‘Briciole dai piccioni’ di Alessandro Turati: una formazione disastrata

Briciole dai piccioni (Neo edizioni, 2016) è l’ultimo romanzo di Alessandro Turati (Le 13 cose). Si tratta di un romanzo di formazione molto peculiare, sia per l’insolita brevità (laddove il romanzo di formazione tende a essere piuttosto lungo, qui ci troviamo davanti ad appena 184 pagine) sia per le “tappe” affrontate dal protagonista: dopo infanzia e adolescenza, infatti, nel testo si trovano “alcolismo” e “disoccupazione”.

Come si arriva a raccattare briciole dai piccioni

Alessio Valentino nasce in una famiglia in cui nessuno si cura di lui: padre e madre sono troppo presi dai propri interessi per crescere un figlio. E infatti il piccolo Alessio cresce allo sbando, e già dalle prime pagine si capisce che lo aspetta un futuro poco allettante. Gli anni – quasi letteralmente – volano, e ci troviamo quasi a inseguire il protagonista fra elementari, medie, superiori, tentativi di università e vita lavorativa, mentre il mondo intorno cambia, si fanno gli anni Novanta e poi i Duemila; e intanto Alessio cresce spaesato, senza punti di riferimento se non una famiglia sempre più a pezzi (a cui si aggiunge una sorella), una biblioteca di paese dove rifugiarsi e tanti lavori più o meno degradanti («Questa è la tua postazione. Da questa parte ci sono gli ombrelli e da quest’altra parte ci sono le scatole e il nastro adesivo. Gli ombrelli te li porta coso, quello lì coi capelli lunghi, col carrello. Il resto lo trovi nel magazzino giù in fondo, con la porta scorrevole. Tu devi prendere gli ombrelli, infilarli nelle scatole e sigillare col nastro adesivo. È tutto chiaro?»).

Il nostro Alessio si trasferisce a Londra (una scelta, come quasi tutte, decisamente non ponderata: «Qui non si scopa più, penso, devo fare qualcosa. Lascio l’università e vado a Londra»), poi torna e si trasferisce altrove, cambiando vita, conoscendo persone ma mai stabilendo rapporti duraturi, mai trovando, citando a sproposito un grande della musica italiana, “un centro di gravità permanente”.

Giunge inaspettata l’età adulta, caratterizzata come s’è detto da alcolismo e disoccupazione; e giunge inaspettato anche l’epilogo, che è forse il momento di riflessione più emozionante del testo, in cui il protagonista (immedesimato qui con l’autore), durante una vacanza a Kos in cui il massimo dell’aspirazione è andare «al porto a lanciare sassi», ci illumina con verità universali apprezzabili per la nostra epoca. Memorabili, a nostro avviso, sono due:

  • «Gli esseri umani poveri, cioè il 97 per cento della popolazione, sono portatori di malinconia. Siamo malinconici perché i nostri desideri sono lontanissimi. E infatti, guardarci bene, le nostre vite portano tracce.»
  • «Che cos’è una vacanza, se non far finta di essere ricchi per una decina di giorni?»

Qui nell’epilogo troviamo anche un divertente gioco metanarrativo. Alessio Valentino/ Alessandro Turati ci dice che «questo testo che ho scritto è oggettivamente bruttino, ma è per questo che ho il coraggio di pubblicarlo. Diversamente, ne sarei troppo geloso e lo  chiuderei in una teca insieme al veliero di mio padre e al whisky di Brother John». Ma prima di questo, parlando con un rubinetto, si era verificata la seguente scena:

Mentre preparo la valigia, il lavandino del bagno inizia a perdere una goccia ogni qualche secondo. È insopportabile. Dopo due ore mi arrendo e gli confesso tutto: «Q.T.È.U.S.»
«Tienitelo per te!» mi consiglia il rubinetto.
«Ok».

Possibile che dietro quell’acronimo si nasconda un giudizio sul suo stesso testo? Tipo “Questo Teso È Uno Schifo/Una Stronzata”?

Il dubbio dell’anonimato

Briciole dai piccioni è scritto con uno stile sciolto, leggero (tipo dei testi targati Neo), e punta sull’ironia pungente e su situazioni paradossali per raccontare i disagi della contemporaneità, legati soprattutto a vite senza senso, situazioni sentimentali allo sbaraglio e rapporti lavorativi degni del capitalismo di inizio Novecento. Una scena fra tutte: il padre di Alessio lo ha cacciato di casa perché «non sopport[a] più la [sua] faccia in giro per casa»; il ragazzo, dopo qualche notte in motel, si trova un appartamento in affitto.

L’agente immobiliare sorride sornione, come se stesse ruotando il dito nel culo di un coniglio stanato sotto un cespuglio. Firmo il contratto, verso la caparra e la prima mensilità e non ho più un centesimo. L’appartamento da una parte dà sul lago e dall’altra dà sul cimitero. Ho il privilegio di vedere i morti dal balcone, in accappatoio con un drink. Questa è fortuna, penso.

Mentre si ride della cinica e laconica ironia con cui è costruita la scena, resta un amaro di fondo nel pensare che un ragazzo di ventitré anni non ha altre ambizioni nella vita se non quella di “godersi” il privilegio di vedere i morti dal balcone.

Questa ironia spinta, questa crudeltà e questo cinismo sono l’elemento di forza di Briciole dai piccioni, ma a volte stonano anche, soprattutto nella prima parte. Ciò che lascia perplessi all’inizio, infatti, è il linguaggio volutamente “cattivo a tutti i costi” soprattutto quando accostato a un bambino. Si consideri questo passo, in cui il piccolo Alessio, al quale «non succede quasi niente fino a un giorno che h[a] cinque anni», sta giocando con una coetanea:

«Dov’è la tua macchina nuova?» mi chiede.
«Ero sicuro di averla lasciata qui».
«Qui non c’è niente!»
«Merda, me l’hanno rubata!»
«Andiamo, non puoi permetterti una macchina nuova, sei povero e sei piccolo!»
«Stronzate, giuro che era qui».
«Sei un bugiardo!»
«Troia!»
«Cosa?»
«Puttana!»
«Così mi fai piangere!»
«Ti puzzano i piedi da morire!»
«Mi sto mettendo a piangere!»
«Me ne sbatto!»

Ci si chiede se un bambino di cinque anni abbia questa proprietà di linguaggio e se userebbe consapevolmente queste parole. Ma questo dubbio si scioglie quando entriamo nell’adolescenza, dove un certo registro linguistico è più accettabile e naturale, per poi esplodere nell’età adulta in cui, paradossalmente, questo gergo da strada sembra lasciar spazio alle scene comico-ciniche che fanno da pilastro del romanzo.

Una piccola nota a margine: il lettore viene a scoprire il nome del protagonista solo nella quarta e ultima parte del romanzo, “Disoccupazione”, a pagina 134 (parte, tra l’altro, in cui l’autore finalmente mostra tutte le potenzialità del testo): tutto ciò che viene prima, a causa di questo anonimato, sembra assumere dunque l’aspetto di un enorme incipit, di un prologo con la precisa funzione di mostrare, nelle ultime pagine, perché il nostro Alessio è quello che è oggi: uno sfigato senza rimedio, uno sconfitto dalla vita.

Che però accetta con indolente fatalismo ciò che gli è capitato, persino raccogliere briciole dai piccioni. Come se non fosse colpa di nessuno.

‘Quattro soli a motore’, di Nicola Pezzoli

Quattro soli a motore (Neo edizioni, 2012) di Nicola Pezzoli è il primo libro della saga dedicata a Corradino, il quale è stato seguito da Chiudi gli occhi e guarda (2015) e dal recentissimo Mailand (2016). Come la maggior parte dei romanzi che ruotano intorno alla vita di una singola persona, si classifica pienamente all’interno del genere di formazione.

Quattro soli a motore: “Corradino c’est moi. Corradino ce n’est pas moi”

Iniziamo col dire qualcosa di assurdo: Quattro soli a motore presenta uno degli incipit più robusti mai letti ma, al contempo, fonda molta della sua forza narrativa su una “truffa”. Proprio così, una truffa, ma di quelle che, da un lato, si “sciolgono” e si giustificano solidamente all’interno del testo, rendendosi così coerente al lettore; e dall’altro si “perdonano”, poiché quando ci si accorge di questa truffa (che tante aspettative ha creato nel frattempo) si è già immersi in una lettura che assorbe. Per capire di che tipo di truffa parliamo, è bene leggere la prima parte dell’incipit:

Se non vi piace Corradino, chiamatemi come vi pare. Solo vi prego non chiamatemi Scrofa. Non è giusto chiamare Scrofa un ragazzino di undici anni. Tanti ne avevo nel 1978, l’estate che divenni un assassino. Quell’anno accaddero cose che ancora mi fanno tremare e che adesso proverò a confidarvi. Possano perdonarmi le anime delle persone che ho ucciso. Perché una parte di me continua a pensare che i fatti si sono svolti così, che non si è trattato di pure coincidenze, e nessuno mi convincerà mai del contrario.

Da lettori ci si aspetta qualcosa di sconvolgente quando l’autore ci fa avvicinare, senza mezzi termini, alla possibilità che un bambino di undici anni di nome Corradino sia un assassino. Oltre a questo fatto, in queste poche righe aleggia una sensazione di oscurità (rinvenibile in tutto il romanzo) che è difficile togliersi di dosso. “Non è giusto chiamare Scrofa un ragazzino di undici anni” rimanda a un senso di giustizia universale infranta, mentre “possano perdonarmi le anime delle persone che ho ucciso” ha molto il sapore di un peccato da espiare. E così è, se si pensa all’educazione cattolica “da paese” impartita al protagonista.

Ma poi, nel prosieguo della storia di Quattro soli a motore, scopriamo che non c’è stato alcun assassinio; che il piccolo Corradino, in quell’estate del ’78, si è ritrovato a odiare alcune persone, con la morte delle quali niente ha avuto a che fare se non l’aver desiderato la loro fine in un taccuino rosso sottratto sette anni prima a una “cugina della nonna”. Ma allora perché, nonostante questo palese “tradimento” di quel filo rosso della fiducia che lega dalle prime righe autore e lettore – e che deve necessariamente continuare a essere integro fino all’ultima parola – non si può affermare che Pezzoli sia un millantatore e un bugiardo, relegandolo fra gli scrittori di cui non ci si può fidare?

La risposta è semplice e, al contempo, perfettamente s’inquadra nella tecnica stilistica del romanzo di formazione, o meglio in quella parte del romanzo di formazione che riguarda l’infanzia di un personaggio: l’immaginazione di un bambino, il suo modo di vedere il mondo intorno a sé e d’interrogarsi sugli eventi (soprattutto gli eventi ultimi e i casi limite, come appunto la morte) hanno la capacità di modificare strutturalmente le esperienze vissute e i ricordi legati a quelle stesse esperienze. Tornando anche trent’anni dopo sui medesimi fatti vissuti – con la consapevolezza e la Weltanschauung di un adulto che ormai ha imparato a razionalizzare, a darsi risposte sensate e coerenti col sistema-mondo – resta sempre quel senso di inspiegabilità, ineluttabilità e mistero intorno agli eventi che maggiormente hanno segnato l’infanzia.

E allora l’aver “predetto” le morti di persone odiate diventa de facto l’aver “causato” quelle stesse morti. Come si legge in questo passo relativo alla morte accidentale della zia Trude:

Di nuovo io solo con lei e le sue pupille sgranate e la sua faccia viola e l’espressione terrorizzata e attonita, ma pur sempre cattiva, io che avevo provocato la sua morte, io che l’avevo odiata d’un odio profondo, e che non riuscivo a dispiacermene abbastanza, se non per il terrore della condanna eterna della mia anima.

In Quattro soli a motore il rapporto di un bambino con la morte è qualcosa di paradossale, un concetto ancora evanescente, un mix di altri concetti altrettanto volatili (quel posto “magico” chiamato paradiso, lo strano timore associato alla parola “Dio”, l’impossibilità di un’ulteriore esistenza ecc.). Qualcosa d’inspiegabile appunto ma che – lo si percepisce già dalle lacrime dei vivi, dalle parole sbocconcellate e dagli sguardi di terrore dei genitori che provano a dare ragione di qualcosa di ultimo come la morte – non ha e non può mai avere un valore positivo, ma anzi è la negazione di tutto ciò che è. E allora quanto immani devono essere il senso di colpa, di terrore, di disperazione, per un bambino di undici anni, che si accompagnano alla consapevolezza (immaginata, ma non per questo meno reale nella sua mente) di essere stato la causa di ben tre morti, avvenute tutte in rapida successione, di altrettante persone odiate?

Ma le nebbie quasi-oniriche della fantasia e del mistero non avvolgono solo la dipartita improvvisa di questi personaggi. Tutto viene (ri)visto, anni dopo, attraverso gli occhi di un bambino cresciuto. Così la famiglia diventa il luogo della non-sicurezza (laddove la figura del padre – che generalmente funge da guida nell’esistenza – è sempre connessa col dittatore argentino Videla, mentre quella della madre – il simbolo, di solito, della purezza d’animo – è sporcata da un alcolismo imperante), le prime cotte sono vissute con terribile disincanto, il circondario del ristretto paesino di Cuviago è luogo di insidie e di limiti. Villa Kestenholz – la terribile residenza dell’altrettanto terribile padrone di casa (un fantasma ultracentenario nei pensieri del piccolo Corradino), il luogo di finis terrae, il non plus ultra, ciò che è al di là delle colonne d’Ercole – si rivela poi una casa come le altre, che nasconde solo un vecchio prossimo alla morte tormentato dalla perdita dei figli durante la prima guerra mondiale. Così la fantasia di un bambino costruisce un mondo a parte, inesistente, ma comunque vivido e lucido, in grado di condizionare tutto il resto.

Con Quattro soli a motore, Pezzoli riesce in questo suo intento di voler indagare quel periodo storico di un individuo in cui si formano la sua personalità, i suoi incubi ricorrenti, la sua morale – tutti elementi che, variati ed evoluti, torneranno e ritorneranno sempre nella vita. L’infanzia contiene in sé il fascino perverso di un carattere in germe: tutto ciò che in questo momento va storto tende a ripresentarsi, se non curato tempestivamente, nella vita adulta: è questa la terribile realtà che sta dietro a quello che, generalmente, è considerato il periodo più “tranquillo” della vita di una persona ma che, in realtà, nasconde la potenza (in senso aristotelico) del disastro esistenziale. E riuscire a raccontare con questa fermezza di spirito quel periodo è qualcosa che merita decisamente un inchino… nonostante la “truffa” (pur ardita) che vi sta dietro.

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