‘La montagna incantata’ di Mann: una lettura filosofica di Davide Morelli

Ha perfettamente ragione Milan Kundera, quando scrive nel suo saggio “L’arte del romanzo”, che il romanzo è soprattutto complessità.  La montagna incantata infatti è impegnativa per la molteplicità di temi filosofici, politici, morali, scientifici, religiosi trattati. Il lettore si trova di fronte a molti spunti di riflessione.

La montagna incantata: un crogiolo di pensieri dell’epoca di Mann

Thomas Mann ha adoperato tutta la sua cultura per descrivere tutte le correnti di pensiero dell’epoca. Mann nella lezione per gli studenti dell’Università di Princeton dichiarò che questo è un romanzo del tempo in due sensi: “Anzitutto sul piano storico, in quanto cerca di delineare l’interiore immagine di un’epoca, quella dell’anteguerra europeo; in secondo luogo, però, perché suo argomento è il tempo puro, e questo oggetto è trattato non solo come esperienza del protagonista, ma anche in e per se stesso”.

Riguardo al primo punto Zecchi nel saggio “L’artista armato contro i crimini della modernità” sottolinea che la posizione assunta da Settembrini, ovvero che il nichilismo potesse essere contrastato con le scienze esatte in sinergia con le scienze dello spirito, sia stata una idea diffusa agli inizi del Novecento.

Trama e letture filosofiche

Poi giunse Husserl a spiegare che il progresso scientifico aveva allontanato l’uomo dal “mondo della vita”, facendogli perdere la visione globale del mondo e facendogli dimenticare l’interiorità. Per quel che riguarda l’argomento del tempo puro, ricordo che il protagonista mediterà più volte su di esso, chiedendosi quale sia l’organo specifico del cervello che che ci fa intuire lo scorrere degli istanti. Comunque iniziamo con la trama del romanzo che è semplice.

Nella Montagna incantata i protagonisti sono statici. Il romanzo fu ispirato da un fatto realmente accaduto a Mann. Egli stesso visse per tre settimane in un sanatorio, dove sua moglie fu curata per sei mesi. Anche Castorp, il protagonista, deve trascorrerci inizialmente solo tre settimane per far visita a suo cugino che soffre di tisi. Ma il giovane ingegnere Castorp per delle complicazioni alle vie polmonari finirà per trascorrere ben sette anni nel sanatorio svizzero.

In quel periodo si innamorerà di una ragazza russa a cui si dichiarerà e che gli concederà un bacio sulle labbra. Qui avrà modo anche di conoscere il letterato Settembrini e il gesuita Naphta. Settembrini è carducciano, massone, volterriano. Naphta è un nichilista, un conservatore.

Il primo è un razionalista. Il secondo invece è un irrazionalista. Castorp ascolta sempre le loro discussioni colte ed oscilla continuamente tra i due poli di questi suoi precettori. Oscilla tra l’evasione dell’arte e lo spirito religioso, tra l’impegno pratico e il riconoscimento della decadenza dei valori, tra rivoluzione e conservazione.

Le due posizioni presenti nel romanzo

Comprendere queste due posizioni non è facile perché contengono delle contraddizioni interne e delle antinomie. Le argomentazioni nella Montagna incantata sono complesse e rappresentano tutte le scuole di pensiero dell’epoca. Ma questi due personaggi sono complessi anche perché sono incoerenti. Settembrini dichiara che a volte bisogna utilizzare la violenza, eppure quando si trova a duellare con Naphta non mira all’avversario ma spara in aria.

Quest’ultimo decanta il misticismo cristiano e ciò nonostante soccombe alle proprie tare esistenziali e si suicida. Altro aspetto rilevante del libro è che tutti i personaggi sono borghesi e Mann riesce a fare una analisi spietata della borghesia della sua epoca.

Come ebbe modo di scrivere Lukacs nella prefazione alle novelle, lo scrittore fu testimone e giudice della decadenza borghese. Nel saggio “Mann e la tragedia dell’arte moderna” Lukacs scrive che lo scrittore tedesco è uno dei grandi esponenti del realismo critico e che riesce a svelare tutte le problematiche della società borghese, rappresentando l’apice del pensiero progressista di questa.

Rapporto tra conoscenza e malattia

Altro aspetto importante della Montagna incantata è il rapporto stretto tra voglia di conoscere e malattia. Se da un lato la malattia è disumana perché umilia l’uomo, dall’altro lato è occasione per Castorp per approfondire determinati argomenti che nella civiltà frenetica della pianura non avrebbe mai minimante trattato. La sofferenza quindi aiuta ad aumentare la consapevolezza.

La malattia è fonte di umanità, di conoscenza e di saggezza. Inoltre con il cristianesimo comunista di Naphta, Mann è riuscito ad intuire una delle possibilità della politica del novecento. L’unione del cristianesimo con il marxismo in Italia fu pensata da molti, anche dallo stesso Pasolini.

In America Latina fu anche applicata da preti rivoluzionari come Ernesto Cardenal, ministro della cultura del governo sandinista. Mann non era marxista, ma grazie al suo acume aveva intuito cosa sarebbe potuto accadere. Ad onor del vero va detto comunque che più che l’unione tra cristianesimo e marxismo si verificò almeno in Italia quella tra cattolicesimo e comunismo.

Da notare infine che anche il romanzo “Diceria dell’untore” di Bufalino tratta di un sanatorio per malati di tisi, anche se è ambientato nel dopoguerra, il protagonista è un reduce, non ci sono conversazioni così impegnate e in primo piano c’è una storia di amore che finirà con la morte della donna.

La montagna incantata è dunque completamente diverso dal libro di Bufalino. È innanzitutto un complesso romanzo di formazione, che riesce ad essere sia pedagogico che ironico. Bisogna ricordare anche che a Mann ci vollero dodici anni per completare questo capolavoro: niente a che vedere con certi scrittori di oggi, che pubblicano un libro commerciale all’anno.

La sconfitta del pensiero: quando l’uomo rinuncia a comprendere il mondo e crede di poterlo plasmare a propria immagine

L’uomo ha rinunciato alla comprensione del mondo, crede di poterlo plasmare a propria immagine con potere demiurgico, di doverlo trasformare in direzione dell’utile immediato, di qualcosa di produttivo, tutt’al più di informativo, mai di formativo: bombardarci di informazioni, pressanti, continue, veloci, per non informarci di (e su) niente, nel quadro finale disegnato dall’homo videns. Dall’homo digitans. Varianti dell’homo communicans. Varianti di un pensiero atrofizzato ormai incapace di leggere e studiare, assopito, adagiato sulla comodità del blog, del link, dell’immagine, del social, del tweet: pochi caratteri per dire, commentare, partecipare a un dibattito. Pochi caratteri per dire ciò che avrebbe bisogno di approfondimento, competenza, letture. Ecco allora un mondo nel quale il mito della velocità ci dà l’impressione della conoscenza in tempo reale, quando, diversamente, assorbiamo il mero fluire limaccioso di immagini che non riusciamo a interrogare, comprendere. Non ne siamo capaci per difetto di passione, curiosità, per ignoranza della grammatica e della sintassi di quello stesso mondo che pretenderemmo di trasformare: meglio le sue immagini riflesse, più comodo per la pigrizia mentale che ci attanaglia tutti. Così i fantasmi di una realtà a noi ignota nel suo dipanarsi, assurgono a totem di quella realtà medesima che vorrebbero comunicarci come vera, giusta, autentica, solidale, laddove sono allineati – feticci dell’Assoluto più dispotico e prepotente mai visto in millenni di storia – i valori liturgici che sorreggono la nuova Teologia della socialità obbligata.

Philippe Muray ha definito in maniera esemplare tale concezione come Impero del Bene, laddove non vi è più spazio e diritto di cittadinanza per l’enigma, il totalmente altro, il differente punto di vista, l’opposizione, la seduzione del negativo (povero Nietzsche), destrezza, ebbrezza del brivido, vertigine dell’ignoto, per cedere il passo all’imperativo paranoico di una democrazia fondata su simulacri e finzioni. Allineamenti appiccicosi, nello stesso tempo persecutori di ogni individualità, di ogni pensiero autonomo. Quindi un sistema di cose nuovo e cremoso ha sconfitto su tutti i fronti il Male, grazie alla Banca Mondiale dei diritti dell’uomo che attraverso il linciaggio (dell’altro, del differente, del non omologato, del dissonante), ha creato la nuova socialità 2.0 (o 3.0, 4.0…). Un più moderno Illuminismo – avamposto della nuova bontà – che ci conduce contro sessismo, razzismo, discriminazioni di ogni tipo, maltrattamenti di animali, traffico d’avorio e di pellicce, responsabili delle piogge acide, xenofobia, inquinamento, devastazione del paesaggio, tabagismo, pericoli del colesterolo, aids, cancro eccetera eccetera.
Così dobbiamo quasi vergognarci di essere carnivori, di amare il circo con gli animali (nel ricordo dei nostri anni giovanili), di essere eterosessuali, bianchi; di avere un lavoro, un’istruzione, di credere al conflitto e alla lotta intesi come terreno della dialettica civile, di volere una famiglia nel rispetto della tradizione dei padri, come essi avevano e ci insegnavano; di aver avuto una madre e un padre (e non genitore 1 e genitore 2), di pensare che la competizione onesta e leale sia un valore nella vita, di reputare l’odierno sistema scolastico come una fabbrica di potenziali ignoranti (tutti promossi, tutti somari), di credere a ragione veduta che un professore vecchio stampo valga più di un’intera fabbrica di computer e di tutte le connessioni in fibra del mondo. Dobbiamo vergognarci, siamo colpevoli di aver accettato l’antica socialità, quando in ogni cosa si celava ancora il Male nelle sue infinite sfaccettature. Siamo liberi e benefici oggi: viva la libertà, viva l’amore (che vince sempre, eh!), viva l’Open day nelle scuole-aziende! viva il Nulla socializzato!

La nuova Teologia della socialità obbligata e la tirannia della verità comunicata (esse coincidono più di quanto immaginiate) ci danno la possibilità di reperire velocemente informazioni disparate con l’uso integrato di media, immagini e testi contenenti l’idolatria di questa realtà manipolata alla radice; ci inducono a pensare che viviamo il passaggio da una sottomessa cultura passiva a una emancipata cultura partecipativa; ad una più complessa e, aggiungo io, sofisticabile, intelligenza collettiva cui guardare da nuovi illuminati. Ma questa mistificazione (concettuale e pratica) ha il fine di organizzare la mente e la conoscenza in una sola direzione: quella impressa dai custodi, dai guardiani, dai legionari dell’inganno libertario. Dai cantori del nichilismo che ci vendono a poco prezzo. Anzi, ci regalano come il più utile e gradito dono, la conquista più grande. La hybris più completa e degenerativa della cultura occidentale ormai ha assimilato in sé, come valori assoluti, la schizofrenia identitaria, il nichilismo totalizzante, la svalutazione della memoria dei popoli (dove ogni cosa viene fatta confluire in un calderone di qualunquismo sociologico e antropologico), il terzomondismo ideologico. E badate, vi scongiuro, non fatemi apparire come un becero intollerante.
Il mondo non è più il mio mondo, come me lo hanno consegnato gli avi, bensì una controfigura in senso globalistico che vorrebbero farmi assumere – inondandomi di immagini e prescrizioni sempre più veloci e inintelligibili – come l’unico mondo possibile in una società civile, caritatevole, morale, armoniosa, umana (“Restiamo umani” è uno degli slogan), della fratellanza universale sotto la spinta del Papa ‘rivoluzionario’ e gli esempi dei governi ‘liberi’ a Sud del mondo, al passo coi nostri tempi. Al passo col Bene, col Sorriso, con l’Empatia universale, con la libertà di essere liberi sotto il vessillo della velocità, della fibra ottica, del tempo reale e, più giga, tera hai, più mondo avrai; più sarai ipocrita e solidale, più sarai alle porte del Regno dell’Infinita Umanità. Maleodorante carosello di luoghi comuni e banalità un tot al chilo. Nessun Sud del mondo, quindi, siamo tutti Nord. Siamo tutti liberi, umani, carnefici del Male (che fortunatamente è solo un ricordo).

Il nostro, purtroppo, è un mondo perversamente cibernetico, che ricade appieno negli ambiti di quella scienza del controllo e della comunicazione, secondo la definizione di cibernetica proposta da Norbert Wiener, ritenuto il “padre fondatore” di tale scienza, oggi, più patologia oncologica, che conoscenza ontologica, sapere, disciplina, scienza, nella loro accezione originaria. La Bellezza poi, non è altro che la musealizzazione della stessa. E ciò vale anche per la Bellezza della natura. Nessuno che si sforzi di capire i primordiali dettati etici, oltre che estetici della Bellezza, della Natura. Ormai semplici cose da esibire, delle quali e in nome delle quali ci si sente autorizzati a disquisire cazzata su cazzata, senza penetrarne l’intima essenza (Ah Novalis! Dove sei?). E quale filosofia potrebbe mai consolare questa filosofia dell’omologazione?
Anzi, quale filosofia dovrebbe consolare l’uomo di questo secolo, già fiduciario e segnacolo – per usare un modo di esprimersi indù – del kali-yuga, l’età oscura che copre il mondo col velo della nera dea Kali?

«Quei greci, tutti omosessuali…
A: Socrate è un uomo
B: Ogni uomo è mortale
C: Ogni uomo è Socrate
Quindi ogni uomo è omosessuale»
Woody Allen – Sillogismo di “Amore e Guerra”
«FILOSOFO: [Altro sillogismo] I gatti sono mortali.
Ma anche Socrate è mortale. Dunque, Socrate è un gatto.
VECCHIO SIGNORE: Socrate dunque era un gatto.
FILOSOFO: La Logica ce l’ha appena dimostrato.
VECCHIO SIGNORE: Però, è bella la Logica.
FILOSOFO: Sì, ma a condizione di non abusarne»
Eugène Ionesco – Sillogismo e dialogo de “Il Rinoceronte”
«A: Tutti i tedeschi sono uomini
B: Angela Merkel non è un uomo
C: Quindi Angela Merkel non è tedesca»
Esempio di Sillogismo Barocco

Perché questi sillogismi? Non è per sfoggiare qualcosa, non ho nulla di cui fare sfoggio, tranne la mia malinconia sofferente. Tra l’altro questi sono sillogismi “birichini” che trasgrediscono la regola del sistema architettonico altamente organizzato da Aristotele col suo procedimento logico, quantunque esprimibili nella loro veste formale, sia pur con risultati paradossali, esilaranti. Ricorderete che per il filosofo greco il sillogismo – inferenza fra due premesse e una conclusione – era il modello perfetto di ragionamento deduttivo, il fondamento tecnico di ogni scienza dimostrativa (così, detta alla spicciola, è evidente, no?). Quindi, chiedo ancora, più a me stesso che a voi: perché questi sillogismi? Per dire, con l’ironia di quegli esempi stravaganti, che il pensiero dei nostri tempi, un pensiero massacrato dal più inverecondo utilitarismo di dozzina, mercificato, fondato su “assoluti mercantilistici e finanziari”, è un pensiero che ha perduto capacità di interrogazione, di penetrazione, di stupore, di interpretazione e spiegazione del mondo, anche attraverso il paradosso e l’assurdo dell’argomentazione. Una concezione culturale che ha messo in un cantuccio Omero e Dante, per la quale contano i salotti televisivi, le “belle voci”, i “bei colori”, le “belle opinioni”, dove il saper fare si è capovolto nella coazione a dover fare. Un dover fare alieno di qualsivoglia idea in sé, maturata, compresa. Un pensiero assillante, maniacale, illogico, quantunque segua una sua logica mostruosamente opportunista, che ha declassato il nostro cervello a un ammasso meccanico formato da ingranaggi, mentre i nostri neuroni si comportano come supporti informatici di un calcolatore elettronico. Processori cerebrali che elaborano le informazioni registrate dal programmatore in quel software. Certo, lo so, l’ottimista di turno obietterà che il pensiero non ha mai smesso di pensare, che anche oggi numerosi filosofi, romanzieri e fisici sopraffini si interrogano su scienza e conoscenza. Ma è la prospettiva a essere cambiata.

L’uomo si è modificato purtroppo in un semplice consumatore di prodotti creati dal delirio di onnipotenza del mercato, dei mercati economici, azionari, commerciali, culturali, religiosi, eccetera. Una società succube del progressivo, imperante, colonialismo finanziario, di un industrialismo che pesa sulle nostre teste più di una sentenza dell’Inquisizione. Un uomo lasciato solo con i simulacri tribali di questa modernità votata alla perversione di una pruderia mielosa, appiccicosa come la colla per catturare i topi; fatta di immagini che ci rendono abulici e incapaci di guardare oltre quelle fotografie manipolate sapientemente alla base. Un uomo disumanizzato nel nome di un’idea sociale posticcia, educato alla scuola del conformismo, schiacciato dal bisogno di approvazione e di successo, abitante di un mondo governato dalle apparenze, spogliato della propria individualità, solo e disarmato nella moltitudine che gli si affolla intorno. Quel soggetto definito pensante (forse mendicante del pensiero), oggi logorato, sfibrato dallo spettacolo, dalla comunicazione spettacolare degli eventi, dall’ipnosi volontaria, privato della sua capacità di logica e di pensiero, intrappolato all’interno di miti universali, che non sono in nessun modo manifestazioni del sacro, dis-velamenti ontologici, parole che raccontano il mondo nella sua “temporalità segreta”, che si riappropriano del mondo medesimo e della temporalità non lineare. Solo immagini proiettate sul muro della nostra mente ormai inaridita, come i prigionieri della caverna platonica. E quando filosofi, romanzieri e fisici sopraffini credono di mostrarci il mondo, non si rendono conto che il mondo imposto alla nostra fruizione, è un mondo di forme che utilizziamo passivamente, complici più o meno consapevoli di quel delirio di onnipotenza del mercato delle immagini e dell’idolatria consumistica.

Nessun sapere, privo di sapienza, potrà mai, più, paragonarsi alla bellezza di un sillogismo aristotelico o all’intreccio di virtù e conoscenza di un dialogo platonico, per non tacere della profondità di un aforisma di Nietzsche e della magnificenza di un verso dantesco. E non vado oltre, registrando però, a mio malincuore, che gli stessi rapporti fra gli uomini sono regrediti a relazioni formali fra gli stessi, con l’aggravante di essere (noi tutti) “brutalizzati” da aggressive ideologie umanitarie, astratte (anch’esse formali), alle quali non puoi opporti in adesione al “politicamente corretto”, che in quanto astratte, formali, sono una forma di totalitarismo al servizio del mercato, dei mercati, delle ideologie dell’oblio. Dei mercanti della cultura e della politica. Dei telepredicatori. Dei moralisti. Dei servi acquiescenti. Dei monopoli religiosi. Delle chiese laiche. Di quella “cultura del piagnisteo” (concetto espresso da Robert Hughes in un libro dall’omonimo titolo), “cadavere del liberalismo degli anni Sessanta” e “frutto dell’ossessione per i diritti civili e dell’esaltazione vittimistica delle minoranze”. Di una barbarie che ci appartiene e ci domina. Lo stesso Hughes non esitava a scrivere:
I barbari tuttofare che oggi vanno per la maggiore si chiamano multiculturalisti.
A tutto ciò che rinnego hanno dato l’odiosissimo nome di politically correct, forma di lebbra sociale che ci devasta con le sue pustole. Quanto di più ipocrita e oppressivo possa aver inventato l’etica così poco libertaria dell’attuale società fondata sui mercati finanziari e il profitto, sul potere delle tecnocrazie bancarie e burocratiche, laddove non esistono più identità culturali e tradizioni. Laddove globalismo e globalizzazione (concetti aberranti, massificanti, liberticidi, che ci imprigionano in una cella invisibile) vengono spacciati per valori universali, universalismo. Col ‘piagnisteo’ a corredo.

Già, la triste “comunità umana” dei viaggi low cost e delle offerte last minute, del business plan e della Whatsapp generation. Un’impalpabile “comunità umana” senza volto, che ritiene valori universali ciò che invece reputo dis-valori, tenuta insieme dal mito della comunicazione globale (un’ottusità di fini e della comprensione delle cose); che ha bisogno di un continuo “trattato di pace” per poter vivere le illusioni quotidiane che ci insinuano nell’animo, lentamente, i Signori della guerra: «Ecco, vi ho dato il potere della conoscenza in tempo reale», ci dicono le sentinelle del nulla globalizzato, i custodi dell’intelligenza collettiva divenuta valore supremo. E mentre fanno questi proclami e ufficialmente studiano la politica per la pace (dopo averci donato il “fuoco” della comunicazione, della velocità e, a sostegno di tali “doni”, gli anglicismi più vuoti e inutili), nella penombra dei loro antri sulfurei decidono quale guerra combattere dopo averla “santificata” (tuttavia la più conveniente). Stabiliscono cosa farci immagazzinare in termini di valori e informazioni e quale trattato di pace stipulare per farci coltivare la certezza che viviamo al sicuro, nel migliore dei mondi possibili, nella democrazia più vera, moderna. Quella stessa democrazia che come Occidente decaduto, tramontato rispetto alle radici che lo avevano fondato, dobbiamo poco democraticamente esportare ad ogni costo in tutto il mondo.

Nei fatti, una colonizzazione di popoli, tradizioni, culture antropologiche e religiose nel nome di un’idea astratta, come è astratta la democrazia imposta con le armi, anch’esse santificate dai promotori di autenticità democratica, che sono poi gli stessi fabbricanti di armi e di morte: anche se si sta parlando di “morte democratica” e nel nome del valore supremo. Siamo tutti propaggini di questo guardare avanti senza scopi e identità, tutti così simili, fragili, ipnotizzati dentro le illusioni di un social network. In modo che il nostro tweet, da noi creduto un importante cinguettio, una “parola detta” in pochi caratteri, è appena, tirandola per le orecchie, una parola afona, fiacca, soffocata dalla sua stessa parvenza di espressione. Una parola tradita in partenza dal suo volersi legittimare come parola, non perché breve, ma perché non racconta, non “dice”; perché rispecchia l’omogeneizzazione culturale verso il basso, la prigionia dell’uomo dentro un pensiero acefalo. Però moderno, santificato.

Non ci stiamo ad essere folla, anonimo fra gli anonimi, soggetto incapaci di esprimere un pensiero proprio, ostaggio di best seller e premi Nobel assegnati per meriti spesso inesistenti. Rileggiamo Gioberti, uno che non piacerebbe a molti, uno che non sposerebbe nessuno dei pensieri cardine di questa società fondata su assoluti ingannevoli, ipocriti, multiculturali. Pugnalate pure a tradimento, conficcate le vostre lame dentro le nostre carni, tanto siamo degli sconfitti. La gente ama assistere alla sconfitta altrui, ama vedere l’altro in ginocchio. Lo chiama amore per il prossimo. Ovvero, il prossimo che sarà messo in ginocchio.

 

Fonte: https://www.lintellettualedissidente.it/societa/conformismo-politically-correct/

‘San Tommaso d’Aquino’ di Chesterton: chiarimenti di alcuni equivoci sul tomismo che hanno compromesso la reputazione del cristianesimo in Europa

Ma se la crisi dell’Occidente, l’epoca del nichilismo e l’era della tecnica non fossero il capolinea definitivo, l’alba dell’apocalisse? Se dietro a quest’epoca di spaesamento e obsolescenza di tutti i valori si preparassero una rinascita, una redenzione e una riscossa? E se questa rinascita non passasse da simboli ed ideologie nuove, ma dalla Fede cristiana, dalla promessa di redenzione della Croce e di salvezza della resurrezione? Non stiamo fantasticando, ma solo cercando di riportare, in modo forse un po’ troppo ottimistico, ma comunque lucido, una sensazione che riscontriamo, un sentore diffuso che ci sembra di cogliere, una percezione di reale e concreta inversione di tendenza. Si notano molti ragazzi che, stanchi dello sballo da discoteche, ritornano in oratorio a costruire progetti e a rinsaldare comunità vive; altri che ritornano a sposarsi in Chiesa, guardando con diffidenza o con insoddisfazione la semplice convivenza; perfino in merito alle vocazioni – pur in un tempo di calo verticale delle ordinazioni – ci sembra di vedere in giro più preti giovani, freschi di sacerdozio e con un entusiasmo diverso nella predicazione e nell’aggregazione di ragazzi.

Ora, non vogliamo sembrare ingenui: la situazione ad oggi è ancora profondamente buia, notiamo ancora la mentalità diffusa che indica la Fede come qualcosa di sorpassato, che ripiega verso il relativismo mondano o verso la spiritualità orientale, quando non proprio verso l’Islam. Ma quello che notiamo non è un fenomeno attuale, ma potenziale; non è ancora una rinascita, ma i primi vagiti di una rinascita. Abbiamo come la sensazione che, mentre il Papa fa discutere con le sue uscite pubbliche controverse e con le sue biografie un po’ equivoche, i giovani stiano abbracciando un cristianesimo più forte, non mediatico e flessibile, ma risoluto e combattivo, a dispetto del mondo.
Paradossalmente, non è la popolarità mediatica del Papa regnante ad averli spinti al cristianesimo, ma è la profonda ripugnanza per il cristianesimo della società attuale, fatua e superficiale, ad averli ricondotti al cristianesimo come risposta esistenziale profonda e radicale, proibita e scandalosa. Non vogliamo dire che sia sorto un movimento contro Papa Francesco, ma che questo sia completamente indipendente dal Papa; serpeggi in tutta Europa silenzioso ma pregnante, solido ma sommesso. In un certo senso, preferiamo pensare che sia parallelo al Papa, nel senso che va nella stessa direzione, ma ad altezze e gradi differenti. Si pensa a queste cose leggendo la biografia di San Tommaso d’Aquino di Chesterton, nella versione ristampata dalla Lindau, con la prefazione di Monsignor Luigi Negri. Chesterton scrisse quest’opera nel 1933, quando la crisi del ’29 ancora dava i suoi tremendi colpi al mondo anglosassone ed americano e nell’anno in cui Hitler vinceva le elezioni in Germania. Qualche anno prima si era cimentato nella agiografia di San Francesco, che era stata l’opera prima dopo la sua conversione al cattolicesimo. L’opera su San Tommaso è breve ma densissima, complicata ma a tratti di vera genialità, tant’è che riscosse la stupefatta ammirazione di tomisti di lungo corso e di chiara autorevolezza, come Jacques Maritain e Anton C. Pegis.

Perché quest’opera è così importante? Come si riallaccia al discorso sulla riscossa europea grazie alla rinascita della Fede cristiana? In che modo quest’opera ha a che fare con la convinzione che la Fede cristiana possa tornare ad essere cardine e fondamento della civiltà europea, e non soltanto un orpello vuoto al servizio dei politicanti, come lo è stato quasi sempre nell’ultimo secolo? Perché Chesterton parlando di Tommaso parla del tomismo, e chiarendo alcuni equivoci sul tomismo chiarisce alcuni equivoci che hanno compromesso moltissimo la reputazione del cristianesimo in Europa, che si sono annidati come pregiudizi e si sono insidiati nella mentalità condivisa. Quello di Chesterton è più di una biografia di Tommaso: è un libro fondamentale (definitivo, dice Luigi Negri nella prefazione) sul cattolicesimo, su cosa sia e cosa debba rappresentare, lontano dalle mistificazioni e dagli equivoci che l’hanno screditato negli ultimi secoli. In realtà l’opera di Chesterton parte dalla vita di Tommaso, così densa di pensieri ma relativamente povera di fatti, per approdare ad una disamina, breve e folgorante, della dottrina tomista. Il racconto della sua vita sfocia nell’incontro con la sua opera, perché l’uomo fu tutto devoto all’opera, alla sua missione per conto di Dio: rendere giustizia al tomismo è il modo migliore di omaggiare la vita di San Tommaso.

E allora, attraverso l’analisi dell’opera di Tommaso, Chesterton ci mostra davvero cosa sia il cattolicesimo. Il più grande equivoco sul cristianesimo oggi, e quello che non a caso è con maggiore forza chiarito da Chesterton nel libro, ma anche da San Tommaso nella sua opera, è quello secondo il quale il cattolicesimo sarebbe una religione fondata sull’astensione dalla vita, sull’ascesi, sul disprezzo della carne e della corporeità. In realtà, tutti questi erano caratteristiche dell’eresia manichea, quella che, non a caso, Tommaso combatté con maggior vigore.
Chesterton sostiene che la Chiesa dei primi secoli avesse effettivamente ceduto ad una visione troppo spiritualistica, diffidente rispetto ai sensi e alla carnalità, troppo debitrice nei confronti di Platone e della sua concezione del corpo come gabbia da cui emanciparsi. Lo stesso Agostino viene guardato da Chesterton con un misto di ammirazione e di apprensione, perché la sua ascesi verso Dio, solitaria e verticale, fondata sulla grazia e sulla predestinazione, a suo giudizio per i discepoli troppo fanatici diventò una suggestione verso il manicheismo (di cui Agostino era stato adepto) e più tardi sarà il viatico che condurrà molti al luteranesimo. Ad Agostino, che recuperò Platone, fa da bilancia con forza Tommaso, che recuperò Aristotele.

Se Agostino aveva tentato un percorso diretto verso il cielo, per Chesterton, Tommaso è l’uomo che riconcilia il cattolicesimo con la terra, che è viatico del cielo; con il corpo, che è unito all’anima. E la legittimazione più chiara con cui Tommaso riabilita Aristotele, il corpo ed i sensi non è, come non si stanca di ripetere Chesterton, anticristiana, paganeggiante o orientale, ma all’opposto è il fondamento, il centro stesso della Fede cristiana: ovvero l’incarnazione. A ben vedere, non esiste nessuna religione come il cristianesimo che stimi il corpo, lo apprezzi e lo valuti, perché non esiste nessun’altra religione fondata sulla convinzione che Dio, da trascendente e celeste che era, si sia fatto carne e sangue. Come si può affermare che il cristianesimo disprezzi la carne, se è una religione fondata sull’incarnazione? Come si può affermare seriamente che il cristianesimo disprezzi il corpo, quando è il Corpo di Cristo che ogni domenica i cristiani ricevono?

Chesterton qui chiarisce ciò che, ad esempio, Nietzsche non riuscì mai a capire: ovvero che Cristo non è il Dio dell’astensione dalla vita, della rinuncia e della repressione; ma all’opposto è il Dio del corpo e del sangue, dal pane e del vino. La rinuncia alla volontà, la ricerca del Nulla, l’ascetismo che combatte la vita ed i suoi impulsi, non fanno parte dell’eredità e della testimonianza di Gesù, dice Chesterton, ma di quello di Buddha. È il buddismo la religione dell’astensione dalla vita, della soppressione degli istinti vitali, della fuga della vita per fuggire dal dolore; quando al contrario il cristianesimo prescrive di portare il proprio dolore, accettare di essere presi di mira per aver aderito al messaggio di Gesù, per arrivare ad una vita più piena, più forte e redenta. A ben vedere Nietzsche, com’è stato molto osservato da alcuni esegeti cattolici acuti, criticando il cristianesimo critica in realtà il buddismo (diceva che il pericolo che vedeva per l’Europa era quello di un’Europa buddista…), mentre i suoi ammonimenti a vivere una vita fedele alla terra, ai sensi ed alla realtà sono quanto di più simile ci possa essere alla predicazione di Gesù: a ben vedere Cristo assomiglia molto più a Dioniso che non a Buddha. Questo è davvero il principale equivoco che pende sul cristianesimo, che però è bastato a screditarlo agli occhi di intere generazioni, a farlo apparire qualcosa di mortifero e putrido, di violento ed innaturale. Chesterton ride ad esempio quando dice che gli è capitato di leggere in un serio commento di un critico che la Chiesa cattolica vedrebbe il sesso come un peccato. Poi però commenta pungente:

Lascio risolvere al critico la questione riguardo a come mai il matrimonio sia un sacramento se il sesso è peccato, e come mai siano i cattolici ad essere a favore delle nascite ed i loro avversari ad essere in favore del controllo demografico.

La Chiesa non mortifica gli istinti naturali dell’uomo, e se si fa carico di irreggimentarli, limitarli, circoscriverli, non è per una mortificazione gratuita, per disprezzo della vita o volontà di affrancarsene, come in certe tradizioni orientali; ma perché, come spiega Chesterton citando Tommaso, accanto al piano della creazione, lo spirito cattolico si muove anche su quello della caduta. In questo senso, l’ascetismo cattolico (o, più in generale, certi precetti di castità e di astensione temporanea dal piacere dei sensi) rappresentano una più o meno saggia precauzione contro il pericolo della caduta, ma mai un dubbio riguardo alla creazione. È per questo che, pur non somigliando a Buddha, Cristo non può essere neppure identificato con Dioniso. È troppo facile, come si fa oggi, abbandonarsi in tutto e per tutto alla sensualità, fingendo di non vedere che la morbosità, il libertinismo esasperato e l’iper-sessualità conducono dovunque ad istinti masochistici, violenti o autodistruttivi. È troppo facile rimpiangere un fantomatico naturalismo pagano precedente al cristianesimo senza vedere il lato oscuro e tremendo di quelli che dovevano essere i riti orgiastici, quel godimento così vicino alla voluttà mortale. E però questa prescrizione di un ordine ai sensi non scade mai in una mortificazione fine a se stessa della vita, e la grande eredità di Tommaso è proprio questa: aver riabilitato Aristotele, aver chiarito che nel cristianesimo non c’è contrapposizione, come nel platonismo, tra corpo e anima, tra terra e cielo; perché il corpo è la casa dell’anima, non la sua gabbia, e la terra è la strada per il cielo, non la sua copia sbiadita. Ed è così appunto perché è Dio che si è fatto corpo, è Dio ad aver vissuto in terra.

Il corpo non era più lo stesso di quando Platone, Porfirio e gli antichi mistici l’avevano dato per morto. Era stato appeso ad un patibolo. Era risorto da una tomba. L’anima non poteva più disprezzare i sensi che erano stati gli organi di qualcuno che non era soltanto un uomo. Platone poteva disprezzare la carne, ma Dio non l’aveva disprezzata.
San Tommaso restituisce Cristo alla sua più compiuta eredità, depurandolo dall’ascetismo eccessivo, mortifero di certi agostiniani eccessivi, che sarebbero poi confluiti nei manichei e, secondo Chesterton, nei luterani. Ma più ancora: secondo Chesterton San Tommaso è il primo a chiarire, in modo inequivocabile, l’unicità e la specificità del cristianesimo, ovvero la congiunzione perfetta di vita terrena e vita ultraterrena, di Dio e prossimo, di anima e corpo, di intelletto e realtà. È per questo che, secondo Chesterton, una rinascita dell’Europa sotto il segno del crocefisso è possibile solo attraverso una nuova presa di coscienza, che passa dalla comprensione di Tommaso, di che cosa sia il cristianesimo: non una scelta tra le tante, in un pluralismo che porta le religioni ad un piano di uguale insignificanza, ma la sola scelta sempre, coerentemente, contro il nichilismo, a favore della vita.

Altrove ci sono solo monoteismi severi e distanti, troppo facili da trasformare in ideologia; o panteismi irenici, che ci promettono di naufragare in un tutto organico, che ci fanno perseguire il piacere e schivare il dolore, ma non sopiscono le nostre angosce e non ci indicano vie per salvarci:

Più si capisce la grandezza delle reazioni improvvise e delle rinunce di Buddha, più ci si rende conto che intellettualmente egli era agli antipodi del concetto di redenzione universale del Cristo. Uno vorrebbe annientarsi, l’altro vorrebbe tornare alla sua creazione: al suo Creatore. (…). In un certo senso sono complementari e si equivalgono, come un dosso e una cunetta, come una valle ed una collina. (…). C’è ben poco al mondo che si possa confrontare a queste due alternative in quanto a completezza. E chi non si sentirà di scalare la montagna di Cristo, precipiterà fatalmente nel baratro di Buddha.

Ecco, saremo troppo ottimisti, o forse ingenuamente proiettiamo le buone impressioni che abbiamo ricevuto su scala più ampia, ma abbiamo la sensazione che nelle nuove generazioni si stia affermando un’idea di cristianesimo più vicina al suo significato originario, cioè di vita, salute, gioventù, fecondità; e questo quanto più si vedono coloro che imboccano altre strade, perdersi su vie sterili e sentieri perdenti.

 

 

‘La metà del diavolo’, il noir nichilista di Incardona

La metà del diavolo (NN editore 2016, titolo originale Derrière les panneaux, il y a des hommes) è l’ultimo libro di Joseph Incardona, il primo tradotto in italiano. È un noir teso e disperato che, fra le altre cose, getta una fievole luce sull’esistenza di un ben preciso tipo di umanità: quello che vive e lavora sulle autostrade, non-luoghi per eccellenza.

La metà del diavolo. L’altra metà, che cos’è?

Diversi sono i personaggi, alcuni dei quali nel ruolo di mera comparsa, che popolano questo romanzo, ma a tre si può dare il ruolo di comprimari: Pierre Castan, Pascal Folier, Julie Martinez. Il primo è un padre di famiglia distrutto dalla morte della figlia Lucie per mano del secondo, un serial killer di bambine; il terzo personaggio è il poliziotto incaricato di ritrovare la piccola Marie Mercier, l’ultima vittima di Pascal; quando dietro la scomparsa della ragazzina si innalza l’ombra del rapimento, le forze in gioco si gettato a caccia del rapitore.

I punti di forza di questo noir/thriller non sono tanto la trama, di per sé abbastanza poco originale, quanto piuttosto: 1) il carattere introspettivo dei personaggi, ben delineati; 2) l’atmosfera; 3) l’utilizzo di uno sviluppo alternativo per affrontare una storia che rientrerebbe, di diritto, nel genere giallo/poliziesco.

“Siamo soli con i nostri segreti”

Pierre Castan è un uomo distrutto, un fantasma rabbioso in cerca di vendetta. La vita sua e quella della (ex?) moglie Ingrid è finita con la morte della loro figlia. Da allora Ingrid è caduta in una depressione apatica dalla quale non sembra esserci possibilità di ritorno: passa le giornate ad alcolizzarsi e masturbarsi in un salotto invaso dalla sporcizia, ogni tanto si fa sodomizzare dai porta-pizza che capitano per casa. E questo è tutto il suo “ruolo” all’interno del romanzo; di fatto è un personaggio inutile ai fini dello sviluppo della trama, ma che ben rappresenta l’atmosfera nichilista di cui al punto 3. Pierre è un’anima tormentata, un uomo che ha abbandonato per dare la caccia all’assassino, e lo fa vivendo di fatto fra un autogrill e l’altro, convinto che prima o poi riuscirà a mettere le mani addosso all’uomo che ha annichilito la sua famiglia. La seguente frase viene riferita a Ingrid, ma è senza problemi applicabile anche a Pierre:

Per questo Ingrid resiste.
Soltanto per questo.
Resisterà il tempo necessario a strappargli gli occhi, la lingua, le orecchie, le dita, il naso. Il cazzo. Tutto ciò che ha approfittato di Lucie, tutto ciò che ha divorato Lucie sarà colpito piegato spezzato scuoiato dilaniato distrutto.
Sale sulle ferite.
Gli piscerà in bocca.
Cosparso di benzina e bruciato.

“Il cazzo”, dunque. Elemento quasi di scherno questo, visto che Pascal Folier, oltre a essere sociopatico, orfano e sordo, è anche impotente; e dunque non rapisce le bambine per violentarle. Il problema principale di Pascal è la solitudine: l’assenza di suoni nella sua vita si unisce con l’assenza di affetti e di emozioni. È di fatto una monade esistenziale, un alieno. Nel romanzo non lo vediamo intrattenere rapporti umani se non per mera necessità; prova più sentimenti per il suo furgone che per qualsiasi altro essere vivente; la sua estrema razionalità lo avvicina decisamente alla sociopatia. È dunque un individuo pericoloso, e bravissimo è Incardona a immedesimarsi nella sua mente, anche se a tratti si vacilla, da lettori, nel capire quali siano le sue motivazioni. Di fatto sembra rapire ragazzine per avere compagnia, ma poi non si fa problemi a chiuderle in una ghiacciaia o a scioglierle nell’acido per far scomparire le prove. È in ogni caso un personaggio diabolicamente affascinante.

Julie Martinez è forse, fra i tre, il meno azzeccato: è una donna forte, “cazzuta”, emotivamente fragile ma in grado di recuperare questa mancanza con una grande motivazione. Però sembra sfuggire a tratti quali sono i suoi obiettivi nella vita oltre a quelli lavorativi. La vediamo cedere solo quando, incapace di controllarsi e consapevole di star rischiando anche la vita nell’indagine, si lascia andare sessualmente (ma non emotivamente, almeno non del tutto) col suo compagno di squadra Thierry Gaspard.

Ciò che accomuna questi individui (e gli altri personaggi: la veggente Tìa Sonora, la prostituta transessuale Lola, il manager di autogrill Gérard Lucino, le varie comparse) è in una sorta di disperazione, di senso di sconfitta dalla vita assimilabile, per vie traverse, a quel grande non-luogo che è l’autostrada. E qui arriviamo al punto 2.

Non-luoghi, non-vite, non-senso

Non c’è nessun dio, Pierre.
Nessun riferimento al di là di noi stessi.
Non c’è nessuna macchinazione, nessun deus ex machina.
Qualcuno ha preso tua figlia perché il mondo è in movimento.

Il male esiste ma non è il Diavolo: questo ci dice Incardona ne La metà del diavolo. In un mondo senza Dio, in cui regnano non la Legge e il Disegno divino, bensì l’entropia e il caos totale, è l’essere umano il male, o meglio quella vitalità interna che porta avanti le sue azioni, e che può sdoppiarsi in qualsiasi momento: «Come spiegarle che, oltrepassata una determinata soglia di sofferenza, ci si trasforma in una scheggia impazzita, non c’è più nessun legame sociale, nessuna legge, più niente da rispettare se non la propria sete di vendetta. […] Distruggere. Vendicarsi. Far male. Purificare». Ecco il male cos’è: la mancanza di empatia da una parte, la voglia di distruzione dall’altra. È un male che terrorizza per la sua insensatezza e per l’impossibilità di redenzione che rappresenta. Senza Dio, a chi si può chiedere aiuto? Perché, ci dice altrove Incardona, «Dio è morto».

La caccia all’assassino, la caccia allo stile

La caccia è dunque al centro del romanzo La metà del diavolo, ma interessa poco a Incardona mostrare prove, referti medici, indagini ecc. Anziché puntare sul giallo, si butta sul nero, mostrandoci come la vendetta e la giustizia si confondano quando di mezzo c’è la disperazione. Allora le intuizioni e i colpi di scena tipici del primo genere vengono soppiantati da elementi introspettivi, ambientazioni squallide, vite bruciate e un senso di redenzione che si aspetta fino alla fine ma che proprio non arriva.

Se questo elemento rende peculiare La metà del Diavolo, d’altro canto è difficile mantenere la giusta tensione per 270 pagine. L’autore/narratore si intromette pesantemente, coi suoi giudizi e la sua visione del mondo, dialoga coi personaggi, dà loro consigli pur sapendo che non possono ascoltarlo, si diverte sadicamente col lettore anticipando alcune morti. La struttura scricchiola appena quando, dopo l’ennesima digressione dalla trama, Incardona vuole trasmetterci, ancora una volta, un senso di estraneità.

Ma questo è decisamente un difettuccio che gli si può perdonare.

“Grandi momenti”: Krauspenhaar nichilista

Grandi momenti (Neo edizioni, 2016) è l’ultimo romanzo di Franz Krauspenhaar (Le cose come stanno, Era mio padre, Biscotti selvaggi). Narrato in prima persona e al tempo presente, è categorizzabile come romanzo psicologico.

I grandi momenti “prima” e “dopo”

Il grande spartiacque della vita di Franco Scelsit, classe 1960,e protagonista di Grandi momenti, è l’infarto subito l’anno precedente alla narrazione. Su quella vita trascorsa fra libri autentici ma dalle basse tirature, romanzi best seller ma pubblicati sotto pseudonimo, donne occasionali, bevute con amici e corse in macchine di lusso, Franco si ritrova a riflettere nel periodo attuale, dominato dalla convalescenza da un collasso che gli è quasi costato la vita.

In questo lungo presente, fatto di visite, ginnastica riabilitativa, birra ghiacciata durante le “cardiopizze” (cene insieme agli altri ospiti dell’ospedale, tutti infartuati), le giornate passano così, senza senso, con l’unico vero aggancio alla vita costituito dalle domande che, inevitabilmente, vengono a sorgere dopo un evento del genere.

Ciò che colpisce della narrazione di Grandi momenti è la stranezza di quello che si definisce in gergo come “arco di trasformazione del personaggio”: la prassi prevede che a inizio storia il protagonista abbia un difetto principe che gli impedisce di uscire dallo stallo in cui si trova; solo durante lo svolgimento della trama, poi, riesce a trovare uno sbocco dal suo vicolo cieco e a superare l’asperità che gli si è presentata. Ecco, in Grandi momenti questo arco di trasformazione risulta distorto, quantomeno dimidiato e parziale. Franco Scelsit, uomo palesemente in crisi di mezza età e sull’orlo della depressione più cupa, non sembra essere in grado di uscire dal suo fatal flaw: piuttosto il post infarto lo conduce a riflettere, a portare alla luce questo suo malessere prima indecifrabile; malessere persistente anche nel “prima”, quando l’uomo lo scaricava comprando auto di lusso (una Jaguar tanto agognata e poi distrutta, perché non è con oggetti materiali che si esce dalla depressione) e dissipando soldi.

Fransco Scelsit, l’uomo del Novecento

Il mal di vivere montaliano di Franco Scelsit sembra invincibile, come risulta da diversi tentativi (andati a male) di autoanalisi. Si pensi ai seguenti passi, il primo a inizio romanzo e il secondo verso la fine: «Tutto ciò che tocco è malato, il morbo è la mia cifra, l’alienato è il mio ritratto». «Poche tirate e la sigaretta è finita, come finisce un sogno, un amore, una speranza, come finisce tutto».

Di frasi come queste il romanzo è pieno: sono sentenze fatalmente nichiliste, che non lasciano spazio alcuno a una speranza consolatrice, a un futuro luminoso. E che il futuro non sia luminoso per Franco Scelsit lo conferma il suo ostinato tentativo di annegare nel passato. Dalla scelta delle macchine alla frequentazione di personaggi solo over 50 (solo una certa Mara, 24 anni, sembra affacciarsi nella sua vita, ma lui la ricaccia indietro perché la differenza d’età è troppa), dall’ascolto di musica fondamentalmente vintage al rifiuto totale di usare computer e telefonino (nonostante si parli qui di uno scrittore di professione): tutto è rigorosamente “anni Ottanta”, forse nel tentativo disperato di (ri)vivere una vita e una giovinezza ormai perdute, e un periodo storico ottimista o comunque speranzoso.

Quest’assenza di speranza nel presente e il relativo rifugio in un passato “glorioso” si mischiano, a volte ma non sempre, con qualche sprazzo di ottimismo, cosparso però anch’esso di un senso di tragedia e fatalismo:

«Ma io me ne frego della società, Mario. E della politica. Questa politica è morta, si è suicidata. Io vado avanti sbagliando e riprovandoci e sbagliando ancora, come Beckett. Lo sbaglio è l’unica cosa che non mi tradisce mai. Io ho visto il baratro, ci sono caduto dentro, e sono ancora vivo. Più vivo che mai. E allora si sopravvive. Forse. Anzi, come dice un mio amico “si resiste”. Se sopravvivi al baratro, è come se fossi resuscitato».

C’è un vago richiamo all’abisso nietzscheano qui, e probabilmente non è casuale, visto il senso di nichilismo generale di Grandi momenti. Verso la fine del libro Franco decide quasi di cambiare tutto, a 50 anni suonati, e di partire per l’America. Ma anche l’America, vista trent’anni prima, è un’America diversa: «L’America è passata. È stata ed è passata. E tutto senza di me».

Eppure basterebbe forse poco per cambiare le cose, ma i propositi di costruirsi una famiglia (lui stesso afferma di volere figli, e di poter anche essere un ottimo padre), di rimettersi in gioco, di cambiare aria svaniscono nel nulla, non arrivano mai a compiersi. E resta sospesa così anche una delle frasi più belle dell’intero libro: una frase che sembra la speranza in un nuovo rinascimento, e che però non si avvera: «Si trova sempre qualcuno simile a noi. Basta un sorriso, a volte, e si divide la colpa di essere vivi».

Questo senso di peccato originario che pervade l’intera storia è tutto qui: nella colpa di essere vivi. Colpa inevitabile, e quindi tanto più schiacciante e paralizzante.

Grandi momenti è dunque uno straordinario e, al contempo, paradossale inno alla vita, che conta su una scrittura viscerale, amorale, a tratti rozza e scurrile, sicuramente non adatta a palati fini e che godono nell’aureo distacco dalla realtà. Ma chi, guardandosi intorno, vede ovunque le ombre di una crisi che non è solo economica, bensì esistenziale, non potrà che amare questo piccolo capolavoro.

Michel Foucault e “il sapere-potere”

Il filosofo, storico e sociologo francese Michel Foucault (Poitiers, 15 ottobre 1926 – Parigi, 25 giugno 1984), si è dedicato alla letteratura contemporanea tra il 1962 e il 1969 attraverso una serie di studi che mostrano una profonda comprensione del fenomeno letterario e in cui la scrittura viene inserita nel contesto della sessualità, della trasgressione e della morte. La scrittura definisce “un’ apertura di uno spazio in cui il soggetto che scrive non smette di sparire”. Foucault è un grande formulatore di discorsi e ad un certo punto si domanda: “In fondo, che cosa importa chi parla?. In questo modo il filosofo francese ha decretato la morte dell’uomo, fondando il suo interesse sul “sapere-potere”, puntando la propria attenzione soprattutto sulle grandi strutture oggettive rimosse o nascoste.

Il pensiero di Michel Foucault si potrebbe idealmente dividere in quattro punti essenziali; una prima fase di pensiero che va dal 1954 al 1961 in cui il critico si addentra nei sentieri del sogno e della follia: un cammino durante il quale le sue riflessioni lo porteranno ad incontrare e poi a superare la fenomenologia. La fenomenologia da cui è maggiormente influenzato è quella di Merleau-Ponty, la psicologia e la psicanalisi esistenziali di Binswanger e l’epistemologia di Canguilhem. I temi che fanno da fondamento a questa prima fase di pensiero sono il soggetto, inteso in maniera esistenzialista, la malattia psicologica, e una prima critica al razionalismo.

In testi come Maladie mentale et personnalité del 1954; Histoire de la folie à l’âge classique del 1961, e Maladie mentale et psychologie del 1962 e in Naissance de la clinique, une archéologie du regard médical del 1963, F. sviluppa dunque la sua analisi del sogno inteso come dimensione a-logica e privilegiata dell’esistenza umana in grado di rivelare quei contenuti simbolici importanti per la comprensione della propria natura più autentica. Egli inoltre analizza la malattia mentale intesa non tanto come devianza patologica, ma come una particolare modalità di esistenza intrisa di potenzialità, di originalità e creatività. A partire dall’epistemologia ‘storica’ di Canguilhem, evidenzia alcuni strumenti di analisi relativi ai concetti di “normale”e di “patologico”; vuole chiarire la sua posizione, estendendo l’analisi alle varie scienze umane, di cui individua il successivo stratificarsi e le condizioni di possibilità, cioè il loro costituirsi in campi epistemologici distinti.

La seconda fase di pensiero è quella che va dal 1961-1968. Lo sguardo di F. vuole andare oltre l’immediatamente visibile e indagare però il corpo nella storia della medicina. Ci troviamo tra le opere foucaultiane degli anni Sessanta in cui è palese l’influenza dello strutturalismo sebbene F. non aderisca mai totalmente ad esso. L’attenzione è stata concentrata sull’analisi del percorso che la medicina ha seguito nel processo di conoscenza del corpo umano, della malattia, della salute e della morte; sul concetto di episteme delle varie epoche storiche. In Les mots et les choses, une archéologie des sciences humaines del 1966,  F. analizza i saperi e i discorsi che hanno la caratteristica di modificare e creare gli “oggetti” che studiano. Il percorso di analisi parte dal periodo compreso tra ‘600 e ‘700 ed esamina l’episteme che organizza l’intera struttura conoscitiva di questa epoca analizzando come si passa dal segno alla funzione; nell’epoca successiva e cioè quella che prosegue fino all’Ottocento. F. fa riferimento alla nascita dell’anatomia patologica e alle forme e ai significati che il corpo assume in questa prospettiva, dalla funzione si passa al tessuto. Si arriva dunque a riflettere sull’Uomo come creazione recente.

Nella terza fase di pensiero che va dal 1969 al 1979 F. scrive testi come L’archéologie du savoir (1969), Moi Pierre Rivière ayant égorgé ma mère, ma soeure et mon frère (1973), Surveiller et punir; naissance de la prison (1975), Histoire de la sexualité  in 3 volumi nel 1976-84. Il cammino di Foucault tra la fine degli anni Sessanta e quella dei Settanta, si concentra sulla riflessione sul potere da cui ovviamente scaturisce la costituzione del soggetto moderno e della corporeità; i suoi campi di indagini sono capire come il meccanismo delle relazioni di potere forma e utilizza il corpo e come il soggetto viene continuamente influenzato e costruito dalla rete del potere. Un’influenza decisiva è stata senz’altro la lettura della genealogia della morale di Nietzsche, intesa come fondamentale strumento metodologico del corpo e del soggetto. La riflessione di Foucault sulle “stituzioni totali” inizia dunque con la genealogia dell’istituzione punitiva, il cui modello si riproduce e si ripropone nelle altre principali istituzioni quali l’esercito, la scuola, l’ospedale, la fabbrica. Di questa fitta rete di influenze e concatenazioni fa parte anche il sapere legato, in qualche modo, sempre al potere. Il potere poi è sempre affiancato dal concetto di “resistenza”, un correlato opposto e paradossalmente complementare. Per quanto riguarda sessualità, F. la rappresenta non come elemento naturale del patrimonio esistenziale dell’essere umano, ma come dispositivo storico delle società.

Nell’ultima fase di pensiero che va dal 1980 al 1984 si ha quella che si potrebbe definire una svolta filosofica, la scoperta dell’ethos. La fase finale del percorso foucaultiano, improvvisamente interrotto dalla morte, è caratterizzata dalla scoperta di una dimensione etica che non troviamo nei precedenti lavori. Investe anche in una reinterpretazione del soggetto, non più sottomesso e plasmato dal potere, ma attivamente consapevole e capace di auto-costruirsi. Il soggetto sembra rimanere sempre un qualcosa che si costruisce; tuttavia esso assume ora caratteristiche positive: la capacità di auto-costruirsi attraverso un complesso lavoro di perfezionamento e un’educazione fisica e spirituale. Richiamandosi di nuovo a Nietzsche, Foucault ipotizza la fine di quelle forme di soggettività, sottoposte all’opera del potere, che hanno caratterizzato la nostra epoca dal ‘700. Emerge dunque una prospettiva di libertà e di creatività del tutto nuova. Rilegge Kant e l’Illuminismo e inaugura la direzione e il compito che la filosofia riveste poi nell’epoca contemporanea: la riflessione critica su se stessi e sul proprio presente storico.

Tornando al suo secondo libro, il prezioso e di particolare interesse Le parole e le cose, del 1966, è importante sottolineare come F. analizza la ricchezza  e la storia naturale nella filologia, nell’economia politica, nella biologia, nella zoologia e nella botanica. Il testo infatti si apre con un’analisi delle Meninas di Velazquez, in cui si percorrono tutti i meandri del fenomeno della rappresentazione.

La dura ricerca di Foucault, volta al tentativo di dare una diagnosi dell’attualità, soprattutto attraverso l’analisi di una nuova economia del potere che ha come oggetto il governo della popolazione, organizzando lo spazio sociale, ha riscosso grandi consensi e ha segnato senza dubbio la cultura filosofica francese. Come non tenere conto dell’elaborazione dell’attuale concetto di biopotere, il quale fabbrica corpi, desideri, i modi di essere, comportamenti, basti pensare a quanto la società moderna, dominata dal cinismo, e l’individuo siano influenzata dalla pubblicità e dalla televisione.

Secondo il filosofo poi l’arte stessa, quindi anche la musica e la letteratura, deve stabilire con il reale un rapporto che vada oltre il semplice abbellimento, per diventare smascheramento. Ma sappiamo bene come l’arte, a partire dalla metà del XIX secolo si sia costituita come arte antiplatonica, che rigetta regole prestabilite, stabilendo con la cultura e le norme sociali un rapporto polemico e di riduzione; l’arte moderna ha aggredito l’arte acquisita, assumendo anch’essa un atteggiamento cinico nei confronti di quest’ultima.

Ma qual è il lascito più importante di Michel Foucault sul quale dovremmo continuamente interrogarci? La riflessione sulla tradizione del nostro Occidente, con il suo cinismo elitario, parente stretto dello scetticismo, e con il suo saper vivere senza verità. Come creare un rapporto armonico tra volontà di verità e stile di vita dopo che la fusione tra cinismo e scetticismo ha dato vita al nichilismo? Difficile dare risposte a queste domande ma Foucault ci fa capire come il vero principio del nichilismo non è: Dio non esiste, quindi tutto è permesso, siamo liberi e possiamo fare ciò che vogliamo; egli si chiede: se devo confrontarmi con il pensiero che “nulla è vero”, come devo vivere? Questa è la vera questione al centro della cultura occidentale: definire il legame tra l’amore della verità e l’estetica dell’esistenza. In cosa consiste l’arte di esistere in un Occidente che ha inventato tante verità, che si nutre della sua confusione, e dove tutti hanno ragione? Dice Foucault: “il cinismo serve a ricordarci che ben poca verità è indispensabile per chi voglia vivere veramente, e che ben poca vita è necessaria quando si tenga veramente alla verità”. Meditiamo.

 

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