Il neorealismo di Pasolini, tra letteratura e cinema

Il Neorealismo è una corrente letteraria di particolare spessore che ha creato nel corso degli anni un vero e proprio “filone” critico o semplicemente di analisi, da parte di studiosi, letterati, linguistici ma anche storici.

Attraverso la letteratura neorealista si mette in scena la quotidianità, con una serie di elementi negativi o positivi che siano e che indiscutibilmente la caratterizzano. Una rappresentazione oggettiva, che può scuotere gli animi. In questa situazione la più evidente testimonianza dei tempi, proprio per le sue contraddizioni, è offerta da Pier Paolo Pasolini1.

Il Neorealismo in Italia fu contraddistinto da una serie di “voci” impastate nella lingua letteraria ma anche artistica. La visione ed il modo critico-razionale di intervenire sulla quotidianità, propri di Pier Paolo Pasolini, si oppongono al cosiddetto sistema borghese, ma anche al capitalismo.

Quella di Pasolini è una forma di opposizione che sfocia in un vero e proprio dissenso ideologico ed oggettivo; lo scrittore bolognese prende le distanze, grazie al Neorealismo dalla tradizione lirica del Novecento, promuovendo un filone sperimentale diverso, lontano dai canoni della tradizione, vero, in cui chiunque avrebbe potuto riflettersi e riconoscersi. Da tutto ciò nasce quella che è stata definita la demistificazione che lo scrittore fa del non-civile neocapitalismo, l’ipotesi sempre più ostinata di rapporti umani nel quadro di una natura immutabile, la ricerca delle ragioni essenziali di vita al di fuori dell’ambito letterario, la negazione attiva come vitalità, l’impossibilità di mutare il sistema, una sorta di fatalismo astorico, le regressioni e il ritorno alle mitologie.

In questo modo, il Neorealismo di Pasolini diventa la forma più alta di comunicazione con quel mondo fatto di una propria psicologia e cultura due identità strettamente collegate tra loro e spesso dimenticate. Non solo in ambito prettamente letterario, ma anche dal punto di vista cinematografico, gli attori scelti da Pasolini si discostano dal ruolo reale di attori professionisti, sono persone scelte a caso, prese dalla strada, nei quartieri malfamati, casalinghe, padri di famiglia, bambini. I corpi, i volti, le posture di chi ha interpretato i personaggi dei film di Pasolini non sono prodotti di un artificio illusionistico che fa capo al sistema-cinema, poiché gli “attori” riportavano sulla pellicola ciò che erano nella vita reale, senza dover fingere in nulla.

Probabilmente è in questo che risiede la chiave di lettura del Neorealismo inteso come strumento di rappresentazione della verità. Rappresentare tutto ciò che circonda l’uomo ma senza artefatti, in modo naturale e spontaneo.

Una visione che si oppone al Capitalismo, dunque al quale prima si faceva menzione e che presuppone l’abolizione delle classi sociali a favore di un’identità che sappia far parlare di sé per ciò che si è.

L’orda capitalistica che ha invaso la società italiana era stata scorta nella sua più cruda totalità. Era scomparso quel sottoproletariato incontaminato, che trovava come alternativa alla cultura borghese la propria cultura, vera e autentica, basata su una scala di valori “altra”, come sosteneva lo stesso autore. Quella di Pier Paolo Pasolini è stata infatti definita una lotta contro l’universo consumistico.

Ci prova l’autore e regista friulano, con tutte le sue forze. Nonostante spesso non riesca ad arrivare dove vuole. Nonostante a volte proprio quella realtà dove prova ad agire, si opponga ad ogni cambiamento. Infondo è risaputo che il cambiamento è una costante ed in quanto tale non può essere forzato o richiesto, ma Pasolini, pur essendone consapevole ci prova.

Di conseguenza, Pier Paolo Pasolini problematizza il rapporto tra interiorità singola e oggettività sociale e vede come via d’uscita lo sperimentalismo «sprofondato in un’esperienza interiore» come «lotta innovatrice non nello stile ma nella cultura».

L’arte che ha portato avanti Pasolini, dunque, sposa in maniera precisa la sua intenzione di dare uno ampio scorcio di una dimensione sociale forzatamente messa da parte. Se precedentemente il Neorealismo di De Sica e Rossellini aveva il compito di porre in evidenza la disperazione mortale e totalizzante dell’uomo del dopo-guerra, quello di Pasolini invece di dare a quei ragazzi di vita la voce che gli era stata tolta e mettere in risalto lo spirito del tempo, veicolato dall’egemonia culturale di una borghesia cattolica e selettiva.

Quel genocidio culturale – a cui si è sempre appellato l’autore – che ha generato quella mutazione antropologica del popolo italiano –  ha visto una variazione dello spirito del tempo che ha invaso anche il sottoproletariato. Il cambiamento generato da una società che stava basando le proprie fondamenta sulla circolazione e sull’accumulo di denaro, ha causato una variazione di ogni relazione sociale.

 

“ […] Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione. E si tratta precisamente di uno di quei genocidi culturali che avevano preceduto i genocidi fisici di Hitler.

[…] Se io oggi volessi rigirare Accattone, non potrei più farlo. Non troverei più un solo giovane che fosse nel suo “corpo” neanche lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentato sé stessi in Accattone. Non troverei più un solo giovane che sapesse dire con quella voce, quelle battute. Non soltanto egli non avrebbe lo spirito e la mentalità per dirle: ma addirittura non le capirebbe nemmeno […]”.  

Lettere Luterane 

Luchino Visconti, gattopardo imperfetto tra neorealismo e decadentismo

Decadente, nostalgico, melodrammatico. È Luchino Visconti, maestro del cinema italiano tra neorealismo e decadentismo, autore di capolavori immortali tra Tomasi di Lampedusa e Proust

Il neorealismo di Luchino Visconti

Il cinema italiano ha ospitato grandi registi che hanno reso noto il neorealismo in tutto il mondo. Attraverso opere come Roma città aperta o Ladri di biciclette.

Raccontando un’Italia semidistrutta, ma capace di grandi speranze sociali, tra lo squallore del secondo dopoguerra. Ogni regista diede un suo contributo alla creazione di un canone neorealista, con i suoi attori presi dalla strada, i set nelle strade della città e non solo negli studi, l’adesione a principi politici come il marxismo e l’antifascismo.

Ossessione e La terra trema

A questo canone appartiene anche Luchino Visconti, regista di estrazione aristocratica, che nel 1943 dirige il primo vero film neorealista: Ossessione.

In esso si mostrano i temi del movimento di De Sica e Rossellini, dalla rottura con la correttezza del cinema dei telefoni bianchi all’attenzione per la resa dei contesti sociali. Riprendendo i temi del naturalismo francese e del verismo, stravolgendoli e attualizzandoli.

Non è un caso che La terra trema, secondo film di Visconti, finanziato dal PCI, si rifaccia ai Malavoglia di Verga, stravolgendone la sceneggiatura, introducendo il dialetto siciliano, che nell’opera letteraria era solo accennato.

Nostalgia e decadentismo

Poi, a partire dagli anni ’50-’60, il neorealismo si decompone, proiettando i suoi registi verso altri filoni. De Sica verso il cinema nazional-popolare di ieri oggi e domani, Fellini (che pur era stato neorealista a modo tutto suo) verso un cinema onirico e magico.

Visconti, che chiude i conti col neorealismo con il film Bellissima, aspra critica sociale e constatazione del fallimento degli ideali neorealisti, si cimenta in un cinema fatto di nostalgia e intimismo.

Senso

Il primo punto di rottura è Senso, tratto da una novella di Camillo Boito (fratello del più noto Arrigo), del 1954. L’opera descrive l’amore tra un ufficiale austriaco, Franz Mahler, e una nobildonna italiana, di ideali risorgimentali, sullo sfondo di una Venezia decadente durante il risorgimento.

Il film è la constatazione del risorgimento come rivoluzione tradita, della critica alla guerra, ma soprattutto la presa di coscienza del la fine di un mondo. Il mondo aristocratico e antico schiacciato dalla borghesia e dalla storia.

La grandezza di senso sta proprio nell’introduzione di temi marcatamente decadenti. La fine del mondo ottocentesco e l’avanzata della società di massa, il culto del melodramma e della bellezza, reso tramite fuori campo che creano omaggi al mondo del melodramma e del teatro.

Mostrando in ogni inquadratura riferimenti alla pittura ottocentesca, soprattutto ad Hayez, rendendo la scenografia come un perenne teatro dell’opera. Impreziosendo il film di elementi aristocratici ed estetizzanti.

Il Gattopardo

Estetizzazione del mondo aristocratico e nostalgico che è il centro di uno dei capolavori del cineasta milanese: Il gattopardo (1963), tratto dall’omonimo romanzo del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Si tratta di un film che, secondo la volontà di Visconti, voleva trovare la perfetta sintesi tra Mastro Don Gesualdo di Verga e Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust.

Il risultato è un kolossal unico che riesce a condensare il meglio della poetica e dello stile del regista. La storia è ambientata nella Sicilia dell’ottocento a cavallo tra la fine del regno delle Due Sicilie e l’inizio del neonato regno d’Italia.

I protagonisti sono i membri di una famiglia nobile siciliana, implicata con i Borbone, che vive una vita rigida e lussuosa, affascinante e anacronistica.

Trama e contenuti del film

Rappresentante di questo mondo è il principe Salina (Burt Lancaster), nobile pessimista e disilluso, conscio della fine del dominio del mondo aristocratico meridionale che di fronte all’avanzare delle nuove generazioni, spregiudicate e tessitrici, rappresentate dal giovane Tancredi (Alain Delon), e all’ascesa della ricca borghesia, è amareggiato per un mondo che vede sgretolarsi.

Un mondo fatto di ritualità, di convenzioni sociali, di una routine immobile e fuori dal tempo. Proprio nella resa di questo contesto Visconti mostra il suo stile decadente ed estetizzante.

Le pose, le abitudini, le formalità di questo ambente vengono raccontate e approfondite immergendo lo spettatore in scenari fastosi ed affascinanti. Attraverso una cura maniacale del dettaglio, l’utilizzo frequente di campi lunghi per creare una atmosfera da melodramma. Teatrale e magnifica, ma anche immobile e decadente.

Il principe Salina

Di questa epoca finita il principe Salina è l’ultimo rappresentante, che mostra la propria incompatibilità con la spregiudicatezza e l’ambizione di Tancredi e del mondo borghese (“Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica in quattro e quattr’otto. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”).

Che però asseconda spingendo Tancredi verso la figlia del ricco borghese don Calogero (Claudia Cardinale), interrompendo la continuazione della tradizione nobiliare.

È il vinto della storia che di fronte ad un mondo che muore verso cui sente simpatia e affetto sceglie la via del ritorno, chiudendosi pessimisticamente nella propria oasi di raffinatezza:

“Sono un esponente della vecchia classe, fatalmente compromesso con il passato regime, e a questo legato da vincoli di decenza, se non di affetto. La mia è un’infelice generazione, a cavallo tra due mondi e a disagio in tutti e due. E per di più, io sono completamente senza illusioni.

Che se ne farebbe il Senato di me, di un inesperto legislatore cui manca la capacità di ingannare se stesso, essenziale requisito per chi voglia guidare gli altri?

No Chevalley, in politica non porgerei un dito, me lo morderebbero. Siamo vecchi, Chevalley. Molto vecchi. Sono almeno venticinque secoli che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche ed eterogenee civiltà. Tutte venute da fuori, nessuna fatta da noi, nessuna che sia germogliata qui.

Da duemilacinquecento anni non siamo altro che una colonia. Oh, non lo dico per lagnarmi, è colpa nostra. Ma siamo molto stanchi, svuotati, spenti.”

Gruppo di famiglia in interno

Temi quelli del Gattopardo che verranno poi ripresi ben undici anni dopo nel 1974 con la pellicola Gruppo di famiglia in interno (1974), in cui il protagonista (Burt Lancaster), interpreta un anziano professore universitario che, ritirato dalla vita, si dedica allo studio e alla cultura in uno splendido palazzo-biblioteca.

La residenza del professore è un appartamento ricercatissimo in cui i quadri, i manoscritti antichi, i pizzi e le porcellane, creano una atmosfera sospesa e ricercata, in cui il suo protagonista si specchia e confonde, in una quiete dottissima.

Quiete turbata dall’arrivo della marchesa Brumonti, di sua figlia col compagno, e di Konrad, giovane amante dal passato extraparlamentare e una vita dissoluta.

Il film, girato solo tra le mura domestiche, racconta l’intromissione di questi personaggi nella vita del professore, allegoria dell’intromissione del mondo moderno, con cui il protagonista inizia a dialogare, finendone deluso e disgustato.

Un film allegorico

Diventando involontariamente padre di questa assurda famiglia. Famiglia in cui si inscenano le finzioni e i pregiudizi del mondo borghese degli anni 70. Colpito dalle spinte pseudorivoluzionarie del ’68, da una borghesia ancora più cinica e spregiudicata, involutasi col consumismo.

Mostrando la totale idiosincrasia dell’intellettuale con la società consumista e turbolenta. Anche il professore è un vinto, come il principe salina, è il ritratto malinconico di relitto di un mondo passato, che plasmato sulla vita solitaria e claustrofobica dell’anglista Mario Praz, mostra un lato ancora più intimista e nostalgico.

Affidandosi proustianamente alla memoria, alla letteratura, la forma fisica dei ricordi. Sentendosi fuori posto oppresso dalla presenza annientante della morte:

“C’è uno scrittore del quale tengo i libri in camera mia e che rileggo continuamente, racconta di un inquilino che un giorno si insedia nell’appartamento sopra il suo, lo scrittore lo sente muoversi, camminare, aggirarsi, poi tutt’a un tratto sparisce e per lungo tempo c’è solo il silenzio. Ma all’improvviso ritorna, in seguito le sue assenze si fanno più rare e la sua presenza più costante: è la morte”.

L’anacronismo di Luchino Visconti

In questi film Visconti mostra il suo lato più nostalgico e decadente, reazionario e anacronistico. Profondamente critico verso la borghesia (verrà infatti considerato sempre un compagno di strada del Pci) e nostalgico di un mondo che sa in rovina, oppresso dalla figura opprimente della morte.

In cui si riconosce la grande trazione decadente, un fascino aristocratico e raffinato. Cullato in quel mondo morto, reso magnifico dalla convinzione proustiana che crede che ogni paradiso è paradiso perduto.

Un gattopardo milanese che nonostante le stroncature della critica comunista, si affianca al partito, che si confronta col mondo moderno , rimanendone deluso e disgustato, ritornando all’arte. Lui, un gattopardo imperfetto.

 

Francesco Subiaco

Intervista a Paolo Licata, regista di ‘Picciridda’, in concorso per Il Globo d’oro e i Nastri d’argento

Disregazione familiare, violenza e giustizia privata. Sono queste le tematiche centrali di Picciridda- con i piedi nella sabbia, film tratto dal romanzo di Catena Fiorello, felice esordio alla regia di Paolo Licata, 38enne siciliano che mette in scena un melodramma costruito sull’essenzialità dei dialoghi e degli sguardi dei protagonisti, incastonati in una natura aspra ma che sa essere anche di conforto ai drammi degli esseri umani.

Il film di Licata, date queste premesse, può richiamare alla memoria il poderoso e drammatico affresco familiare di Luchino Visconti (di cui Licata è estimatore), Rocco e i suoi fratelli, in realtà se ne distacca per l’assenza di carica ideolgica e per l’importanza che il regista dà alla sua terra e alla natura.

Picciridda: trama e contenuti

Favignana, fine anni Sessanta. Lucia (Marta Castiglia) è una bambina di undici anni che ha appena visto i suoi genitori e suo fratello partire in cerca di fortuna in Francia. Lucia viene affidata a nonna Maria (una granitica Lucia Sardo), donna severa che non ama le smancerie, sul cui volto è impresso un triste segreto che l’hanno resa diffidente e guardinga. La donna, che lavora come “vestitrice di morti” è in rotta con la sorella Pina (Ileana Rigano), la cui figlia Rosa Maria (Katia Greco), è innamorata di un uomo sposato.

In questo perimetro complicato, gli unici motivi di distrazione e leggerezza per Lucia sono la compagnia di una gallina e quella di una compagna di scuola.
Su uno sfondo naturale che ricorda le ruvide opere di Giovanni Fattori con la sua propensione a mostrare gli aspetti più terragni della realtà, quelli meno appariscenti e dunque più dolorosi, Licata infatti presenta con delicatezza il suo verismo filmico, senza risparmiare un innocente coinvolgimento lirico, a tratti troppo enfatico, rappresentato soprattutto dall’acqua che purifica e fa dimenticare per un po’ ciò che di disperato stiamo vivendo.

Il piglio impressionistico di Licata fa sì che le riprese risultino omogenee e accordate tra loro e contribuisce a dare alla pellicola un’atmosfera nostalgica in virtù non solo di chi è rimasto, smarrito e ignaro di possibili pericoli, nella propria terra, subendo l’emigrazione, ma anche una velata nostalgia per il cinema italiano che fu, quello del Neorealismo di Rossellini, in particolare il film Stromboli: se in questo capolavoro Ingrid Bergman che vaga alla ricerca di Dio, era al vaglio di sguardi spigolosi e sospettosi da parte degli abitanti dell’isola, la picciridda Lucia ha una doppia vita che si nutre di dramma, conflitto e infine di riconciliazione con la vita attraverso il mare e la memoria.

Lucia sembra essere l’alter ego femminile del protagonista del romanzo di Elsa Morante, L’isola di Arturo: <<Presto, ormai, per me, incomincerebbe finalmente l’età desiderata in cui non sarei più ragazzino, ma un uomo; e lui, il mare, simile a un compagno che finora aveva sempre giocato assieme a me e s’era fatto grande assieme a me, mi porterebbe via con lui a conoscere gli oceani, e tutte le altre terre, e tutta la vita!>>

Picciridda accumula frammenti che pian piano diventano la forma di un destino che si compie, sorprendendo e commuovendo lo spettatore senza avvalersi di retorica e facili sentimentalismi.

Il film è in concorso ufficiale per il Globo d’oro e ai Nastri d’argento con Lucia Sardo come migliore attrice protagonista.

 

Una scena del film

1 Come nasce la sua passione per il cinema? Perché ha deciso di girare un film?
Sono nato e cresciuto nel teatro lirico. Ho respirato la polvere del palcoscenico sin da quando ho memoria, poiché i miei genitori sono entrambi musicisti. Sin da piccolo mi sono interessato in modo particolare alla regia teatrale e ho iniziato a fare da assistente ai registi che lavoravano nelle produzioni che dirigeva mio padre. Ho anche diretto qualche opera teatrale. Poi crescendo la mia attenzione si è spostata verso il cinema (c’è sempre stata in realtà), e già da autodidatta giravo corti e gag con i miei amici in modo molto artigianale. Dopo la laurea in giurisprudenza, sono andato a Roma a studiare regia e da lì ho iniziato a fare tutto in modo più professionale: spot tv, corti, via via sempre più lunghi fino al mediometraggio di mezz’ora, The Novel, che ha ottenuto vari riconoscimenti nel mondo. Pian piano è venuto naturale il desiderio di passare al lungometraggio.

2 Chi sono per Lei i maestri del cinema italiano?
I “maestri” per me sono quelli che hanno fatto la storia del cinema (quando il cinema italiano faceva storia) e che ho studiato sui libri di cinematografia. Vittorio De Sica, Pietro Germi, Luchino Visconti. Tra i contemporanei italiani, Scimeca (a cui ho fatto da assistente, ed è stato il mio mentore), Crialese, Tornatore.

3 Qual è stato il momento più difficile durante le riprese?
Dato che il nostro set era un’isola, e le riprese hanno avuto luogo tra novembre e dicembre, i momenti di panico sono stati quelli in cui il mare e il vento si alzavano e le comunicazioni con la terra ferma si interrompevano. Vivevo con la preoccupazione che qualche attore non arrivasse o che non potessimo girare qualche scena a causa del maltempo. Rischi sempre enormi in un film a basso budget, in cui i soldi non bastano mai e non c’è spazio per imprevisti e straordinari. La scena più impegnativa è stata quella della spiaggia, con la gallina (è un piano sequenza in cui i genitori dovevano sostituirsi alla gallina e viceversa).

4 Quali elementi della scrittura di Catena Fiorello, l’hanno catturata maggiormente e come è stato lavorare con lei e con Ugo Chiti?
Catena è una grande narratrice, una raccontatrice. È davvero brava nelle descrizioni di luoghi, persone, colori, sapori, situazioni. Quindi quando ho letto per la prima volta “Picciridda”, oltre alla bellissima storia, mi ha colpito la sua grande capacità di dipingere minuziosamente i dettagli. È stato facile immaginare il film durante la lettura del libro grazie a questo. E lavorare con Ugo è stato un grande onore e privilegio, ogni incontro era per me una lezione di sceneggiatura.

5 Cosa pensa del cinema italiano?
Credo che il cinema italiano sia pieno zeppo di grandi talenti. Parlo sia di attori che di registi, e di tutte le figure in generale. Temo solo che a volte venga dato molto spazio solo ad alcuni e molto poco ad altri. Tanti attori, non di copertina o da gossip, come quelli di cui mi sono avvalso nel mio film, meriterebbero di avere l’agenda sempre piena e invece troppo spesso e troppo a lungo stanno a casa. I talenti ci sono, ma quelli che lavorano continuamente sono sempre e solo gli stessi.

6 Lei racconta un’odissea al femminile affidandosi all’essenzialità che è propria della terra che fa da sfondo alla vicenda. Ma nel suo caso la natura sembra riservare momenti indimenticabili e rassicuranti alla protagonista del film…
L’ambiente in cui si muove la nostra protagonista è elemento essenziale della vicenda. Non in quanto Sicilia (dato che la storia potrebbe essere ambientata e raccontata in qualsiasi parte del mondo), bensì come personaggio che ha un’interazione importante con la protagonista. Intenso e fortissimo è il legame che c’è tra la picciridda e la sua terra, il posto in cui è nata e cresciuta. Lei conosce quei luoghi alla perfezione, ogni angolo di spiaggia e granello di sabbia in cui adora affondare i piedi. Uno degli aspetti più dolorosi del trauma che subisce Lucia è iniziare a vedere quei luoghi con occhi diversi, inevitabilmente. Da un momento all’altro, con violenta rapidità, quei luoghi che lei tanto ama, si trasformano nei luoghi che le ricordano l’incubo che ha vissuto. Uscita dalla casa del terrore, persino quel sole caldo che in genere l’accarezza amorevole, adesso sembra ferirla ed accecarla. Già da lì tutto è cambiato.

7 Crede sia riduttivo qualificare il suo film come una storia di riscatto di donne?
Mi piace vedere il mio film come un contenitore di messaggi per persone di ogni genere ed età. I temi trattati sono molteplici e ho potuto notare che ognuno si emoziona in scene e momenti diversi, a seconda del tipo di sentimento che il film gli ha rievocato. Non credo che la storia sia destinata prevalentemente ad un pubblico femminile, credo che per sentirla sia sufficiente avere un cuore. Più specificamente, riguardo al tema della violenza sulle donne, vorrei che questo film fosse un monito e che i destinatari principali di questo messaggio fossero gli uomini, troppo spesso incuranti degli effetti devastanti che un loro momentaneo impulso primordiale può avere sull’intera vita di una donna.

8 Come si lavora, trattando tematiche cosi’ delicate, con i bambini?
Ho sempre cercato di adottare tutti gli accorgimenti necessari per tutelare e proteggere la sensibilità di Marta, anche in base alle sue conoscenze ed esperienze. Mi consultavo costantemente con i suoi genitori per sincerarmi che un determinato argomento non fosse nuovo per lei e, nei casi un cui lo era, ci coordinavamo per capire quale fosse il modo migliore per procedere. Nel caso specifico della violenza sessuale, pur convinto che Marta, bambina di inarrestabile perspicacia e curiosità, fosse perfettamente consapevole di ciò che accadeva nella storia, le ho sempre descritto la scena incriminata come un momento in cui l’uomo cattivo semplicemente maltrattava la piccola.

9 In “Rocco e i suoi fratelli”, pellicola ambientata durante il boom economico, Visconti, imputa all’emigrazione di una famiglia lucana verso Milano, la tragica parabola della famiglia di Rocco in una città moderna e del benessere. Il suo film parla di emigrazione passiva, e della violenza insita nella famiglia di Lucia. Trova che si parli troppo poco della sofferenza e della solitudine di chi resta?
Il tema dell’emigrazione passiva mi ha colpito dal primo momento in cui ho letto il libro. In realtà non avevo ancora visto molti film in cui si rappresentava la sofferenza di chi resta e vede i propri cari partire. Il tema è di grande attualità perché è sempre all’ordine del giorno nelle aule del parlamento e nelle prime pagine dei quotidiani. Lo viviamo quando riceviamo le famiglie che emigrano dal proprio paese, ma lo viviamo anche quando le nostre famiglie si dividono tutt’oggi. L’unica differenza col passato è che prima erano i genitori a partire, oggi sono i figli. Ma il dolore e la sofferenza restano uguali, perché il trauma risiede nel distacco, nell’allontanamento dai familiari e dalle persone a cui vogliamo bene.

10. Cosa si aspetta da questo film? Il suo desiderio più grande?
Mi fai una domanda importate in un periodo delicato in cui sono molto sensibile all’argomento.
Vorrei che il mio film non finisse nel dimenticatoio per dare spazio ai film grossi che devono uscire! Vorrei che, appena possibile, lo vedesse il maggior numero di persone. Vorrei che il periodo assurdo in cui è uscito non lo penalizzasse nella sua diffusione e che, a tal fine, le istituzioni intervenissero direttamente per tutelare i film che non sono usciti o che sono usciti per poco come il nostro. Mi rendo conto che ci sono altri film più grossi che attendono ancora di uscire, ma ciò che è accaduto non ha precedenti e pertanto non credo sia giusto che ad essere penalizzati siano le piccole produzioni.
Vorrei che si agisca secondo giustizia e buon senso. Vorrei essere orgoglioso e fiero delle decisioni del governo e dei ministeri. Vorrei che i decreti tanto rigidi per fronteggiare il virus, fossero altrettanto rigidi nella gestione di eventuali turni nella programmazione dei film la cui commercializzazione è stata traumaticamente interrotta. Perché in tutti i film ci sono persone che hanno investito tutta la propria vita ed è giusto che tutti abbiano il proprio spazio. Lo spazio e il successo del film deve essere lasciato all’indice di gradimento del pubblico, non dai virus che ne bloccano la diffusione. E questo sarà possibile solo se ne sarà garantita la visibilità dalle istituzioni e dagli enti preposti.

Addio a Vittorio Taviani, protagonista del cinema italiano impegnato, registratore, insieme al fratello Paolo, della verità poltica e sociale italiana

È morto a Roma, malato da tempo, il grande regista Vittorio Taviani, 88 anni, che con il fratello Paolo ha firmato capolavori della storia del cinema italiano, registrando senza orpelli la cruda verità politica e sociale della nostra Italia, insieme alle debolezze umane, da Padre Padrone (Palma d’oro a Cannes nel ’77) a La Notte di San Lorenzo a Caos fino a Cesare deve morire (Orso d’oro a Berlino). Lo annuncia all’Ansa una delle figlie, Giovanna. Per volontà della famiglia non ci saranno camera ardente né funerali. Il corpo del regista verrà cremato in forma strettamente privata.

Vittorio Taviani era nato a San Miniato, in provincia di Pisa, il 20 settembre del 1929. Con il fratello Paolo, di due anni più giovane, aveva scritto alcune delle pagine più significative del cinema italiano. Due maestri che fin dagli anni Sessanta non hanno mai perso di vista, e hanno raccontato, la realtà, la storia, le contraddizioni del nostro Paese. Figlio di un avvocato dichiaratamente antifascista (cui le squadracce, durante la dittatura, fecero saltare in aria la casa) Vittorio frequenta la facoltà di Legge all’università di Pisa e nel frattempo, insieme al fratello – sono entrambi dei grandi appassionati di cinema – anima il cineclub della città e organizza proiezioni anche a Livorno, con loro c’è l’amico partigiano Valentino Orsini. Nel 1954 abbandona gli studi e, sempre insieme al fratello e a Orsini, realizza una serie di documentari a sfondo sociale. Alla base ci sono le suggestioni del Neorealismo, in particolar modo, racconteranno in seguito, Paisà di Rossellini. E’ di questo periodo San Miniato, luglio ’44, girato con la collaborazione di Zavattini, mentre nel 1960 firmano L’Italia non è un paese povero, tre puntate per la tv dirette da Joris Ivens, documentario dal destino travagliato sulle conseguenze della metanizzazione nel nostro paese.

Il debutto sul grande schermo risale al 1962, quando i Taviani e Orsini firmano il lungometraggio Un uomo da bruciare, con Gian Maria Volonté, ispirato alla vita di Salvatore Carnevale, bracciante, socialista di Sciara, in provincia di Palermo, attivo nel sindacato e nel movimento contadino, freddato da killer in Sicilia nel 1955. Un film di grande impatto morale che vince il Premio della Critica alla Mostra del cinema di Venezia. Seguirà il film a episodi I fuorilegge del matrimonio (1963), suggerito dal progetto parlamentare di “piccolo divorzio”. Da quel momento (senza Orsini) i Taviani firmeranno insieme una lunga filmografia che parte da Sovversivi (1967) e Sotto il segno dello scorpione (1969), sempre con protagonista Gian Maria Volontè.

Per i due fratelli viene il momento dei riconoscimenti internazionali. San Michele aveva un gallo (1972) vince il Premio Interfilm a Berlino. E dopo Allosanfàn, del 1974, con Marcello Mastroianni e Lea Massari, in cui si fotografa il “tradimento” della classe operaia, è con la biografia di Gavino Ledda Padre padrone, nel ’77, che conquistano Palma d’Oro e Premio della Critica al Festival di Cannes: a consegnarla è il presidente della giuria Roberto Rossellini mentre in Italia viene loro assegnato un David Speciale e un Nastro d’Argento. La carriera di Vittorio Taviani, inscindibile da quella di Paolo, continua con Il prato (1979) e La notte di San Lorenzo (1982), la storia drammatica di un gruppo di uomini e donne che fuggono dai tedeschi nel tentativo di raggiungere una zona occupata dagli alleati; un film bellissimo sulla speranza, contro tutte le guerre, scandito dalla musica di Nicola Piovani, che farà conquistare ai due autori Gran Premio della Giuria a Cannes, David e Nastri d’Argento per la regia e la sceneggiatura.

Insieme nell’84 come membri della giuria alla Mostra del cinema di Venezia, nello stesso anno adattano quattro novelle di Pirandello in Kaos, ed è ancora David di Donatello e Nastro d’Argento per la sceneggiatura, scritta con Tonino Guerra. Nell’86 arriva il Leone d’oro alla carriera, mentre il loro percorso artistico prosegue con Good Morning, Babilonia (1988), Il sole anche di notte (1990, presentato fuori concorso a Cannes), Fiorile (1993), Le affinità elettive (1996), ispirato all’omonimo romanzo di Goethe. Due anni più tardi, realizzano Tu ridi (1998) film a episodi, seguìto dalle miniserie tv Resurrezione (2001) e Luisa Sanfelice (2004). Nel 2007 è la volta di La masseria delle allodole, dal romanzo di Antonia Arslan, ambientato nel 1915, le vicende di una famiglia armena in Anatolia all’epoca del genocidio armeno.

A 83 anni, un nuovo, importante riconoscimento: nel 2012 insieme al fratello vince l’Orso d’Oro al Festival di Berlino (mancava al cinema italiano dal 1991, quando andò a La casa del sorriso di Marco Ferreri) con Cesare deve morire: girato in stile docu-drama, segue la messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare a opera dei detenuti del carcere di Rebibbia, diretti dal regista teatrale Fabio Cavalli. Nel 2014, è uscito il deludente Maraviglioso Boccaccio: ambientato nel 1348, mentre la peste infuria a Firenze, segue dieci giovani che si riuniscono in una casa di campagna e per dieci giorni si raccontano storie d’amore, sesso, burle, per esorcizzare la malattia e la morte. Paolo e Vittorio Taviani hanno adattato cinque novelle del Decamerone alle esigenze del XXI secolo, cercando un confronto con le paure dei giovani contemporanei. Un impegno coraggioso che però non ha portato sullo schermo quell’essenzialità e liricità tipica di Boccaccio, facendo risultare la narrazione poco omogenea e indebolendo la costruzione filmica soprattutto a causa della cornice, costituita dai giovani novellanti.

Il loro ultimo film è stato Una questione privata, lo scorso anno. Il film ritrova l’ambiente delle Langhe che Fenoglio descrive nelle sue pagine e quell’esperienza drammatica ma fondante che lo scrittore ha vissuto da ragazzo, ma che anche i fratelli indirettamente hanno conosciuto attraverso il loro primo documentario San Miniato ’44, sulla strage nazista nella loro città natale, e poi con La notte di San Lorenzo. Per i registi portare Fenoglio sul grande schermo tanti anni dopo per loro “è la chiusura di un cerchio”, necessaria perché “il fascismo torna o tenta di tornare” avevano detto alla Festa di Roma. E loro sono rimasti fino a oggi fedeli alla loro fede antifascista. Peccato però che i due registi, pur ostinandosi a mescolare la guerra e i paesaggi rurali desolati alla questione privata, questo amore che mai si vede, probabilmente più un’ossessione, o forse appunto solo una “questione”, la cui incertezza logora via via la sanità mentale di Milton. E forse sta qui, il non sfruttato legame con la guerra, anziché nelle sporadiche scene di fascisti e partigiani, difatti infinite comparse che si incontrano e scontrano, si inseguono, scappano e ogni tanto si uccidono.

 

Fonti: http://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2018/04/15/news/e_morto_vittorio_taviani_con_il_fratello_paolo_tra_i_maestri_del_cinema_italiano-193924289/

Ricordando Vittorio De Sica

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Quarant’anni fa, esattamente il 13 novembre 1974, si spegneva in un ospedale parigino in seguito all’aggravarsi di un intervento chirurgico per un tumore polmonare, il regista e attore Vittorio De Sica, tra i padri del neorealismo, vincitore di quattro premi Oscar, una Palma d’oro ed un Orso d’oro.

Elegante, di classe, poliedrico, giocatore incallito, autoironico, scanzonato, intuitivo, geniale. Vittorio De Sica (Sora, 7 luglio 1901 – Neuilly-sur-Seine, 13 novembre 1974), che sin da piccolo si dilettava nella recitazione e nel cantare canzoni napoletane, ancora oggi rimane un enigma nel panorama culturale italiano ed internazionale: nessuno come lui, in Italia, a parte Fellini, Rossellini, Visconti ed Antonioni ha lasciato un’eredità così grande ed importante, influenzando scuole, registi e autori. Da Kurosawa a Spielberg, da Chaplin ad Altman, il nome di De Sica ha condizionato e condiziona numerose pellicole straniere e ciò non sorprende se si pensa che un capolavori come Sciuscià e Ladri di biciclette, allo loro uscita, furono snobbati in Italia, mentre all’estero, specialmente in America conobbero un grandissimo successo sia di critica che di pubblico. Ma la leggenda di questo poeta del cinema è segnata da contraddizioni e da mille sfumature, come la sua vita; l’arte e la vita sembrano fondersi una con l’altra, all’insegna della dispersione e del moltiplicarsi di identità. De Sica, prima di diventare regista, è stato attore e cantante (come non ricordarci della canzone Parlami d’amore Mariù), poi attore e regista contemporaneamente (Maddalena zero in condotta, del 1941, Teresa venerdi, dello stesso anno, Un garibaldino in convento, del 1942), ha partecipato a pellicole non degne del suo talento per far fronte ai debiti di gioco, passione che ha riportato in maniera giocosa in diversi suoi personaggi cinematografici, come ne Il conte Max e ne L’oro di Napoli. Divorziato dall’attrice Giuditta Rissone, pur essendosi risposato con l’attrice spagnola Maria Mercader in Francia, De Sica non ha mai saputo rinunciare alla sua prima famiglia e ha avviato così una doppia “relazione”, con doppi pranzi nelle feste.

L’eredità artistica e dispersiva di Vittorio De Sica è strettamente legata alla napoletanità, con il suo romanzo popolare e con la sua sceneggiata, e alle vicende cinematografiche dello sceneggiatore Cesare Zavattini, con il quale ha dato vita a capolavori universali senza mai cadere nella becera ideologia, di cui purtroppo soffrono diversi autori intellettualoidi nostrani, ma andando sempre alla ricerca del dato umano, aspetto che ha fatto sì che i film del regista fossero considerati “un’incarnazione dell’essenza del Cristianesimo”. De Sica ha sempre sentito il bisogno di raccontare la gente e il vero, la realtà, e viveva il proprio mestiere come un dovere morale; sulla stessa onda del suo sceneggiatore Zavattini, del resto. Attraverso il suo cinema, De Sica, come altri neorealisti, ha segnato l’avvento di una nuova estetica nella coscienza collettiva ed esistenziale dell’uomo: si prende atto del disagio ontologico dell’essere umano, quello stato in cui si capisce che non esiste un agire, un fare che possa migliorare la nostra condizione. E questo si riflette nei suoi film. Il contesto in cui sono nate le opere neorealiste è quello del verismo melodrammatico ma la sostanza contiene qualcosa di più profondo e di inatteso: si assiste ad una lucida ed amara riflessione in pubblico senza falsi pudori e moralismi, sulle sofferenze di tutti gli individui, buoni o cattivi che siano.

Vittorio De Sica e Gina Lollobrigia in una scena dal film “Pane amore e fantasia”

Con I bambini ci guardano (1943) di De Sica e con Ossessione, dello stesso anno, di Visconti, infatti non si pronunciano giudizi, si accetta ciò che il destino ci riserva e si pratica la virtù cristiana della compassione anche verso chi, grande novità, non lo merita. Sia De Sica che Visconti si sono trovati sulla medesima strada che in realtà è stata percorsa anche Rossellini. Tutti e tre si sono preoccupati di dissipare quel groviglio di equivoci che la critica ha accumulato riguardo il neorealismo, per il quale non è stata solo questione di girare “dal vero”, in mezzo alla gente, preferendo uomini comuni ad attori professionisti. Questi aspetti non sono altro che conseguenza di un complesso di circostanze, di culture, di costrizioni che il dopoguerra ha rovesciato sul cinema.

Se Rossellini è stato il regista “stoico” del neorealismo, De Sica ne ha rappresentato il lato sentimentale. Ha iniziato come simpatico attore del teatro leggero e delle commedie di Mario Camerini (Gli uomini che mascalzoni…del 1932, Darò un milione del 1935, Il Signor Max del 1937, Grandi Magazzini del 1939) nonché di altre numerose commedie, soprattutto in coppia con la diva Assia Noris, che i “telefoni bianchi” gli hanno offerto; poi l’incontro, che si rivelerà felice, con il grande Zavattini.

 

Uno straordinario Vittorio De Sica nel film “Il Generale Della Rovere”

I film desichiano scorre senza asprezze, sobri anche dei momenti patetici; pensiamo a Sciuscià (1946), vincitore di un Oscar, che narra con immensa delicatezza l’avventura da fiaba di due lustrascarpe romani nel periodo più drammatico del dopoguerra: finirà anch’essa in tragedia. Qui Zavattini si abbandona, nell’invenzione di partenza (i due ragazzi sognano di comprarsi un cavallo bianco con i loro risparmi) alle risorse del suo essere spesso giocoliere, ma De Sica lo tiene a freno, inducendolo a mettere a disposizione la sua fervida fantasia a servizio della drammatica esperienza che vivono di due protagonisti. Due anni dopo De Sica racconta un’altra indimenticabile fiaba metropolitana: Ladri di biciclette. Qui il regista consegna delicatamente la storia di un padre disoccupato e del suo figlioletto, a Roma, alle sue strade, ai suoi mercati, e lo fa con commozione e pudore. Quattro anni dopo il regista asciuga il suo stile, rendendolo meno elegiaco e Zavattini rinuncia al gusto del gioco; insieme allestiscono un contesto reale; nasce un altro capolavoro: Umberto D. (che viene da un’altra fiaba metropolitana, il surreale Miracolo a Milano, del 1951, Palma d’oro al Festival di Cannes. La vicenda dell’anziano pensionato cacciato di casa perché non paga l’affitto non è che un aneddoto. In realtà Umberto D. è un tragico documento sociale, il protagonista e la servetta sono vittime dell’ingiustizia ma non sono abbastanza esperti per opporvisi; i loro nemici sono, senza differenze ed ipocrisie, sia la Roma piccolo-borghese che quella popolare: volgare ed egoista. De Sica vuole essere più oggettivo e ci riesce, il suo sguardo è spietato, appoggiandosi ad un’impostazione narrativa classica di stampo hollywoodiano.

 

Una scena dal film “Umberto D.”

Col passare degli anni il regista, dopo aver riprodotto senza successo ultimi scampoli neorealisti: Il tetto del 1956 Il Giudizio Universale del 1961 (ma è anche diretto magistralmente da Rossellini ne Il Generale Della Rovere del 1959 e recita con Totò ne I due marescialli del 1961) e successi commerciali come Il boom, Ieri, oggi, domani,entrambi del 1963, Matrimonio all’italiana, del 1964, I girasoli del 1970, approda ad un cinema più intenso, manieristico che culmina nell’Oscar per Il giardino dei Finzi Contini del 1970, film della discordia tra lui e lo scrittore Bassani che non riconosceva lo spirito del suo romanzo dell’omonima pellicola.

Ma cosa ricordiamo maggiormente di Vittorio De Sica oltre agli imprescindibili capolavori neorealisti che hanno reso grande in tutto in mondo il nostro cinema, facendo storcere il naso alla D.C., secondo la quale il grande regista, attraverso i suoi film, dava un’immagine che non faceva onore all’Italia? Senza dubbio la sua capacità di far rendere al massimo gli attori che dirigeva, basti pensare alla strepitosa interpretazione, che le è valso l’Oscar, di Sophia Loren nel La ciociara (1960).

Di De Sica attore oggi restano la simpatia del protagonista di Pane, amore e fantasia o de Il processo di Frine, la commozione de Il Generale Della Rovere e una grande umanità che ha saputo trasmettere soprattutto ai suoi attori, primi fra tutti Marcello Mastroianni e Sophia Loren. A chi oggi, vedendo Ladri di biciclette piuttosto che Umberto D., afferma: Dov’è il capolavoro? rispondiamo che la genialità di De Sica sta nell’aver riunito dentro di se tante anime che hanno rappresentato il nostro Paese attraverso i suoi momenti più tragici ed esaltanti, avendo come stella polare un’idea pura del cinema che si manifesta in uno sguardo nitido ed immediato sulla realtà, più potente di un effetto speciale, che lo rende universale ed immortale, che lo pone nell’Olimpo artistico dei “maestri di cinema” e non dei pittori della domenica.

‘Il sentiero dei nidi di ragno’, l’antiretorica partigiana di Italo Calvino

 

Il sentiero dei nidi di ragno si presenta come una delle opere più significative di Italo Calvino; è infatti attraverso questo suo primo romanzo che Calvino nasce e si afferma come scrittore. Il libro viene pubblicato per la prima volta nell’ottobre del 1947 nella collana i Coralli dell’editore Einaudi di Torino.

La storia narra di un bambino, il piccolo Pin, che vive l’intenso e cupo dramma della guerra, in cui tutte le vicende umane vengono collezionate dagli occhi del bambino che le interpreta con la sua visione ingenua e propria di un monello sfacciato e ingenuo.

Pin, che ha perso la madre e il padre e ha fama di gran monello, lavora come assistente di un povero calzolaio, Pietromagro, ha una sorella, detta la Nera, che di professione fa la prostituta e che tutti in paese conoscono.

La vicenda di Pin è singolare, egli vuol fare l’amico dei grandi e perciò fuma e beve come uno di loro e per questa sua smania di fare il grande non riesce a far amicizia con i bambini della sua età che non capiscono i grandi, a differenza di Pin, il quale però alla fine si trova sempre distante sia dai bambini, sia dai grandi.
Questa sua alienazione e distanza da un utopico mondo d’appartenenza, lo rende solo e arrabbiato e inconsciamente cerca nei grandi un rifugio e un mondo a cui appartenere.

L’occasione per sancire la sua entrata in quel mondo affascinante e misterioso dei grandi, si presenta al bambino quando gli uomini dell’osteria, influenzati da uno strano uomo misterioso, gli commissionano un arduo compito per dimostrare di far parte di loro: recuperare la pistola di un marinaio tedesco, Frick, che va spesso a trovare la sorella di Pin.

Pin riesce nell’impresa e ostentando la vittoria, si avvia verso l’osteria, pregustando già la faccia di stupore e di ammirazione che vedrà stampata su quei volti increduli. Una volta arrivato all’osteria scopre che gli uomini gli avevano commissionato quell’ impresa solo perché volevano impressionare positivamente quell’uomo misterioso.

Arrabbiato e deluso dai grandi, Pin insulta gli uomini e corre più forte che può e attraverso terre scoscese, trova i sentieri che solo lui conosce, i sentieri che portano ai nidi di ragno, tra i quali decide nascondere la pistola. La scomparsa dell’arma però non resta segreta e sulla via del ritorno il bambino scopre che il paese brulica di truppe fasciste e tedesche che lo catturano, incolpandolo dell’accaduto.

Dopo un violento interrogatorio, Pin non rivela la posizione della pistola e viene condotto in prigione. Alla fine riesce ad evadere grazie a un comunista incontrato in prigione, Lupo Rosso. Pin vive esperienze che gli faranno provare sensazioni come la solitudine, e conosce persone che deludono, il suo unico desiderio e quello di trovare il grande amico diverso da tutti gli altri uomini e alla fine ci riuscirà.

Il sentiero dei nidi di ragno rappresenta una realtà storica e una realtà esistenziale molto care al Neorealismo, corrente in cui rientra l’autore come tra i più celebri. La cornice della guerra fa da sfondo alle avventure del piccolo Pin, che si ritrova a dover sopravvivere in uno scenario popolato dal nero delle brigate fasciste e naziste, dal fumo e dal bere, uno scenario in cui non poteva sopravvivere un bambino qualunque.

Ma, come ci si accorge sin da subito leggendo il romanzo, il mondo partigiano viene trattato quasi in maniera indiretta, la vita dei partigiani viene a incrociarsi con quella di Pin, ma non è quella di Pin. La materia da trattare, la vita dei partigiani italiani del secondo dopoguerra, era un argomento sentito troppo solenne dall’autore, che preferisce filtrarlo attraverso gli occhi ingenui e monelli di un bambino, ma non per questo l’espressione del mondo partigiano perde la sua importanza, anzi forse ne acquista. La componente del personaggio-bambino fa da perfetto esecutore dei giudizi dello scrittore e permette una visione più distaccata del mondo partigiano, senza farsi inglobare dai suoi stereotipi e dalle contaminazioni della sua storia.

La rappresentazione inoltre è alquanto polemica: gli eroi presentati nel libro come i mitici partigiani non ricalcano affatto l’ideale dell’eroe socialista, né quello classico degli eroi puri e senza macchia. Tutti i personaggi del libro sono frutto dell’esperienza personale dello scrittore ai tempi della guerra e questo fa si che non ci siano eroi inventati su quelle pagine, bensì uomini veri e concreti che diventano eroi. Questo è il fulcro centrale della polemica di Calvino contro l’eroismo statico, che voleva i personaggi come eroi creati da sempre e sempre vissuti, mentre l’autore punta ad una presa di coscienza dell’eroismo come un arte a cui ogni uomo partecipa. Il mondo partigiano risulta colorito e vive attraverso i suoi protagonisti autentici: gli uomini diventano eroi, non sono eroi già costituiti.

Ma se la componente partigiana è molto trattata (senza retorica), altro discorso vale per la storia di Pin, che si offre a diverse interpretazioni. La ricerca che il piccolo Pin compie per il mondo, in modo febbrile, maniacale, rappresenta senz’altro quella voglia di salvaguardare il proprio tesoro e quella voglia inconscia di un rifugio fanno di lui un ragno; Pin vuole ricreare il suo nido e potersi riscoprire nell’ombra dei suoi cunicoli interiori ed è per questo aspetto che il finale del libro si arricchisce ulteriormente: lasciandosi alle spalle il sentiero dei nidi di ragno, ormai distrutto da Pelle, Pin si incammina con Cugino a fare il “nido” da qualche altra parte, ora che anche lui ha trovato il suo sentiero, e  può ricreare il suo destino. Pin rappresenta perciò non un eroe, ma quella voglia forse più infantile e necessaria dell’uomo, di avere un padre o una madre, dicendoci che questa voglia, questa pulsione esistenziale va difesa con forza e determinazione. Da questo punto di vista Pin diventa un eroe, un eroe che insegna a combattere per quello in cui si crede. Pin si fa portavoce della determinazione umana ed impara dalla delusione e dalla disperazione che popolano la sua vita a seguire il suo sentiero e creare il suo nido “nella notte, in mezzo alle lucciole, tenendosi per mano”.

 

Vasco Pratolini e il realismo della parola

Nato a Firenze il 19 Ottobre del 1913, Vasco Pratolini vive a lungo in questa città e nel cuore del suo Quartiere. Cresciuto sotto la stretta custodia della matrigna, con la quale intratterrà rapporti burrascosi, Pratolini avvertirà sempre e dolorosamente la mancanza dei genitori, essendo il padre partito per la guerra e la madre morta durante gli anni della sua giovinezza.

Lavora inizialmente come tipografo, per crearsi una sua indipendenza, e si dedica ad altre attività, ma poi è costretto a trascorrere un periodo di due anni presso un sanatorio. Ritorna a Firenze dove incontra Elio Vittorini, con il quale collabora alla rivista Letteratura e successivamente fonda, assieme ad Alfonso Gatto, il quindicinale Campo di Marte. Viene assunto dal Ministero dell’Istruzione prima a Roma, poi a Napoli, dove insegna nell’Istituto Statale d’Arte. Vicino alle posizioni della sinistra e del PCI, partecipa alla Resistenza negli anni più duri per l’Italia. Muore a Roma, 12 gennaio 1991.

Le tematiche narrative di Pratolini, considerato l’iniziatore del Neorealismo e scrittore “socialmente impegnato”, toccano una sfera più umana e civile rispetto ai motivi autobiografici; si potrebbe dire che la narrativa si umanizza con una profonda riflessione sulla storia e sul passato, in quanto il romanzo si fa portavoce, adesso, della coscienza di un interno popolo.

Pratolini prova verso le azioni compiute dagli uomini un senso di pietà che descrive come una sorta di tenerezza e meraviglia ed è l’uomo che stupisce dando dei nomi a queste cose e a queste azioni mentre spetta al poeta, o meglio all’uomo che si fa poeta, custodire e difendere la purezza della parola, verità che si oppone alla menzogna dell’anti-parola. L’anti-parola, di conseguenza, diventa anti-poesia e anti-azione. Inevitabile è la divisione che ne deriva tra chiarezza ed oscurità, mondo umano e mondo animale. Il tappeto verde, Le amiche, Il Quartiere, Cronaca familiare, Cronache di poveri amanti, sono opere in cui vengono raccontati i legami affettivi, quelli instaurati con la gente “di strada”, gli scambi umani avvenuti in piazza,  tra i mercati, perché è di questa gente che Vasco Pratolini vuole parlarci, della sua Firenze, al di là di ogni congettura a riguardo:

eppure possiamo leggerci dentro al cuore l’uno con l’altro, seguirci in ogni strada o piazza e fra le mura delle nostre case di Quartiere. I nostri sogni sono stati così uguali che per formare diverse le nostre storie abbiamo dovuto dividerci le occasioni, come da fanciulli si prendeva ciascuno una qualità diversa di gelato per assaggiarle tutte. Ma ora abbiamo i tacchi alti e le ginocchia coperte; e una finzione negli occhi se ci guardiamo. Ma basta che uno di noi volti un angolo di strada o salga una rampa di scale perché gli altri possano seguirlo in ogni gesto, come in uno specchio. Ce ne siamo dette le ragioni un giorno lontano, con pugni e abbracci, muco sotto il naso: non c’è nulla che possa sfuggirci nell’affetto che ci lega. Lasciate che la finzione ci squassi, o la vita, col cuore che si fa grosso e noi che lo comprimiamo. Un giorno saremo ancora tutti assieme, seppure coi corpi consumati da contatti estranei. Ma i nostri corpi sono abituati a dormire su un materasso di foglie, a soffrire di geloni, si sono nutriti di cavolo e lampredotto, come volete che ci faccia paura ritrovarci un po’ diversi in viso? Credete che non ci riconosceremo?

La parola, per Vasco Pratolini, è alla base di ogni forma d’arte, dalla letteratura al racconto cinematografico. Tra la fine degli anni ’40 e gli inizi degli anni ’50,  fu  sceneggiatore e soggettista cinematografico, collaborando a fianco di  registi come Visconti e Rossellini, proprio quando il suo linguaggio smetteva di essere puramente letterario. Linguaggio letterario che, per giunta, subisce diversi mutamenti, a predominare è, infatti, l’imperfetto, l’incertezza, in una sintassi in cui le azioni seguono un ordine stabilito; tant’è vero che in Cronache di poveri amanti utilizza addirittura il presente storico. I dialoghi sono diretti ed il ritmo fluido, solo le frasi presentano toni non perfettamente decifrabili e su cui lavorare, come se la penna, a volte, perdesse in verità. Nonostante questo, eredita dall’arte classica, quello stile che traduce un preciso modo di sentire e di pensare. Con Le ragazze di San Frediano, scritto nel 1948, ad esempio, si ha un richiamo della tradizione novellistica del trecento, è infatti palese l’ispirazione a Boccaccio.

Con Lo scialo, secondo capitolo della trilogia Una storia italiana che comprende Metello e Allegoria e derisione, Pratolini  offre un’immagine di sé che i critici hanno ritenuto essere inaspettata, nuova.

Si tratta di un romanzo di mille e trecentocinquanta pagine sicuramente distante dallo spirito con cui scrisse Mulino del Po una ventina d’anni prima. Protagonista è la borghesia del tempo, classe  ormai ai vertici della società. L’autore, qui, si allontana dalle formule e regole che facevano di un romanzo lo studiato esperimento per il lettore. Emerge, invece, una nuova concezione universale della letteratura, perché è parola che comprende l’intera esistenza e riguarda, quindi, tutti, non solo il destinatario ideale e, proprio per questo, la sua trilogia rappresenta un approdo.

Vasco Pratolini, nella sua scrittura, passa dal racconto di eventi di cronaca a momenti di alto lirismo: è una stagione storica difficile, dove tutto viene messo continuamente in discussione e si sgretola e la letteratura non puo’ che interpretare questi cambiamenti.

S’imparano mille cose in un istante, non occorre essere stati a scuola, quando la vita ti colpisce a tradimento con le sue cattiverie: basta avere una spina dorsale che ti mantenga in piedi (Vasco Pratolini).

Gruppo 63: tra avanguardia e sperimentalismo

Per comprendere meglio il senso della nascita del Gruppo 63, occorre ricordare cosa fosse la società letteraria italiana  verso la fine degli anni cinquanta. Come ha giustamente constatato Umberto Eco, tra i massimi esponenti del Gruppo 63,

“si trattava di una società che era vissuta in difesa e in muto sostegno, isolata dal contesto sociale, e per ovvie ragioni. C’era una dittatura, gli scrittori che non si allineavano col regime erano a mala pena tollerati. Si riunivanmo in caffè umbratili, parlavano tra loro e scrivevano per un pubblico da tiratura limitata. Vivevano male, e si aiutavano a vicenda per trovare una traduzione, una collaborazione editoriale mal pagata. Era stato ingiusto, forse, Arbasino, a domandarsi perchè non avessero mai fatto una gita a Chiasso, dove avrebbero potuto trovare tutta la letteratura europea. Magari attraverso spalloni, ma Pavese aveva pur letto Moby Dick, Montale Billy Budd, e Vittorini gli autori che aveva pubblicato in Americana. Ma, se da dentro riuscivano a ricevere tutto, o molto, essi non potevano andare fuori”.

Con gli anni sessanta del Novecento dunque il neorealismo è ormai consunto; e il Gruppo 63 è il nuovo movimento viene a sostituire il precedente. In una realtà totalmente negativa, in quello che sembra essere il caos assoluto, ancora brancolante nelle incertezze e nella disperazione del dopoguerra, la neoavanguardia vede la poesia come «mimesi critica della schizofrenia universale, rispecchiamento e contestazione di uno stato sociale e immaginativo disgregato».

Ancora una volta il concetto fondamentale è trovare un più adeguato rapporto nell’ideologia-linguaggio che darà poi luogo allo sperimentalismo senza limiti sia nella lirica che nella narrativa. Si parte nel in realtà nel 1956 con le prime e non poche esperienze istaurate dal «Verri» la rivista milanese fondata da Luciano Anceschi che aggrega i cosiddetti poeti «novissimi»: Elio Pagliarani, Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Antonio Porta e Alfredo Giuliani. La poesia dei novissimi è una poesia capace di agire, di una considerevole efficacia linguistica e confrontandosi con le più vivaci e svariate forme del linguaggio tradizionale non ne dava solo un meccanico rispecchiamento. La nuova poesia si propone come strumento per creare un rapporto attivo con le cose, riducendo la presenza dell’io e affidandosi ad uno schizomorfismo (dissociazione della visione e delle forme) come tappa fondamentale della nuova ricerca.

Stimolati e allo stesso tempo insoddisfatti dei nuovi passi che si stavano muovendo un gruppo di scrittori e critici, tra i quali Umberto Eco, Renato Barilli, Francesco Leonetti, Giancarlo Marmori, Lamberto Pignotti, Alberto Arbasino, Edoardo Sanguineti, Giorgio Manganelli, Luigi Malerba, in occasione di un convegno tenutosi a Palermo nel 1963, creano il «Gruppo 63» affermando il carattere provocatorio della nuova letteratura, la protesta contro il realismo e contro l’assetto della realtà, il carattere dell’opera moderna come «opera aperta», la disgregazione dei linguaggi e l’uso del plurilinguismo. Edoardo Sanguineti diventa l’organizzatore teorico della neoavanguardia, in   In libri come Erotopaegnia (1960), Triperuno (1964), Catamerone (1974), Sanguineti libera i suoi blocchi esemplari di scomposizioni che disgregati fluiscono e producono relazioni solo in modo psichico-onirico. Sanguineti infatti si esercita a scomporre e ricreare «finimondi liquido-sintattici» nella poesia come nel romanzo e nel teatro; è necessario disarticolare ogni struttura della lingua per esprimere una realtà più complessa sempre in relazione con l’onirico e il ludico.

Impegnati nella medesima ricerca e accomunati dalla stessa concezione del linguaggio gli altri componenti del «Gruppo 63» sono Balestrini che salta lasciando spazi bianchi parole e crea collages; Porta che fa l’inventario di contenuti assurdi e sadico-infernali senza speranza di liberazione; Giuliani che con lo schizofrenismo del reale rimanda tutto ad un altro luogo da cui tutto nasce. Lo stravolgimento dei modi di comunicazione è continuamente inseguito e rappresentato ogni bizzarria è significazione di una comunicazione che non può avvenire o che forse può avvenire solo non comunicando come al solito.

Il Gruppo 63 non ha polemizzato contro l’establishment; si è trattato in realtà di una rivolta dall’interno dell’establishment, un fenomeno  nuovo rispetto alle avanguardie storiche. Ha senza dubbio infastidito la cosiddetta cultura impegnata fondata sull’unione tra poetica del realismo socialista e marx-crocianesimo, ma non si deve confondere un movimento d’avanguardia con una letteratura sperimentale. Renato Poggioli nella sua Teoria dell’arte d’avanguardia ha fissato le caratteristiche di questi movimenti: attivismo, antagonismo, nichilismo, culto della giovinezza, ludicità, prevalenza della poetica sull’opera, autopropaganda, rivoluzionarismo e terrorismo in senso culturale, ed infine agonismo.
Lo sperimentalismo invece è amore per la singola opera, tendente ad una provocazione al suo interno. Nel Gruppo 63 sono convissute le due anime, ed è ovvio, come afferma ancora Eco, che l’anima avanguardistica abbia prevalso nel creare la sua immagine massmediatica.

Tra le scelte di chi voleva difendere la specificità dell’esperienza letteraria e il libero valore di conoscenza, di chi voleva invece politicizzare l’arte e la letteratura, di chi era preso dall’ossessione dell’attualizzazione e chi invece negava addirittura la letteratura non ci fu scampo e l’ultima occasione di lavoro del <<Gruppo63>> fu la rivista mensile <<Quindici>> durata appena due anni.

Il Gruppo 63 si è consegnato alla storia? è stata davvero un’esperienza utile? Cosa rimane di quel vortice di idee? Del Gruppo 63, rimangono soprattutto l’esempio della abilità a sollevare polemiche faziose e spesso gratuite, come quella scatenata contro Carlo Cassola e Giorgio Bassani,  e ad agguantare buona parte del potere culturale italiano, nonché un certo snobismo.

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