‘Dogman’, il noir di Matteo Garrone che parla di morte e di angoscia

L’oscura pulsazione di un non-luogo dove le persone possono al più sopravvivere. Edifici che sembrano disabitati anche quando non lo sono, strade sterrate, spiagge luride, luci che brillano solo all’alba, locali come buchi aperti sul nulla, recinti e muri scrostati, un mondo di discarica, una latrina da cui non è possibile tirarsi fuori. Dogman, il film di Matteo Garrone non è un sado-thriller qualunque o un report di cronaca nera dalle venature splatter, né tantomeno un saggio autoriale improntato a una morale consolatoria oppure (fa lo stesso) sociologica: Dogman è un racconto di morte che ha per protagonista il male, quello che contagia, ammala, fa diventare i buoni cattivi e viceversa, si trasforma fatalmente in vendetta e sembra non avere senso finché non ne acquista uno nella logica della narrazione.

Dogman inizia con il ringhio di un pitbull da combattimento ed il terrore speculare degli altri cani chiusi dentro le gabbie del negozio, enucleando così quelle dinamiche di sopraffazione e sottomissione che sono la regola di vita del quartiere. L’ombra di Simone si staglia gigantesca dietro la porta a vetri del canaro, proiezione gonfia di una paura atavica che con il tempo ha dominato gli animi della gente perbene, non soltanto nei quartieri periferici.

E lo sguardo smarrito di Marcello in riva al mare, dopo l’ennesima prepotenza subìta, è quello di un Paese che ha preso consapevolezza del proprio status di vittima, e che “tutto questo non lo accetterà più”. Ma invece di raccontare un’incazzatura alla Quinto potere, o la vendetta efferata e grottesca in cui le cronache hanno abbondantemente sguazzato, Garrone descrive una quieta rivalsa del tutto priva della valenza pulp che ha reso archetipale, e protagonista di uno storytelling ante litteram, il vero Canaro.Garrone, grande pittore di anime, assume ancora una volta come base del suo cinema lo stupore di fronte all’orrore e sembra stavolta procedere in sintonia con le tesi di Salvatore Natoli esposte nel saggio L’animo degli offesi e il contagio del male: <<Certo, il male è pervasivo, ma chi lo compie ne è responsabile e non solo di quello che fa, ma –peggio- delle conseguenze… Ogni atteggiamento reattivo replica il misfatto, non lo riscatta>>. Il noir, che dell’atroce caso del “canaro della Magliana” riprende solo i dati principali, è sorretto dalla straordinaria resa del neoattore Marcello Fonte che s’immedesima nel brutto, fragile, miserabile eppure mite protagonista, confinato nelle brutture della periferia con l’unica consolazione dell’amore per la figlia e per i cani. Dogman, tuttavia, non insiste molto sulla trama perché la stessa è disseminata in decine di minimi, accuratissimi tocchi, nell’alternanza di campi lunghi e primi piani, nella fotografia che trova inquadrature assomiglianti a quadri di un Hopper post-atomico, nei flussi di cocaina che scandiscono il tragico rapporto di Marcello col brutale ed erculeo malavitoso Simoncino trasformatosi in persecutore personale.

Quello di Garrone è un cinema tridimensionale, dove i personaggi prendono corpo e saltano fuori dallo schermo per accompagnarti fino a casa, lasciandoti addosso un’angoscia straziante, come in Gomorra e in Reality, sono più veri degli uomini della cronaca cui si ispirano, perché hanno il carattere dell’universalità.

La sensazione d’angoscia di Dogman si fa di sequenza in sequenza più palpabile componendo un crescendo di sopraffazione che rende Marcello libero solo quando s’immerge in tenuta da sub con la figlia nelle profondità del mare, favorendo in questo modo il dispiegarsi di una vera e propria sinfonia della paura, la stessa che può intravedersi negli insondabili abissi dei comportamenti animali. L’uggiolio del cagnetto si trasforma nel ringhio spaventoso del pitbull da combattimento quando scatterà la trappola messa in atto da Marcello illuso di liberare una buona volta non solo se stesso, ma anche il quartiere, la città, il mondo dall’odioso stupratore. Il sentimento finale, riservato a spettatori dal cuore forte, trascende così l’atto criminale per incarnarsi nella più agghiacciante metafora cristologica che si possa immaginare.

 

 

 

Fonte:

Dogman

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