‘Uno, nessuno e centomila’: l’intuizione pirandelliana diviene misticismo cosmico

Il romanzo Uno, nessuno e centomila, come tutta l’opera di Pirandello, può essere guardato da due lati: quello del chiarimento filosofico in quanto non esige necessariamente la rappresentazione artistica, ma può sostenersi, ed essere considerato per se, e il lato artistico, che è tale in quanto il fondo dell’opera, si è concretizzato in caratteri e figure. La divergenza nasce da questo duplice punto di vista che si può facilmente assumere di fronte alla sua opera di pensatore e di poeta. Il lato più filosofico di Uno, nessuno e centomila si configura nella presunzione che la realtà debba essere e sia ugualmente per tutti gli altri. Tutti gli eroi pirandelliani hanno più o meno chiara, la coscienza di questa presunzione.

Trascinati dal fiume della vita, i personaggi pirandelliani sanno che possono conoscere solo ciò a cui riescono a dare forma, ma sanno anche che una forma, appena è, cessa di essere vera e diventa subito una maschera, una smorfia, una statua inerte, vuota. Se chi contempla questi personaggi crede di contemplare in essi la vita, si inganna. Ed ecco che un uomo può essere uno, nessuno e centomila e non solo per gli altri, che per conoscerci ci devono fissare in una forma, ma anche per noi stessi che pensavamo di essere “uno solo per tutti”; e ad un tratto ci accorgiamo che siamo centomila. Dov’è dunque la verità?

Uno, nessuno e centomila: trama, interpretazione e linguaggio

Vitangelo Moscarda, l’eroe del romanzo, si accorge che non è più quello che credeva di essere perché s’avvede ad un tratto che la moglie gli scorge un difetto che lui non sapeva di avere, ovvero un naso leggermente storto; pretesto futile, cercato appositamente e banalissimo. Chi infatti non potrebbe trovarsi in un caso simile? Ma tale difetto, che per un altro poteva appena essere un caso da novelletta grottesca, per Vitangelo Moscarda diventa una scoperta risolutiva. Egli scopre cioè che la moglie aveva di lui un’idea diversa da quella che credeva e cessa di essere “uno per tutti”. Ma la scoperta si allarga: passa dal fisico al morale, diventa un’idea fissa sulla quale Moscarda ricava non solo una nozione di indole morale, ma un sentimento sempre più profondo e disperato. E qui sorge la sua vitalità artistica. Egli infatti non sa solo che non è più “uno” ma vuole cogliersi di sorpresa in un momento d’azione spontanea. Allora si guarda allo specchio e vede per un attimo una figura che non è la sua. Che sarà dunque di se nello specchio degli altri?

Sarà una cristallizzazione diversa a seconda di quanti sono quelli che lo conoscono: per la moglie sarà Gegè, sfaccendato e un po’ sciocco, per gli altri sarà il “buon figlio feroce” del banchiere arricchito con l’usura, per tutti insomma non sarà nulla di ciò che egli crede di essere, come per se stesso non sa più chi sia. Questa è la situazione tragica del romanzo Uno, nessuno e centomila.

Ora questa consapevolezza, che in lui si fa sempre più vasta è naturale che lo spinga a rompere clamorosamente quella statua che gli altri si sono fatta di lui falsamente per poterlo riconoscere. Padrone della banca, irromperà dunque un giorno nel chiuso ambiente dove dominano due amici di suo padre, per compiere un atto che serva a cancellare di botto il ritratto che di lui circola nella città. Tutte le azione che compierà Vitangelo non sono che conseguenze di tale convinzione. La macchina è montata e si fermerà solo quando il Vitangelo potrà ritirare i suoi capitali dalla banca e darli in opere di beneficenza; azione fatta di proposito in quanto serve al protagonista del romanzo, insieme ad un incidente fortuito con un’amica della moglie, per rovesciare totalmente la situazione, accreditando i più diversi pareri. Quando comparirà in pubblico per l’ultima volta, egli sarà un Moscarda buffo, “con il berretto, gli zoccoli e il camiciotto turchino dell’ospizio”. Ed ecco che la seconda forma ha distrutto definitivamente la prima. Ora Vitangelo Moscarda è sgombro e nuovo.

Vitangelo Moscarda vuole vivere, non pensare, vuole ignorare le forme e gli esseri:

“Nessun nome, nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri, del nome di oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi e il concetto di ogni cosa posta fuori di noi, e senza il nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini, ciascuno incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quell’immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. […].

Vitangelo Moscarda dunque vuole sfuggire al problema e cerca di non vederlo: “Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire”. Tornare natura. Questa è la risposta che dà Pirandello in Uno, nessuno e centomila. La verità è nella natura, in una natura non intaccata dal pensiero. La posizione è quindi romantica, cosa significa infatti impedire che il pensiero si metta di nuovo a lavorare? Significa gettarsi nel mare delle cose, tuffarsi, senza più coscienza, nel tumulto fluente e vario della natura. Pirandello applica Rousseau con estrema conseguenza: non più fede nella ragione e nell’intelletto, pensare è male, perché vuol dire costruire, mentre l’anima è fuggita appena l’uomo ha voluto rinchiuderla in una forma. A Vitangelo Moscarda il Dio di pietra non dice nulla, il suo Dio è un altro, quello senza chiese, senza regole e liturgie. Ma siccome anche la natura è per l’uomo una costruzione pratica, l’eroe di Uno, nessuno e centomila non ha fede che in quel sotterraneo e fluido slancio vitale che è al di sotto di tutte le cose che hanno un nome e una fisionomia. L’intuizione pirandelliana sfocia in un misticismo cosmico e panteistico. La confessione di Moscarda si può dividere in due parti: nella prima egli è tutto preso nella scoperta della sua idea fissa e il linguaggio è di conseguenza astratto e raziocinante; nella seconda, dal momento in cui il protagonista scatena i fatti, il linguaggio diventa pienamente rappresentativo e spesso lirico.

La realtà, distrutta dal cervello, torna quasi stupita a ricolorirsi di vita, a ripalpitare. Calmatosi l’uragano logico, Moscarda torna a vedere, a intuire, a contemplare le cose e gli uomini. Vitangelo Moscarda ci suggerisce la visione tanto più spaventosa quanto più lucida dell’irrimediabile nostra solitudine che per l’eterno miracolo dell’arte, ci si ripopola di esseri e di forme, di apparenze e di vita. Dida e Quantorzo, Anna Rosa e Monsignore, il canonico Sclepis e il giudice ci dicono, con la loro presenza evocata dalla fantasia, che la realtà è più forte di tutti i deliri e i tormenti del cervello, e contraddicono in pieno il disperato proposito del protagonista di Uno, nessuno e centomila.

Nessun nome. Ma l’arte nomina, e Vitangelo Moscarda non può sottrarsi al destino dei viventi che, anche solo per un attimo, certamente, pur non desiderandolo, divengono persone, individui, statue.

 

Bibliografia: G. Titta Rosa, Vita letteraria del Novecento, V. III.

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