‘Le nostre anime di notte’ l’ultimo saluto a Holt di Kent Haruf

È stato difficile abbandonare Holt, la città immaginata da Kent Haruf nei suoi romanzi, e leggendo l’ultima frase del libro Le nostre anime di notte edito da NN Editore è difficile non rimanere scossi.

A differenza dei tre precedenti romanzi – Benedizione, Il canto della pianura e Crepuscolo, sempre editi da NN Editore – in questo libro c’è qualcosa in più. Si sente molto forte la presenza dell’autore che in alcune scene si colloca all’interno del romanzo non come personaggio, ma con i suoi racconti. Una presenza forte in cui emerge preponderante la rapidità, non solo in senso calviniano, ma come corsa contro il tempo per terminare il suo lavoro prima di morire.

Ne emerge un racconto delicato in cui i due anziani protagonisti scoprono di poter rivivere nel presente quello che il futuro non può più dare mettendo in discussione il sistema di regole silenziose e di pettegolezzi che governa una piccola cittadina di provincia. Ed è un po’ quello che cerca di fare Haruf lasciandoci un’opera che, dal punto di vista stilistico forse è meno perfetta delle altre, ma ha al suo interno una meravigliosa vitalità e allo stesso tempo un velo di rassegnazione che restituisce intatto il senso del nostro vivere quotidiano.

Haruf per qualunque lettore vuol dire Holt, il luogo immaginato in cui vivono personaggi normali e in cui non accade nulla di particolare. Una noiosa contea americana, dell’estrema provincia in cui si vive di agricoltura, allevamento e da cui si sogna fuggire. Una prosa asciutta, senza fronzoli, che non lascia spazio a fraintendimenti, inutili metafore e che narra la vita nella sua crudezza e crudeltà.

È impossibile parlare de Le nostre anime di notte come un romanzo a sé, e questo non perché sia collegato agli altri, ma c’è un enorme filo rosso che tiene uniti i quattro racconti. In Haruf, come nei grandi autori dell’800, c’è una tematica di fondo in ogni libro e per questo vanno letti nella loro interezza. E così troviamo il tema della morte in Benedizione, della vita nel Canto della Pianura, della rinascita in Crepuscolo e nell’ultimo, Le nostre anime di notte, l’illusione. Sono temi amari che fanno parte della vita di ogni essere umano che può rispecchiarsi in almeno uno dei personaggi che popolano Holt.

Leggendo i libri di Haruf sembra di osservare una Spoon River ante litteram in cui i personaggi vengono raccontati nel loro quotidiano e nella loro semplicità. Sembra di rivedere, da una angolazione diversa, quel mondo raccontato da quel genio cinematografico di Lars Von Trier nella sua Dogville. E anche qui non ci sono filtri, le descrizioni sono ridotte al minimo e sembra quasi di poter osservare attraverso pareti trasparenti l’interiorità di ogni personaggio. Visitare Holt inoltre aiuta a comprendere dove nasce il disagio americano e da dove ha inizio l’America di Trump.

Strano caso quello di Haruf giunto all’attenzione dei lettori italiani dopo la sua prematura scomparsa grazie ad un editore che ha creduto fortemente in lui riuscendo laddove avevano fallito i grandi. Haruf, Williams e chissà quanti altri appartengono alla schiera dei grandi maestri del novecento bistrattati dal nostro mercato editoriale. Occorre riflettere su questo anche perché vista l’enorme quantità di libri insignificanti che invadono le librerie, la letteratura di qualità paga sempre.

Fatevi un regalo, visitate Holt.

‘La metà del diavolo’, il noir nichilista di Incardona

La metà del diavolo (NN editore 2016, titolo originale Derrière les panneaux, il y a des hommes) è l’ultimo libro di Joseph Incardona, il primo tradotto in italiano. È un noir teso e disperato che, fra le altre cose, getta una fievole luce sull’esistenza di un ben preciso tipo di umanità: quello che vive e lavora sulle autostrade, non-luoghi per eccellenza.

La metà del diavolo. L’altra metà, che cos’è?

Diversi sono i personaggi, alcuni dei quali nel ruolo di mera comparsa, che popolano questo romanzo, ma a tre si può dare il ruolo di comprimari: Pierre Castan, Pascal Folier, Julie Martinez. Il primo è un padre di famiglia distrutto dalla morte della figlia Lucie per mano del secondo, un serial killer di bambine; il terzo personaggio è il poliziotto incaricato di ritrovare la piccola Marie Mercier, l’ultima vittima di Pascal; quando dietro la scomparsa della ragazzina si innalza l’ombra del rapimento, le forze in gioco si gettato a caccia del rapitore.

I punti di forza di questo noir/thriller non sono tanto la trama, di per sé abbastanza poco originale, quanto piuttosto: 1) il carattere introspettivo dei personaggi, ben delineati; 2) l’atmosfera; 3) l’utilizzo di uno sviluppo alternativo per affrontare una storia che rientrerebbe, di diritto, nel genere giallo/poliziesco.

“Siamo soli con i nostri segreti”

Pierre Castan è un uomo distrutto, un fantasma rabbioso in cerca di vendetta. La vita sua e quella della (ex?) moglie Ingrid è finita con la morte della loro figlia. Da allora Ingrid è caduta in una depressione apatica dalla quale non sembra esserci possibilità di ritorno: passa le giornate ad alcolizzarsi e masturbarsi in un salotto invaso dalla sporcizia, ogni tanto si fa sodomizzare dai porta-pizza che capitano per casa. E questo è tutto il suo “ruolo” all’interno del romanzo; di fatto è un personaggio inutile ai fini dello sviluppo della trama, ma che ben rappresenta l’atmosfera nichilista di cui al punto 3. Pierre è un’anima tormentata, un uomo che ha abbandonato per dare la caccia all’assassino, e lo fa vivendo di fatto fra un autogrill e l’altro, convinto che prima o poi riuscirà a mettere le mani addosso all’uomo che ha annichilito la sua famiglia. La seguente frase viene riferita a Ingrid, ma è senza problemi applicabile anche a Pierre:

Per questo Ingrid resiste.
Soltanto per questo.
Resisterà il tempo necessario a strappargli gli occhi, la lingua, le orecchie, le dita, il naso. Il cazzo. Tutto ciò che ha approfittato di Lucie, tutto ciò che ha divorato Lucie sarà colpito piegato spezzato scuoiato dilaniato distrutto.
Sale sulle ferite.
Gli piscerà in bocca.
Cosparso di benzina e bruciato.

“Il cazzo”, dunque. Elemento quasi di scherno questo, visto che Pascal Folier, oltre a essere sociopatico, orfano e sordo, è anche impotente; e dunque non rapisce le bambine per violentarle. Il problema principale di Pascal è la solitudine: l’assenza di suoni nella sua vita si unisce con l’assenza di affetti e di emozioni. È di fatto una monade esistenziale, un alieno. Nel romanzo non lo vediamo intrattenere rapporti umani se non per mera necessità; prova più sentimenti per il suo furgone che per qualsiasi altro essere vivente; la sua estrema razionalità lo avvicina decisamente alla sociopatia. È dunque un individuo pericoloso, e bravissimo è Incardona a immedesimarsi nella sua mente, anche se a tratti si vacilla, da lettori, nel capire quali siano le sue motivazioni. Di fatto sembra rapire ragazzine per avere compagnia, ma poi non si fa problemi a chiuderle in una ghiacciaia o a scioglierle nell’acido per far scomparire le prove. È in ogni caso un personaggio diabolicamente affascinante.

Julie Martinez è forse, fra i tre, il meno azzeccato: è una donna forte, “cazzuta”, emotivamente fragile ma in grado di recuperare questa mancanza con una grande motivazione. Però sembra sfuggire a tratti quali sono i suoi obiettivi nella vita oltre a quelli lavorativi. La vediamo cedere solo quando, incapace di controllarsi e consapevole di star rischiando anche la vita nell’indagine, si lascia andare sessualmente (ma non emotivamente, almeno non del tutto) col suo compagno di squadra Thierry Gaspard.

Ciò che accomuna questi individui (e gli altri personaggi: la veggente Tìa Sonora, la prostituta transessuale Lola, il manager di autogrill Gérard Lucino, le varie comparse) è in una sorta di disperazione, di senso di sconfitta dalla vita assimilabile, per vie traverse, a quel grande non-luogo che è l’autostrada. E qui arriviamo al punto 2.

Non-luoghi, non-vite, non-senso

Non c’è nessun dio, Pierre.
Nessun riferimento al di là di noi stessi.
Non c’è nessuna macchinazione, nessun deus ex machina.
Qualcuno ha preso tua figlia perché il mondo è in movimento.

Il male esiste ma non è il Diavolo: questo ci dice Incardona ne La metà del diavolo. In un mondo senza Dio, in cui regnano non la Legge e il Disegno divino, bensì l’entropia e il caos totale, è l’essere umano il male, o meglio quella vitalità interna che porta avanti le sue azioni, e che può sdoppiarsi in qualsiasi momento: «Come spiegarle che, oltrepassata una determinata soglia di sofferenza, ci si trasforma in una scheggia impazzita, non c’è più nessun legame sociale, nessuna legge, più niente da rispettare se non la propria sete di vendetta. […] Distruggere. Vendicarsi. Far male. Purificare». Ecco il male cos’è: la mancanza di empatia da una parte, la voglia di distruzione dall’altra. È un male che terrorizza per la sua insensatezza e per l’impossibilità di redenzione che rappresenta. Senza Dio, a chi si può chiedere aiuto? Perché, ci dice altrove Incardona, «Dio è morto».

La caccia all’assassino, la caccia allo stile

La caccia è dunque al centro del romanzo La metà del diavolo, ma interessa poco a Incardona mostrare prove, referti medici, indagini ecc. Anziché puntare sul giallo, si butta sul nero, mostrandoci come la vendetta e la giustizia si confondano quando di mezzo c’è la disperazione. Allora le intuizioni e i colpi di scena tipici del primo genere vengono soppiantati da elementi introspettivi, ambientazioni squallide, vite bruciate e un senso di redenzione che si aspetta fino alla fine ma che proprio non arriva.

Se questo elemento rende peculiare La metà del Diavolo, d’altro canto è difficile mantenere la giusta tensione per 270 pagine. L’autore/narratore si intromette pesantemente, coi suoi giudizi e la sua visione del mondo, dialoga coi personaggi, dà loro consigli pur sapendo che non possono ascoltarlo, si diverte sadicamente col lettore anticipando alcune morti. La struttura scricchiola appena quando, dopo l’ennesima digressione dalla trama, Incardona vuole trasmetterci, ancora una volta, un senso di estraneità.

Ma questo è decisamente un difettuccio che gli si può perdonare.

“Premessa per un addio” di Gian Luca Favetto, un gioco narrativo

Premessa per un addio (NN editore, 2016) è l’ultimo libro dello scrittore e critico teatrale e cinematografico torinese Gian Luca Favetto (Se dico radici dico storie, Mappamondi e corsari, Il giorno perduto), settimo volume della collana ViceVersa, a cui appartiene anche Panorama di Tommaso Pincio, già vincitore della prima edizione del premio Sinbad per l’editoria indipendente.

 

Premessa per un addio: la trama

Tommaso Techel, di professione geografo, è un uomo di mezza età in fuga dal suo presente: fugge da un matrimonio praticamente finito, fugge dalle responsabilità nei confronti della figlia Giulia. Fugge da tutto, e lo fa viaggiando da solo a New York, città amata ma anche lontana dalla realtà del nord Italia. Qui, nonostante sia studioso di luoghi e non di persone, ci va per conoscere proprio le persone, poiché «l’anima dei luoghi è nelle persone che li abitano e li visitano, nella memoria che coltivano».

Sul volo per New York, Tommaso incontra Alma Berlin, una donna sulla settantina ma ancora avvenente e, soprattutto, elegante. Questo è un elemento non indifferente per chi, come Tommaso, guarda ai dettagli e in essi si immerge per iniziare a “esplorare” il presente.

Alma Berlin, che ha esplorato mezzo mondo, lo coinvolge successivamente nell’incontro con Cora Paul, donna di origini polacche, con la quale Tommaso ha una relazione appassionata ma destinata a essere breve. Durante il suo viaggio, e soprattutto grazie alla relazione con Cora, il protagonista si trova inevitabilmente a fare i conti con ciò che ha lasciato e con ciò che troverà al ritorno.

La sua infatti non è una partenza definitiva, bensì un viaggio per tornare, un momento che Tommaso si prende solo per sé, per comprendere, per riuscire a darsi una risposta e trovare soluzione a un problema che ormai si è fatto troppo pressante per essere affrontato direttamente. A conferma di questo pensiero arrivano le parole delle ultime pagine, illuminanti sullo sviluppo del romanzo e sul “gioco” interno:

«Lo scopo del viaggio è tornare a casa, pensa Tommaso […]. È venuto a New York per cominciare il ritorno. Gli manca l’ultimo pezzo di percorso. Una quindicina di pagine e finisce il libro».

Ma per tornare a casa Tommaso deve giocare di sottrazione e capire cosa resta di lui dopo aver eliminato/allontanato da sé tutto ciò che lui non è:

«ogni uomo, ogni libro, ogni pensiero è un paese straniero. […] una vita non si riduce a un’altra vita, una vita è libera e plurale, e così pure l’altra vita lo è».

Per conoscere se stessi bisogna dunque lasciare tutto. Senza imporsi di dare un addio (almeno potenziale) a ciò che si ha, non si può comprendere ciò che si è. La premessa per tornare è la premessa per un addio.

 

Un addio / Farewell

Durante la sua permanenza a New York, Tommaso legge un libro, Foreword for a Farewell (libro inventato dall’autore, traduzione inglese del titolo originale), che narra le vicende di un uomo straniero che si trova a vivere per un certo periodo nel nord Italia. Qui il protagonista del “libro dentro al libro”, Carlton, incontra una donna di cui s’innamora, Waltraud; e la coppia Carlton-Waltraud è parallela a quella Tommaso-Cora, così come l’intero viaggio del protagonista di Foreword for a Farewell è parallelo (ma in senso contrario) a quello di Tommaso. In Premessa per un addio, addirittura in ben tre punti Favetto-autore si “diverte” a giocare con questo elemento metanarrativo, affermando che nel “libro dentro al libro” accade qualcosa che viene riportata anche nel “libro fuori dal libro”. Ecco un esempio della pagina 66:

«Le congiunzioni sono fondamentali nella vita, tutte le congiunzioni, quelle astrali e quelle grammaticali. Noi siamo fatti di congiunzioni, copuliamo, coordiniamo e lo facciamo semplicemente, semplicemente ci va di farlo, dice a pagina 66 con la complicità dello scrittore che ha scelto di raccontare la sua avventura».

Proprio su questo gioco metanarrativo si può far leva, da lettori, per comprendere come la storia fra Tommaso e Cora sia destinata a terminare:

«Le labbra si sfiorano. È un respiro quello che Cora pronuncia: “Waltraud e il forestiero vivranno felici e contenti”».

Una frase del genere sarebbe infatti di per sé poco rilevante, se non arrivasse dopo poche pagine rispetto a questo struggente pezzo:

“Si dicono addio?” chiede Tommaso.
“Waltraud e il forestiero?”.
“Sì. Il romanzo è tutta una premessa perché si lascino?”.
“Non ti dico come finisce”. Cora beve un sorso del suo cocktail. “Finisce come deve finire” dice.
[…]
“Il libro finisce come Waltraud e il forestiero decidono che finisca” continua Cora.

In Premessa per un addio, Favetto spinge alle estreme conseguenze il gioco metanarrativo che intrattiene col lettore. Lo fa usando un linguaggio che sfida, spesso, le “leggi” della narrativa, ad esempio anticipando aspetti della trama, o rimandando a questo “libro dentro al libro”. Sono presenti dunque tre livelli narrativi: 1) il livello della narrazione, dove il protagonista è il Favetto-autore che racconta, che gioca, che conosce perfettamente ciò che accadrà; 2) il livello della storia narrata del “libro fuori dal libro”, in cui troviamo Favetto-Tommaso fare i conti con i vari personaggi (prevalentemente femminili); 3) e il livello della storia del “libro dentro al libro”, che riproduce a specchio ciò che accade nel secondo livello. Una cosa simile, di sfuggita, accade in Panorama, dove il narratore riesce ad accedere all’account di Ottavio Tondi in un modo che non viene mai specificato.

Favetto non è quasi mai volgare, anzi sembra voler portare il lettore in un gioco-danza, in una sorta di esperimento estetico e leggero. Lo fa usando un linguaggio a tratti etero, ma sempre dettagliato. Nei dettagli di questo testo si trovano anche momenti di alta letteratura, piccoli quadri da incorniciare:

«Nell’acqua è la risposta all’inquietudine all’incertezza che non si placa, nell’acqua è la pace, l’energia, l’abbraccio, la soluzione alle domande che si affollano spingono sgambettano s’intralciano in lui e non riescono a uscire».

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