi la campagna è il locus amoenus per eccellenza; la natura georgica e bucolica ritorna spesso nella sua produzione musicale così come le immagini poetiche che rimandano a un mondo fatto di tradizione contadina. In Tu sei il mattino sfilano gli ulivi, le margherite, la neve e la dolcezza di un amore giovanile:

‘’Ho imparato come stare al mondo dagli ulivi nella rete

Che s’inchinano soltanto sotto al peso della neve

Non me ne fregava niente di Pitagora ed Euclide

Gli occhi fuggivano via dalle finestre, nei prati di margherite’’.

Cosa faremo da grandi

Un universo bucolico che ricorda Myricae di Giovanni Pascoli e le sue onomatopee, soprattutto nel disco Bestiario Musicale, dove la musica che accompagna la bellezza dei testi si fonde in una dimensione surreale. Ascoltando in cuffia L’Upupa, La Volpe, La Lepre, sembra quasi di trovarsi immersi nella macchia Toscana, di notte, mentre i rumori si rincorrono formando un’armoniosa melodia e l’odore degli alberi e della terra ulimosa penetra il proprio essere trasportando l’ascoltatore in un panismo di dannunziana memoria. La Maremma di Corsi è descritta nel suo essere brulla ma anche incantata.

Bestiario Musicale dà voce agli animali che la popolano, quegli animali che un tempo avevano molto più spazio per esprimersi e far valere il loro potere. Cosa resta, quindi, del legame dell’Uomo con il mondo animale? Sembra chiedersi e chiedere l’artista. Ma i brani sono anche un ponte che si collega al passato, a quella dimensione intrisa di leggenda e tradizione che appartiene al mondo contadino dove gli animali sono alleati, non nemici.

Corsi ha raccontato in varie interviste di quanto il brulicare di suoni appartenente al mondo animale della sua amata Maremma sia vivo, di come la genesi delle sue canzoni parta da momenti di vita vissuta, da una lepre che spunta in strada durante la notte, dalla vita invisibile ma pulsante che contorna la campagna del suo paese di origine.

In Corsi ritorna il mito bucolico della campagna, il locus amoenus che rimanda ai tipici luoghi dell’infanzia pascoliana. Il rigoglio della natura, in questo senso, diventa palcoscenico di magia e meraviglia e proprio l’ambiente pastorale rappresenta la più fulgida poetica del fanciullino, ovvero la contemplazione sensibile di fronte alle piccole cose; il «(Non omnis) arbusta iuvant humilesque Myricae» di Virgilio da cui Pascoli trae il titolo della sua raccolta Myricae per sottolineare la bellezza dell’apparente semplicità che può essere colta solo dalla purezza del fanciullo. La natura regala letizia solo a chi sa accorgersi delle piccole cose, un piccolo monito che in Bestiario Musicale è più vivido che mai.

L’Upupa di Lucio Corsi e L’Upupa di Eugenio Montale

La capacità immaginativa di Lucio Corsi è talmente potente da farlo sembrare un antico cantastorie, un folletto bucolico e bizzarro della musica che ha come cori e cantori gli elementi della natura. Il brano “Godzilla” è, per esempio, una canzone surreale popolata da falene e cimici e dalla variegata immaginazione di un bambino, o ancora ‘’Le Api’’ dove il kafkiano e il reale si incontrano sfiorandosi in una eterna danza. E poi c’è ‘’L’Upupa’’ (Bestiario Musicale, 2017) che narra di un movimento punk nato nella foresta:

‘’C’è un movimento punk nella foresta

Gli alberi con i capelli sempre verdi sulla testa

C’è un movimento punk ai limiti del bosco

Con l’upupa che canta allegra le sue origini di zebra

E se ne frega di chi la vede come un male

Di chi la vede come un ponte tra il mondo dei vivi e il mondo delle ombre’’.

Lucio Corsi restituisce una certa regalità a questo uccello mitico visto come oggetto di superstizioni e leggende e, spesso, associato alla morte e all’oscurità. E come l’artista, anche il poeta Eugenio Montale squarcia la veste ferale che la maldicenza aveva accostato al volatile nei versi di Upupa, ilare uccello ( Ossi di Seppia, 1925):

Upupa, ilare uccello calunniato

dai poeti, che roti la tua cresta

sopra l’aereo stollo del pollaio

e come un finto gallo giri al vento;

nunzio primaverile, upupa, come

per te il tempo s’arresta,

non muovere più il Febbraio,

come tutto di fuori si protende

al muover del tuo capo,

aligero folletto, e tu lo ignori.

 

La Maremma immaginata, elogio della provincia e dimensione fantastica

In più di un’intervista Lucio Corsi ha parlato dell’importanza della noia e di come la sua famiglia lo abbia fin da subito indirizzato a farci i conti, in quanto aspetto presente nella vita di ognuno. Corsi ha anche sottolineato, tuttavia, quanto il tedio sia stato motore della sua creatività; la vita di provincia può essere lenta ma proficua e ricca di insegnamenti. Il silenzio può consigliare arte e nell’apparente stasi  il brulicare di vita sussurra fantasia. Il poeta Attilio Bertolucci scriveva ‘’Il passo è quello lento e gaio della provincia’’ (Gli Anni, La capanna indiana, Firenze, Sansoni, 1951) perché la lentezza è anche prendersi il tempo per il piacere della scoperta. La bellezza del mondo fantastico di Lucio Corsi è soprattutto aver ricordato come, in un momento storico che spinge alla velocità e fa sentire fuori luogo chi non è infallibile, bisogna sempre rimanere sé stessi, non snaturandosi. E allora ecco che l’artista propone una Maremma che è scrigno di sogno: nella zona Toscana amata dallo scrittore Carlo Cassola la poetica di Corsi, dopo Bestiario Musicale, lascia il posto all’onirico e al surreale come si riscontra nel brano La gente che sogna:

’Se ne hai bisogno

Un albergo non è altro che il pronto soccorso del sonno

Dove puoi fare tutte le esperienze della vita

Senza una vittoria e senza una ferita’’.

Ma le suggestioni della Maremma sono sempre presenti nei brani di Corsi e così il carattere favolistico e visionario che si interseca a influenze glam rock e cantautoriali come quelle di Paolo Conte e Ivan Graziani. Un altro esempio è l’album, con l’omonimo brano, Cosa faremo da grandi? in cui l’artista smonta la narrazione del ‘’traguardo’’ come punto d’arrivo, evidenziando come l’azione del disfare non sia necessariamente un fallimento ma, anzi, una ripartenza perché sì, si può buttare il lavoro di anni in quanto anche da adulti è possibile cambiare visione e percorso:

‘’C’è un mistero in ogni giorno che comincia

Dopo una notte che finisce

Io non ho mai capito

Di che cosa sono fatte le conchiglie

E come fanno ad arrivare

Lungo le spiagge affollate

Se dal cielo non scendono scale

Se dal mare non arrivano strade’’.

Ascoltare i brani di Lucio Corsi è tornare con la mente a tempi lontani, al mondo dorato dell’infanzia, alla dimensione lirica e domestica degli ambienti familiari, alle sfumature crepuscolari di provincia popolate da poeti come Marino Moretti e Guido Gozzano, al giorno svanito nel tramonto e  alla ‘’pace infinita che sui fiumi stende la sera alla campagna’’ di Alfonso Gatto (Arie e ricordi, Tutte le poesie Mondadori, 2017).

Un parallelismo con il poeta Morbello Vergari

La poetica di Lucio Corsi ha ammaliato il pubblico per la sua delicatezza, l’eleganza e la cultura dell’artista. La Maremma Grossetana, luogo natio di Corsi, vanta anche i natali di un altro pregevole poeta: Morbello Vergari nato nel dicembre del 1920 e scomparso nel 1989. La sua è un’infanzia contrassegnata dalla guerra e dalla miseria, ma vicina al mondo contadino e bucolico. Durante gli anni del dopoguerra inizia a proporre i suoi testi poetici e si avvicina alla musica in quanto suona la fisarmonica. La sua prima silloge è ‘’Versacci e discorsucci’’ e nel presentare il proprio pensiero poetico Vergari scriverà:

«Non canto i cavalier, l’armi, gli onori,

come un dì fece il grande Ludovico.

Le guerre infami, i sanguinanti allori;

di tutto questo non mi importa un fico.

Ma i lavoranti, l’ape, i campi, i fiori;

le cose grandi solamente, dico.»

Proprio come Lucio Corsi, Vergari canta la normalità, la consuetudine, le piccole cose che tuttavia sono grandi. L’attaccamento alla  propria terra e la fierezza delle proprie origini è un altro punto in comune fra l’artista visionario, ponte fra presente e passato, e Morbello Vergari. Il poeta intorno agli anni ’70 aveva iniziato una ricerca sulla tradizione canora maremmana; grazie all’amicizia con la cantante folk Caterina Bueno partecipa alla serata conclusiva del Convegno sulle “Tradizioni popolari e la ricerca etnomusicale” , nel 1975 a Firenze. Successivamente, in seguito alla collaborazione con Corrado Barontini, nasce  il gruppo “Coro degli Etruschi” il cui obiettivo era riproporre i canti della tradizione; da qui il libro ‘’Canti popolari in Maremma’’.

Quello che stupisce dell’arte di Lucio Corsi non è solo una sublimazione sognante del quotidiano ma anche la mescolanza fra il surreale e il reale. In alcune interviste tratte dal periodo Sanremese Lucio ha sottolineato:

‘’Bisogna rimanere ancorati alla terra come gli alberi della Maremma’’.

La terra natale è sempre presente e così gli alberi che Lucio ama: sognare sì, tendere al cielo anche ma sempre rimanendo solidi come il paesaggio selvaggio della sua Maremma. In un’intervista risalente al 2015 su La Repubblica Lucio parla anche del suo rapporto con gli alberi:

‘’Ho un rapporto di infatuazione per gli alberi: c’è tipo una quercia vicino casa mia e ce l’ho come riferimento fin da piccino’’.

Il lirismo  di Corsi colpisce anche nelle interviste per il lessico sofisticato e il tono elegante, ma soprattutto per i contenuti consueti ma rivoluzionari. Conversare del potenziale rapporto d’amore con la natura e i suoi elementi è già poesia e Lucio ricorda a chi è preso dalla frenesia del mondo e dalla competizione quanto è bello non avere traguardi ma solo partenze e quanto è liberatorio fermarsi ad ascoltare. Come scriveva il poeta Camillo Sbarbaro, in 38, Trucioli (1914-1918):

‘’Ma ormai, se qualcuno invidio, è l’albero.

Freschezza e innocenza dell’albero! Cresce a suo modo. Schietto, sereno. Il sole, l’acqua lo toccano in ogni foglia. Perennemente ventilato.

Tremolio, brillare del fogliame come un linguaggio sommesso e persuasivo!

Più che d’uomini, ho in cuore fisionomie d’alberi’’.

 

Entomologia in musica e poesia

Come si evince da alcune dichiarazioni dell’artista e dai suoi testi la passione per l’entomologia e gli insetti è abbastanza evidente. Nel brano ‘’Godzilla’’ Corsi catapulta l’ascoltatore in un universo incantato esortando, quasi, a fare un esercizio di immaginazione:

‘’Provate a mettere le ali

Provate a mettere le ali alle lumache

Diventeranno draghi’’.

Così le cimici diventano carro-armati volanti, gli insetti vedono gli alieni camminare sulla terra e le falene sono farfalle anziane in pelliccia che, alla sera, vanno a ballare. Un giovane poeta del secolo scorso, come Lucio Corsi, intesserà un rapporto profondo con l’entomologia e specialmente con le farfalle; Guido Gozzano, infatti, dedicherà dei meravigliosi versi ai lepidotteri in le ‘’Epistole Entomologiche’’.

‘’[…]Voi contemplate, amica, la farfalla

infissa da molt’anni. Ben più dolce

è meditarla viva nel suo regno

La rivedo con gioia ad ogni estate;

sfuggito all’afa cittadina, appena

giunto al rifugio sospirato, indago

con occhi inquieti lo scenario alpestre […]’’

Gozzano, come Corsi, è un cantore della provincia e delle piccole bellezze che sfuggono agli uomini assorbiti dall’escandescenza della società. Sempre come l’artista toscano che ritorna alla sua Maremma, anche nel mondo poetico di Guido Gozzano la città natale – in questo caso Torino – è al centro del suo universo letterario, culla di ricordi, lirismo e nostalgia; così come la natura che ritorna nella sua contemplazione paesaggistica e il mondo naturale popolato dai suoi elementi caratteristici.

Intravedere la realtà sotto le spoglie del sogno

Le influenze musicali di Corsi, come sottolineato più volte dall’artista, sono ben note. Ma la sensibilità del cantautore, la preziosità del registro linguistico, la visione immaginifica dei testi lo collocano al centro di un mondo letterario sfavillante in cui confluiscono le poetiche di vari autori del ‘900, a ben vedere, e non solo scrittori di poesia ma veri e propri precursori di tendenze.

Il 15 ottobre 1923 nasceva Italo Calvino, il 15 ottobre 1993 Lucio Corsi; forse una strana coincidenza, o forse no. Il primo ha esplorato il neorealismo, la commedia fantasy, la fantascienza umoristica, il gusto dell’ironia la dimensione mitico-fiabesca che sotto le spoglie del sogno cela la realtà. E Corsi è un artista che sembra uscito da una fiaba, un menestrello che racconta le sue storie attraverso testi fantastici e favolistici che non tralasciano la dimensione onirica e la sfumatura fantascientifica ( si pensi all’Astronave Gira Disco o Altalena Boy, per esempio) una figura eterea, fluttuante  e incastonata in un paesaggio dai toni pastello di Hayao Miyazaki. L’amore di Lucio per gli alberi lo avvicina alle avventure arboree di Cosimo Piovasco di Rondò, il protagonista de il Barone rampante (1957) di Italo Calvino che decide di salire su un leccio e di non scendere più, ma anche alla struttura fiabesca di Marcovaldo (1963) dove il tema urbano si interseca alla tematica del surreale e alla purezza del personaggio.

L’incredibile successo di Lucio Corsi è forse sintomo di un necessario  processo di palingenesi: l’arte, la cultura, la musica, la poesia hanno bisogno di una rinascita, una  restaurazione che non releghi i valori, le tradizioni, la normalità e la fierezza di essere sé stessi – come lo stesso Corsi canta nel brano portato al Festival di Sanremo 2025, ‘’Volevo essere un duro’’– ma si interessi all’immagine di uomini fallibili e imperfetti che sognano grazie ad alberi e prati di margherite come Lucio, che immaginino gli allunaggi delle lepri e ombre che non sono lugubri o funeree ma rappresentano lo sguardo illuminato della luna che sfugge alla notte che avanza. ‘’Sono anni che nessuno mi trasforma in qualcos’altro’’, scrive l’artista in un altro suo pezzo, ‘’Danza Classica’’, e probabilmente è stata proprio la sua resistenza al tempo e alle mode, oltre alla sua musica, ad averlo preservato in tutta la sua purezza e luminosità.

 

 

 

 

Elio Russo. L’arte come ammonimento civile

Il mondo occidentale non ha conosciuto, in questo secolo, nessun processo rivoluzionario portato a termine e l’immagine è stata uno degli strumenti attivi di critica e di rivolta sociale e artistica. Vi è una grande quantità di materiale a disposizione che potrebbe essere raccolto e che concerne non soltanto le arti figurative, ma anche il teatro, il cinema, l’urbanistica, la musica. L’artista sannita Elio Russo si fa portavoce della figura dell’aborigeno e del suo mondo non civilizzato, collocandosi in una dimensione artistica impegnata, quella dell’arte ambientalista, possibilmente resa sulla tela.

Elio Russo si sente abbastanza distante dal regno delle installazioni, performances, delle serialità, prediligendo l’arte figurativa che scaturisce anche da esperienze vissute in prima persona, come quella che lo ha portato in Australia e a conoscere gli abitanti delle foreste amazzoniche, custodi della Natura.

 

L’arte di Elio Russo ci racconta che in nome di un’immediata riconoscibilità politica e mass-mediatica non si può ignorare la complessità di molte esperienze affinché si possa ridurre sempre più la distanza tra produttore e fruitore, tra politica e forme della creatività, che sono immagine, ma anche parola, suono, gesto, esperienza e pensiero allo stesso tempo; senza, però, dimenticare la tradizione, il passato. Le opere di Russo sembrano fare da eco alla concezione di natura di Diderot per cui essa è cultura, storia, scelta etico-politica, e restituiscono un’immagine seducente del selvaggio in relazione ad una dimensione atemporale dove si assapora l’esistenza nella sua pienezza.

L’artista di Benevento ama anche utilizzare l’acquerello e la grafite, sperimentare dal punto di vista cromatico e misurarsi con un marcato realismo. È curioso come l’arte di Elio Russo fornisca l’occasione per dibattere ancora una volta intorno al mito settecentesco del buon selvaggio dietro al quale si cela una contraddizione che non è tanto dell’Illuminismo, quanto di una storiografia letteraria che si ostina a disconoscere il fatto che il Pre-Romanticismo, con i suoi miti, compreso quello del “buon selvaggio”, è solo l’altra faccia della medaglia dell’Illuminismo; ovvero che non si tratta di due movimenti pressoché sincronici, bensì di un unico movimento a due facce, che elabora due opposte ma speculari concezioni del reale.

Esaltando gli istinti e la natura, mettendo contemporaneamente alla berlina l’intellettualismo; non si fa altro che confermare l’adesione alla concezione di matrice razionalista settecentesca. D’altronde anche l’anti- intellettualismo è fortemente intellettuale.

La tua arte sembra per certi versi strizzare l’occhio al mito del buon selvaggio. Si tratta solo di questo o dietro c’è una riflessione più profonda?
È un po’ l’uno e un po’ l’altro. L’aborigeno gode, idealmente, da parte mia più stima di quanta possa averne per certi “civilizzati”. La figura dell’aborigeno vuole parlare al mondo, vorrebbe consigliare e ammonire dal profondo della sua saggezza primordiale che poi è il fondamento della ragione legata al rispetto della Terra, dell’universo, della vita che continua se si preserva la Natura imparando a trarne il sufficiente beneficio senza violentarla.

L’arte come la letteratura secondo te deve infastidire, svelare la vera natura delle cose o consolare, avere un ruolo puramente “civile”?
Sia l’arte e sia la letteratura e la musica pare che siano dei mezzi di espressione molto liberi e quindi, penso ci si possa aspettare che rivestano anche ruoli diversi, linguaggi diversi, ma come per la scrittura si esige una buona grammatica, così per l’arte si presuppone che siano riconosciuti e apprezzati gli aspetti estetici e tecnici.

Che tipo di bellezza riscontri nell’arte contemporanea?
Per ciò che riguarda l’arte degli ultimi decenni è difficile per me trovare bellezza senza fare delle esclusioni. Oggi l’arte contemporanea è piena di installazioni, di digitale e quant’altro che pur avendo dei messaggi a volte non banali ma provenienti da riflessioni profonde, il più delle volte non risultano oggettivamente belle opere ma tutt’al più interessanti. Se poi consideriamo arte contemporanea quella che va collocata dopo il 1789 fino ai giorni nostri, allora penso agli impressionisti, ai macchiaioli e a numerosi artisti italiani che non sono a volte abbastanza conosciuti e rivalutati. Io mi sento più attratto ancora da chi l’arte la fa su tela, su legno, cartoncini, colori, pennelli, spatole ecc.

Anni fa sei stato premiato per un concorso sugli episodi delle Forche Caudine. Come definiresti il rapporto tra arte e storia?
Ricordo con piacere quel concorso. Il rapporto tra arte e storia penso che sia stato e sarà sempre importante per meglio far capire ai posteri i percorsi storici dalle origini ai giorni nostri o per meglio capire il passato. Ci sono stati artisti ispirati da eventi storici e artisti che hanno avuto un ruolo controverso con il proprio periodo storico perseguitati dai regimi, come in Germania negli anni ’30. Un grande artista come Caravaggio, che ammiro molto, sconvolse i canoni del Rinascimento utilizzando prostitute e popolani come soggetti dei suoi dipinti e creò capolavori assoluti anche se scandalosi per i suoi tempi. Ma penso che, se la storia ha influenzato l’arte, possiamo dire che anche quest’ultima ha poi influenzato la storia.

Hai lavorato anche in Australia per la comunità italiana che risiede in questa terra. Quanto viene incentivata l’arte lì?
Il mio periodo in Australia è stato breve ma intenso grazie alle numerose commissioni che ho ottenuto. Lì ho percepito una maggiore positività, forse per il fatto che l’Australia ha più le caratteristiche di una terra felice e quindi le persone si sentono più disposte a recepire ed apprezzare l’arte. In quel periodo mi serviva un vero rappresentante del Pianeta ed è lì che lo ho trovato l’aborigeno e il suo rispetto per Madre Terra. Da allora ho preso meglio coscienza dei problemi ambientali, che già precedentemente mi assillavano, e di come il Pianeta che ci ospita stia vertiginosamente inabissandosi in sconvolgimenti climatici e “plastificandosi”, ai danni di noi stessi, fruitori delle comodità del progresso. Ecco che nella mia pittura appaiono anche gli Indios, abitanti delle foreste amazzoniche che si uniscono agli aborigeni per gridare e manifestare il loro dissenso verso la deforestazione che tanto male sta facendo al clima e ai popoli e alla fauna di quei luoghi.

Siamo dominati dalle immagini. Secondo te tale dominazione, perlopiù imposta dai media, da ricchi visionari che vogliono colonizzare lo spazio, indebolisce la nostra di immaginazione?
Certo che le masse sono condizionate da ciò che i media impongono ed è forse per questo che l’arte rimane spesso accantonata o delimitata in spazi ristretti. Si sa che dove c’è ricchezza c’è incentivo anche se spesso in direzione sbagliata ma ciò non è ancora compreso dalla maggioranza che si adegua alle visioni del mondo veicolate dai media, cosicché il tempo per visitare una mostra di pittura e interessarsi alla bellezza dell’arte non si trova mai. Tuttavia l’artista, lontano dal turbinio stressante di tempeste mediatiche, si ricava il suo spazio, il suo rifugio e, grazie alla sua intelligenza diversa e più sensibile, difficilmente perde la sua immaginazione e la sua creatività. Per quel che mi riguarda, pur bombardato dai messaggi mediatici dei ricchi visionari, cerco di essere critico e assorbire in modo selettivo. Gli automatismi per esempio, imposti con prepotenza dal progresso tecnologico, penso che arrechino danni all’occupazione, se parliamo in termini sociali e di economia, e all’immaginazione come alla creatività intesa come bella prerogativa dell’umano e non delle macchine. Migliorare il nostro Pianeta più che pretendere di colonizzarne altri invivibili sarebbe la cosa più saggia e l’Arte, con la sua bellezza, sono convinto che possa giocare un ruolo importante in questo processo e rappresentare un’ancora di salvezza.

Cosa significa per te sperimentare e quali opere hanno segnato uno spartiacque nella tua produzione artistica?
La sperimentazione secondo me deve avere un percorso, un legame col precedente operato, non nascere dal nulla, avere delle basi da cui partire. La mia sperimentazione, comunque, va verso l’informale, ma voglio assicurarmi sempre che sia gradevole alla vista, che l’informe e il colore abbiano un’armonia, un accordo o un contrasto che soddisfi l’osservatore e lo incuriosisca. Devo dire che lo spartiacque, per quel che mi riguarda, per il momento è reversibile, nel senso che come sento il bisogno di evadere un po’ verso l’informale, così poi sento il bisogno di tornare al reale con più vigore e più rinfrancato. È’ un po’ come varcare una “porta del tempo” per vedere ciò che accadrà un domani, ma legato al filo di Arianna per non perdere la via del ritorno, fino a quando non so dirlo.

Prossimi impegni?
Per i prossimi impegni non ho ancora programmato. In realtà sto rifiutando varie opportunità perché ho varie commissioni da portare a termine, ma è un po’ di tempo che sto pensando a una mostra per beneficenza.

‘La poesia cambierà il mondo’: il ruolo salvifico della poesia nella nuova silloge di Alessandra Maltoni

La poesia cambierà il mondo, edita da La Zisa edizioni, è una silloge della scrittrice ravvenate Alessandra Maltoni.

Nonostante la sua formazione tecnico-scientifica, la Maltoni è sempre stata ammaliata dalla scrittura. I suoi racconti e poesie l’hanno consacrata nel mondo editoriale italiano ed estero. Alessandra Maltoni ben presto ha raggiunto un indiscusso successo ed è stata pluripremiata.

Con la silloge Tracce di riflessione poetica si è classificata finalista al Premio Internazionale “Trofeo Penna d’autore 2004” di Torino. Nel 2007 ha pubblicato l’opera da Ravenna Racconti tra i numeri. E’ coautrice del antologia poetica La parola  e i suoi approdi. La pubblicazione Domande tra il porto e il mare è stata la protagonista della fiera del libro tenutasi a Scilla in Calabria nell’autunno del 2009. Nel 2010 ha vinto il Premio nazionale di narrativa e saggistica Il Delfino, sezione mare.  La lirica Spazio di riflessione ha ricevuto menzioni d’onore dell’Associazione culturale torinese Penna d’autore ed è inserita, assieme ad una sua breve biografia, nel volume Grandi Classici della Poesia Italiana. La scrittrice, tradotta in lingua spagnola e in lingua inglese, fa parte del salotto degli autori del circolo dei lettori di Torino.

Attualmente Maltoni è una libera professionista ed è titolare di un centro servizi culturali con l’attività politica nel campo della cultura.

La silloge La poesia cambierà il mondo è il frutto della partecipazione della scrittrice al concorso letterario con tema “Poesia è rifare il mondo, bandito da la Zisa Edizioni, con lo scopo di reclutare nuove sillogi da inserire nelle nuove collane.

 

La poesia cambierà il mondo: sinossi

La poesia cambierà il mondo è uscita del 2019. La raccolta è corredata dalla prefazione della Prof.ssa Roberta Accomando, docente di comunicazione, che ha arricchito ulteriormente l’opera con il suo contributo.

Ciò che cattura immediatamente l’occhio è la copertina su cui è illustrato un cangiante papavero blu. Un fiore raro, centrale nella raccolta poetica.

“chinano il capo/ al cadere della pioggia/ le gocce d’acqua/ sono come le lacrime della vita/ ma, la poesia/ alza il capo e papaveri blu/ li erge il sole/ verso l’infinito sull’Himalaya…

Il papavero blu è la poesia. Questo accostamento richiama immediatamente alla poesia Eterno di Giuseppe Ungaretti

“Tra un fiore colto e l’ altro donato

l’ inesprimibile nulla.” Anche in questo caso l’immagine del fiore è metafora di poesia.

 

La scelta del papavero non è casuale, come afferma Alessandra Maltoni, il quale “insieme al rosmarino e all’aloe il papavero blu è uno dei fiori che contiene e dona più energia. La poesia deve trasmettere energia che è nelle parole, quell’energia che può cambiare il nostro stato d’animo, che può cambiare il mondo”.

La poetessa in questa silloge interroga la natura e ne studia l’energia. La raccolta contiene e apre al lettore scenari diversi: oltre al mondo della botanica con le piante e il mare anche quello della fisica quantistica, con riferimento al fenomeno dell’Entanglement. Ad aggiungersi a questo connubio è un massiccio apporto letterario.

Le parole a cui la Maltoni si riferisce é il sì suona di Dante Alighieri. È proprio una citazione del sommo poeta, molto amato dalla scrittrice, che apre la sua silloge poetica. Allo stesso Dante Alessandra Maltoni dedica un componimento:

Dante in una noce

Invisibile agli occhi
la preghiera di lei,
comunica in versi, la salvezza.
In miniatura i canti,
raccontano l’Inferno,
in un museo a spaccanapoli,
lontano dalla zuccheriera
dalla nonna amata.

Alla poesia viene affidata una funzione salvifica, sociale e storica. Per salvare il mondo è necessario partire dalle piccole azioni, dalla natura, dai rapporti umani e dall’uomo. Lo stile raffinato scorrevole ed essenziale racconta proprio percorsi profondi di vita. A mediare è la poesia. La natura, il mondo vegetale, il mare e l’energia solcano un sentiero di speranza. Soltanto illuminandosi d’immenso, come declamava Ungaretti e affidandoci alle orme dantesche potremmo essere salvi. Infatti come scrive la poetessa “l’anima illuminata d’immenso trasformerà il mondo”.

“L’ opera è permeata da una visione fiduciosa verso il futuro dell’umanità verso un’inevitabile possibilità di miglioramento” scrive la Professoressa Roberta Accomando nella prefazione

La silloge La poesia cambierà il mondo racconta un sogno per un futuro più consapevole e osserva gli elementi introspettivi della natura circostante traendo energia positiva. La comunicazione attraverso la parola scritta o verbale si trasforma in energia e può cambiare le azioni, gli eventi e il mondo.

 

Fonte http://www.lazisa.it/

 

 

 

 

 

 

 

 

Francesca Leone, l’arte del comportamento e della memoria

L’arte contemporanea è senza dubbio democratica, perché soprattutto collettiva: il pubblico diviene parte delle opere e il bello del quotidiano diventa l’abilità dell’artista di toccare gli oggetti, i materiali e di modificarne la presenza nel vissuto. Nell’arte contemporanea la possibilità di espandere la percezione della realtà viene moltiplicata dalle nuove tecnologie che modificano anche gli spazi di fruizione. Ma non tutto può essere arte solo perché riusciamo a concepire un’idea che reputiamo geniale, e lo sa bene Francesca Leone, figlia dell’indimenticabile regista Sergio Leone e della ballerina Carla Ranalli, con la sua arte meditativa, sociale, vicina al primitivo, che si ispira all’arte povera di Jannis Kounellis, a quella allegorica e crepuscolare di Anselm Kiefer e a tutte le altre espressioni artistiche cariche di tensione tra immagine e realtà.

Giardino

La produzione artistica di Francesca Leone (pittura, fotografia, scultura, installazione) è una sorta di screening senza fine per comprendere il senso del male generato dall’uomo riversato sulla Natura, che però riesce sempre a smascherare l’uomo. Il suo è un universo in penombra dove tutti noi siamo alla ricerca della nostra identità, volti alla decifrazione del nostro viaggio conoscitivo. Francesca Leone, rappresentando lo spirito attraverso la materia, dà nuova vita agli oggetti del passato, evocando nostalgia, storie e miti universali, avvalendosi di materiali organici quali olio, plastica, bitume, colla, terra, sabbia, segatura, e configura la realtà come un processo di immaginazione e creazione materiale e revisione. La visione del visibile si esplica come relazione tra l’illusione e la realtà creata dalle sue opere, quasi a volerci dire che è l’opera d’arte stessa a creare la realtà, e persino il visitatore con cui l’artista vuole interagire, come dimostra, ad esempio “Our Trash” (2015), opera composta da 18 grate in alluminio che creano una grande piattaforma su cui lo spettatore può camminare e riflettere. Spettatore che, chissà, potrebbe avere lo sguardo dei visi brancolanti che scivolano dal quadro, lasciano delle tracce, realizzati dalla Leone per la mostra Oltre il loro sguardo del 2009 a Mosca.

Francesca Leone pone un quesito fondamentale, ovvero il modo in cui la vita si pone con e nella natura da un punto di vista estetico e come tale modo si possa rappresentare nell’arte contemporanea, raccontando l’incedere affannoso dell’essere umano sulla Terra, il procedere doloroso di uomini e donne che divengono figure disperate ed ambigue, che però hanno un calore che attrae il nostro sguardo.

1 Le sue opere sono soprattutto esperienze visive e fisiche. Che emozione spera che il visitatore provi?
La cosa importante è riuscire a suscitare una qualsiasi emozione, un’opera non dovrebbe lasciarci indifferenti.

2 Tutto può essere arte?
Assolutamente no. Purtroppo l’arte contemporanea può creare confusione, si vedono tantissime opere che per essere capite devono essere “studiate”, nel senso che va approfondito il lavoro dell’artista il suo percorso, la sua coerenza. Se ciò è convincente, allora si può parlare di arte.

3 Quali sono gli aspetti che reputa più interessanti nel cogliere i mutamenti nei volti e nei corpi umani?

Se fa riferimento alla serie “Flussi Immobili”, quello che mi affascinava era ritrarre volti che attraverso l’acqua venivano spogliati della loro ‘maschera”. Le espressioni sono loro malgrado autentiche senza filtri, ma nello stesso tempo anche deformate dal flusso che le attraversa.

4 Suo padre Sergio ha scolpito il passare del tempo nella storia del cinema. Che rapporto ha come artista, con il tempo?
Negli ultimi anni sto usando per le mie opere materiali di recupero di uso quotidiano, come rubinetti, tubi o lamiere, cose logorate dal tempo, gettate, che in qualche modo hanno fatto il loro corso. Io tento di ridare a questi oggetti una veste differente da quella passata, più poetica.
Ad esempio, nelle opere della serie “Ritratto di famiglia” ho affogato nel cemento oggetti di casa che appartenevano ai miei genitori e ho cercato di renderli immortali. Mi fa stare bene pensare che quegli oggetti che hanno accompagnato per tanti anni la nostra vita continuino a esistere.

5 Quali artisti la ispirano particolarmente o trova comunque interessanti?
Sono tantissimi gli artisti che amo anche se non sono in linea con il mio pensiero creativo. Parlando di artisti contemporanei Anselm Kiefer, Jannis Kounellis, Gerhard Richter, li considero dei grandissimi maestri.

6 Picasso diceva che l’arte è una menzogna che ci consente di riconoscere la verità. Lei come la pensa?
Non ci avevo mai riflettuto, in un certo senso credo abbia ragione, ciò che facciamo noi artisti è qualche cosa che appartiene alla fantasia, all’invenzione, ma riflette il reale.

7 Crede che le sue opere disturbino, in senso positivo, chi le guarda?
Questo bisognerebbe chiederlo a chi le osserva…

8 Come prendono forma i soggetti delle sue opere?
Non potrei parlare di un metodo unico, per alcune opere c’è un bozzetto fotografico, per altre un pensiero che mi ronza nella mente per diverso tempo, fino a che non lo concretizzo, per altre ancora una sorta di immediato interesse per un materiale che mi ispira.

9 L’arte è davvero diventata una splendida superfluità (come sosteneva Hegel) o può ancora avere una funzione sociale?
Penso che l’arte in generale faccia bene allo spirito, se poi lancia anche dei messaggi sociali ci aiuta a essere migliori.

10 In “Giardino”, lei mostra la realtà quotidiana in tutta la sua crudezza, questa personale è anche un modo per riflettere sull’attuale valore di mercato delle opere d’arte?

Con “Giardino”, mostro quello che ci circonda, che ci preoccupa. L’inquinamento è un problema che ci affligge quotidianamente, ma non è solo questo, “Giardino” è’ un inno alla memoria (e qui torniamo alla domanda precedente sul tempo) migliaia di piccoli oggetti racchiusi in una grata che hanno fatto parte della nostra vita e del nostro passaggio sulla terra. La sua domanda è molto interessante perché vuol dire che la mia opera l’ha fatta riflettere sul valore delle opere d’arte nel mercato, cosa alla quale non ho pensato realizzandola, ed è proprio questo il significato dell’arte, emozionare e far pensare.

11 Si inserisce nel dibattito sulla necessità di salvaguardare l’ambiente anche l’istallazione Interattiva “Our Trash”? E non pensa che bisognerebbe salvaguardare anche l’uomo e non solo l’ambiente, visto che stiamo perdendo futuro e siamo inquinati ideologicamente?
L’uomo vive e fa parte della natura, quindi salvaguardare l’ambiente è salvaguardare noi tutti.
Vede, il terribile momento che stiamo attraversando con questa pandemia, mi ha fatto pensare molto perché sta distruggendo l’uomo, ma sta aiutando la natura. La domanda sorge spontanea: era questo l’unico modo?

12 “Metamorfosi” è una metafora di come si evolve l’arte e racconta il proprio tempo, un campo di battaglia tra vecchio e nuovo?
Metamorfosi nasce da immagini scattate durante alcuni miei viaggi in cui la natura sembra ricordare un corpo umano tanto da essere trasformata in un corpo. La terra è nostra madre.

Prossimi impegni?

Ho in programma due mostre molto importanti e impegnative. La prima alla galleria Magazzino di Roma curata da Danilo Eccher che, vista la situazione generale di criticità a causa del Covid-19, è rimandata a data da destinarsi. La seconda è prevista per i primi di giugno alle Gallerie D’Italia, uno spazio museale molto importante di Milano con la cura di Andrea Viliani. Mi auguro che questo momento, tanto difficile quanto doloroso, si possa superare al più presto, tutti insieme più consapevoli e migliori.

 

Fonte

Francesca Leone. L’arte del comportamento e della memoria

“Padre padrone”, la storia di affrancazione di Gavino Ledda

Il legame di sangue come unico vincolo per la formazione e la preparazione alla vita adulta, la legge del patriarcato che rende un figlio schiavo, l’asprezza della natura sarda dal sapore deleddiano, la ribellione che cova, la voglia di affrancarsi e di essere libero, la lotta, la  meravigliosa scoperta di quanto possa essere rigenerante per l’uomo la cultura; è questa la storia autobiografica di “Padre padrone”, bellissimo e crudo romanzo del 1975, la storia del suo autore, Gavino Ledda, il pastore-scrittore che funge da narratore interno.

“Padre-padrone” è un libro di successo entrato a pieno diritto nell’olimpo letterario soprattutto perché è riuscito a raccontate con estrema intelligenza e profondità il rifiuto della “sacralità” del passaggio di testimone da padre a figlio, di quella perversa e malsana giustificazione delle  imposizioni  e delle sopraffazioni in nome del sangue e dalla tradizione da custodire a tutti i costi.

Baddevrustana (Siligo,Sassari): Gavino ha solo cinque anni (siamo nel 1943) quando viene strappato alla scuola dal padre Abramo, perché il figlioletto deve essere avviato al lavoro di pastore, è suo, gli serve” per governare le pecore mentre lui pensa ai campi. Il bambino, lasciato solo nell’ovile  a giornate intere,  custodisce il gregge  mentre apprende giorno per giorno la violenza educativa del padre-padrone che impedisce a Gavino di lasciarsi avvolgere dai colori, dagli odori e dai suoni (questi sono per lui gli unici insegnamenti che riesce a recepire) di madre natura che funge da confidente per il bambino. Gavino desidera andare alla ricerca di nuovi spazi, vuole conoscere, imparare, con urgenza. Il padre lo ostacola, ma lui non molla; nonostante la povertà che lo circonda, vuole emanciparsi, sottrarsi ad un destino imposto.

Parte per la leva militare, inizia a studiare, si lascia conquistare dal latino  e dalla cultura, sente che è questa la sua strada, lontano da un lavoro senza tutele, minacciato dal banditismo e dalle pessime condizioni igieniche. Ma nemmeno la vita da soldato è semplice, il problema principale è la lingua, dirà infatti Ledda: <<I calabresi, i siciliani, i napoletani, a parità di cultura si esprimevano nel loro dialetto e facevano più figura di noi. La lingua nazionale era sempre più lontana dal sardo che da qualsiasi altro dialetto. Tra di noi, però, potevamo esprimerci in sardo a patto che non fossimo di servizio e che non ci fossero ‘superiori’ presenti […]. E questo era un fatto che costringeva noi sardi a stare sempre insieme: un branco di ‘animali diversi’. La divisa ci accomunava solo per i superiori, ma nella realtà tra noi sardi e gli altri soldati c’era di mezzo la separazione della lingua>>. Gavino (che diverrà anche uno studioso della lingua italiana e di quella sarda) prende coscienza  anche di questa particolare diversità  anche se l’unico suo pensiero, quasi fosse un tormento è affrancarsi, studiare, e con grande umiltà, sacrificio e libertà conquista pian piano il suo futuro. Lo scontro finale con il padre,una vera e propria lotta, sarà inevitabile.

La parte più suggestiva e poetica della storia è senza dubbio la scoperta da parte di Gavino della musica classica che ormai ha preso il posto nel suo cuore e nei suoi sensi della natura, ora che ha imparato un nuovo linguaggio: <<E sotto le querce, quando la natura si scatenava e il gregge si metteva al riparo, ora non ascoltavo più il suo linguaggio che un tempo mi aveva parlato a lungo. Ora, la natura, la lasciavo parlare per conto suo. Non rispondevo più ai suoi dialetti. E tutto preso da quella dolce ansia che la musica aveva acceso dentro di me, mi mettevo a solfeggiare. Il gelo non lo sentivo più preso dalla mia passione, ceppo acceso che scoppiettava e scintillava sotto l’acqua>>.

Evocativo e palpitante “Padre padrone” (Ledda non trascura l’aspetto psicologico) soprattutto quello del protagonista), né quello sociale ( una Sardegna arcaica), che lo rende un romanzo storico di estrema fattura. Nel 1977 Ledda ha preso parte alla lucida ed enigmatica trasposizione cinematografica (Palma d’oro a Cannes) del suo libro realizzata dai fratelli Taviani, interpretando se stesso.

Il riscatto di Gavino Ledda  passa anche attraverso la pubblicazione stessa del suo libro, l’essere riuscito a far conoscere la propria storia, compiendo un atto di pacificazione con sè stesso che sembra dire: << Ce l’ho fatta, il destino si può cambiare, con perseveranza, coraggio, talento e fatica>>.

 

“Intemperie”, il successo inaspettato di Jesus Carrasco

In Spagna ha avuto dieci edizioni in tre mesi.  Stiamo parlando di “Intemperie”, dello spagnolo Jesus Carrasco; un romanzo senza tempo, protagonisti senza nome, un paesaggio duro, aspro. Un successo inaspettato.

In un romanzo in cui le parole spingono alla ricerca della salvezza, Jesus Carrasco, porta dinanzi agli occhi dei lettori due protagonisti, un uomo e un bambino. Il bambino che cerca una via di fuga, una luce, ancora una speranza, un ultimo barlume. Cerca, forse, quell’uomo, quella persona, a cui potersi affidare, aggrappare. Una figura diversa da tutte quelle che, pur potendo e dovendo, non hanno voluto salvarlo, proteggerlo, gettandolo in una realtà che, a un bambino, mai dovrebbe appartenere.

In un luogo e in un tempo senza speranza alcuna, il bambino fugge dall’ufficiale cui è stato concesso, per i suoi piaceri, dallo stesso padre. Una corsa vana senza quella figura, un pastore incontrato per caso, che possa salvarlo da chi desidera ardentemente, per i propri piaceri, perversi e crudeli, quella carne ancora troppo giovane, ingenua, ma in grado di correre, di desiderare una vita in cui esista ancora quella dignità che sembra essergli stata negata, sottratta.

E così due anime si incontrano, bisognose l’una dell’altra, in questa terra desolata. Un paesaggio, duro e aspro, che rappresenta uno specchio dell’animo umano. Una natura che mostra ciò che l’uomo è, ciò che non è, ciò che dovrebbe essere, ciò che sente, che fa male, fa paura, ma può salvare ancora.  Due figure che, il nostro autore, immerge in un mondo da cui, entrambe forse, hanno bisogno, in modi diversi, di essere salvate. Un uomo, taciturno e silenzioso, con le sue capre e il suo cane; un bambino con le sue paure, la sua fragilità, quella forza che lo spinge a scappare e quella voglia e quel bisogno di credere ancora.

Protagonisti, come già accennato, due figure senza nome proprio. Un adulto che possa ancora rappresentare quel punto di riferimento ormai perduto o, forse, mai avuto. Un capraio che vede in quello sguardo di bambino, quel dolce contatto mai avuto o forse avuto poco, in quella che intuiamo essere stata una vita lunga, difficile, solitaria.

Un romanzo, quello di Jesus Carrasco, accostato a “Il vecchio e il mare” di Hemingway, che tocca ogni fibra del nostro essere. Ogni parola, che grida nel silenzio di quella terra, è un battito accelerato, un cuore che si ferma. Un romanzo teso e che tende le nostre corde fino all’ultimo istante, fino a quell’ultima parola.

Ed è qui che giunge la sorpresa, perchè questo che rappresenta uno dei più bei romanzi degli ultimi anni, non l’ha scritto un autore noto, ma un quarantenne spagnolo, un esordiente cresciuto nella campagna dell’ Estremadura. Un uomo che ama la semplicità, arricchita da quei mondi che solo la lettura può regalare, offrire, descrivere. Un lavoro da copy pubblicitario, una moglie sivigliana, due bimbe, una bicicletta e un orto che cura con gli amici.

In un’intervista a Elle.it, ha parlato del suo legame con la scrittura, un legame che esiste da sempre ma che, negli ultimi 20 anni, è cambiato, cresciuto, portandolo ad essere pronto a costruire quella storia che potesse piacere anche a noi lettori. E così è stato.

Jesus Carrasco, con uno sguardo magnetico, il baffo alla Don Chisciotte, due occhi grandi e penetranti, idee chiare e limpide fatte di forza e semplicità, entra nelle nostre viscere con un linguaggio che mostra un’opera d’arte. Ed è questa la forza di ogni singola parola scritta tra queste pagine. Quelle parole, pura poesia, che giungono diritte al cuore, quelle parole con cui, Jesus Carrasco, ha rapito la nostra attenzione e ci ha portato in un mondo in cui una natura desolata, incontra due anime pronte ad aprirsi, a sperare, a guardare oltre, ad imparare l’una dall’altra. Perchè da soli, questo splendido viaggio che è la vita, non ha sostanza.

E poi una dedica. La sua. Al padre. L’uomo che l’ha avvicinato alla lettura, l’uomo di cui racconta attraverso la semplice descrizione di un’immagine. ”  Forse la scintilla che mi spinto ad arrivare fin qui è mio padre, la persona a cui è dedicato il romanzo. Ho sempre l’immagine di lui seduto a leggere in poltrona. È stato il primo che ho visto leggere e colui che mi ha indotto con l’esempio ad avvicinarmi alla lettura e in seguito alla scrittura”. (CIT. Elle.it di  Jesus Carrasco)

Grazia Deledda: l’essenza della vita nella sua tragicità

Grazia Deledda (Nuoro il 27 settembre 1871 Roma ,15 agosto 1936) nasce in una famiglia decisamente benestante: il padre, infatti, è un procuratore legale e dedito al commercio del carbone. Già all’età di diciassette anni pubblica, sulla rivista “ultima moda” il suo primo racconto dal titolo “sangue sardo”, storia di un amore mai corrisposto, dove la protagonista uccide l’uomo di cui è innamorata. Tuttavia, l’opera con cui si “tuffa” nel mondo letterario e che le darà un certo successo iniziale è “Nell’azzurro”, pubblicato nel 1890. E’ a Roma che scrive “Anime oneste” e “il vecchio della montagna”. Le maggiori, poi, fra le quali ricordiamo “Elias Portolu” (1900), “Cenere” (1904), “Canne al vento” (1913), “Un uomo solitario” (1914), “Marianna Sirca” (1915), possono leggersi come lo sviluppo e la discussione di casi di coscienza. Altre opere si succederanno, con una crescente intenzione autobiografica e introspettiva, e sempre con fortuna di pubblico, fino alla scomparsa dell’autrice, avvenuta a Roma nel 1936. Lascerà un’opera incompiuta: “Cosima”, che i curatori pubblicheranno col significativo sottotitolo di “Quasi Grazia”.

Gli scritti di Grazia Deledda risentono di un clima tardo romantico, esprimendo in termini convenzionali e privi di spessore psicologico un amore vissuto come fatalità ineluttabile. E’ anche, per lei, un’epoca di sogni sentimentali, più che di effettive relazioni: uomini che condividono le sue stesse aspirazioni artistiche sembrano avvicinarla, ma per lo più un concreto progetto matrimoniale viene concepito da lei sola. Ora, però, soffermiamoci in particolar modo sul suo più celebre romanzo, ossia “Canne al vento” (1912).

Ambientato quasi interamente a Galtellì. Alla base del romanzo c’è, secondo uno schema che si ritrova in altre sue opere, una situazione di vita fondata su norme arcaiche e oppressive, talvolta violate dalla trasgressione che genera rimorsi e sensi di colpa. Espiazione e restaurazione dell’ordine infranto chiudono il cerchio. Il romanzo è raccontato attraverso la figura del protagonista, Efix, il servo delle Dame Pintor, che di questa famiglia ha conosciuto il tempo della potenza e della ricchezza e quello del rapido declino. Ora Efix coltiva l’ultimo podere rimasto, i frutti del poveretto sono gli unici proventi delle nobili sorelle: Ruth, Ester e Noemi. Il 10 settembre 1926 le viene assegnato il Nobel per la letteratura: è il secondo autore in Italia, preceduta solo da Carducci vent’anni prima; resta finora l’unica scrittrice italiana premiata. L’ultimo romanzo “La chiesa della solitudine” è del 1936. La protagonista è, come l’autrice, ammalata di tumore.

Sempre e comunque ricordare la sua Sardegna, la sua saggezza, la sua autenticità, e le sue verità  che hanno fatto ipotizzare un accostamento a Verga per quanto riguarda la stagione verista e a D’Annunzio per il decadentismo. Ma la Deledda non può essere etichettata, come ha fatto parte delle critica, in quella che è stata definita con un certo snobismo, la letteratura della Sardegna, il suo automodello sardo è universale, intriso di poesia e tragicità tipicamente russa (la lotta tra bene e male in primis)la sua terra è resa un luogo mitologico e misterioso, dove la natura è un microcosmo psichico (perfettamente in linea con la concezione della natura degli altri grandi scrittori del Novecento) all’interno del quale si consumano i drammi dell’essere umano, il quale però può trovare nuova linfa nella fede, e soprattutto nella pietas cristiana, nella partecipazione alla mortalità, naturalmente non senza correre dei rischi.

Anche il particolare uso della lingua che fa la scrittrice, ha aperto dibattiti e riflessioni; La Deledda fa emergere la distanza tra la cultura nazionale e quella locale, ma fondamentalmente perché lei stessa sente di appartenere maggiormente a quest’ultima, al dialetto sardo e ai suoi toni colloquiali, in quanto la stesura in italiano presentava per lei non pochi problemi.

Non aveva il dono della “buona lingua” Grazia Deledda ma proprio per questo ha inaugurato una nuova fase narrativa, quella che rifiuta l’omologazione e conserva la propria identità, portando ad una stratificazione della lingua che fanno di questa straordinaria donna ed autrice dal volto autorevole,una personalità  fuori dal comune, contemporaneamente dentro e fuori  il contesto letterario novecentesco europeo.

 

Exit mobile version