Letteratura e religione, un rapporto indissolubile

“La luce stessa è tenebra profonda” (Giobbe 10, 22). Forse questo è il versetto che meglio descrive quello che succede nei fondamentalismi religiosi: il pensiero, la religione possono essere strumento di morte. Ai primi fatti eclatanti di cronaca riguardanti stragi religiosi rispondiamo sempre sorpresi, quando invece la storia ci ha insegnato che questo tipo di crudeltà sono sempre dietro l’angolo. Oggi più che mai. Un punto di partenza per capire il nostro tempo, le sue contraddizioni, può senz’altro essere quello di concentrarsi a fondo sulle espressioni che il pensiero religioso ha prodotto.

Preambolo un po’ atipico questo, per un sito che si occupa fondamentalmente di letteratura, ma in realtà è proprio da questa espressione del pensiero umano che si dovrebbe partire. Come scrive chi crede? Cosa scrive chi crede? Come lo spartiacque della religione come ha influenzato le produzioni letterarie del Novecento, il secolo della psicanalisi?

Navigando nel secolo in cui “Dio è morto”, non si può far altro che mettere a confronto autori che credono e autori laici: una suddivisione netta che lascia il tempo che trova, ma che proprio per questo, deve essere smontata e ricomposta. Ed è questo quello che si farà in questo spazio tematico: un confronto “laico” tra testi e autori, senza pregiudizi di sorta o parteggiamenti. Quello che emergerà dai testi servirà come spunto di riflessione per comprendere la realtà in cui viviamo, a capire se il Novecento è davvero finito oppure se si è solo trasformato.

Quanti buoni cristiani e bigotti, ci sono fra i laici e i rivoluzionari del Novecento, o viceversa, quanti veri rivoluzionari ci sono tra i cristiani del nostro tempo? Riflettere sulla letteratura, cioè su come si attualizza e si rende pratico il pensiero degli uomini, può portare anche a riflessioni del genere.

Italo Svevo fa dire a Zeno Cosini: “Se credessi in Dio, non farei altro che pregare”: e ora che non c’è più? Chi ci crede ancora? Chi è che si ostina? Chi vuole credere ancora in Dio? Tocca fare tutto da soli?  Possiamo aver guadagnato dalla morte di Dio? Se è morto Dio, è morta anche la religione? Probabilmente no. Anzi, proprio perché Dio è morto, lo si deve cantare con più forza, la fede deve rinsaldarsi, l’unione con Dio ora può essere ancora più morbosa, in nome dello smarrimento della società contemporanea. Svevo ha avuto come maestro uno scrittore di origine cattolica, ovvero quel James Joyce che si era formato in seminario cattolico su testi di Tommaso d’Aquino e che teorizzava come epifanie i modi di manifestarsi dell’essere dentro i più trascurabili fenomeni quotidiani.

La morte di Dio, che è anche metafora della morte di un padre in cui credere, provoca in Svevo quella indifferenza che può chiamarsi nevrosi, male di vivere, male invisibile o oscuro. Come combattere quell’indifferenza? Forse non cercando Dio, che ormai non esiste, ma cercando l’originalità, l’originalità del pensiero, il rinnovamento laico, “cercando l’uomo”, per dirla alla Diogene.

Insomma, pensare una cosa nuova, logica, e crederci: questo pare che vogliano Palazzeschi, Gadda, Bontempelli, Alvaro e tanti altri. I laici possono benissimo avere fede nella scienza e nell’uomo, in un modo che non contrasta con la fede religiosa.

Il Novecento è il secolo dell’uomo al centro di tutto: e per “uomo” si intende anche il suo smarrimento, come ci rammenta T.S. Eliot nella sua Waste Land, che testimonia lo smarrimento dell’uomo contemporaneo privo del senso del sacro. In questo spazio tematico, dunque, si tenterà di tirare le fila di tutti questi spunti fin ora venuti fuori, confrontando chi ha creduto e chi no. Per tentare di capire cosa cambia e cosa resta uguale.

I narratori da considerare cattolici con ruolo di protagonisti sono effettivamente pochi: alla rinfusa, per dare una idea, contiamo, tra gli altri: Rebora, Ungaretti, Luzi, Pizzuto, Testori, Boine, Soldati, Buzzati, Pierro, Campanile, Turoldo, Bonura, Crovi, Pomilio.

Quelli che si sono sentiti abbandonati da Cristo, invece, sono molti di più. Alla rinfusa, per darne una idea, ecco quelli imprescindibili: D’Annunzio, Pirandello, Bontempelli, Marinetti, Soffici, Palazzeschi, Gadda, Montale, Svevo, Saba, Michelstaedter e Savinio. Possono bastare questi, ma ce ne sarebbero molti altri che sarebbe meglio scoprire man mano. Paradossalmente, se ci si pensa, senza di loro il Novecento sarebbe molto meno cristiano.

“A te, solo a te, io faccio sapere che non esisto”, fa dire Zavattini in dialetto emiliano a Dio apparso in sogno nel suo Totò il buono.

 

 

 

 

Stephen Dedalus: il martire e il mito di Joyce

“Vivere, sviarsi, cadere, trionfare, ricreare la vita dalla vita”: questa potrebbe essere la frase del protagonista di Stephen Dedalus che racchiude l’intero significato del romanzo di Joyce.

Pubblicato nel 1914-1915, Stephen Dedalus fa parte della trilogia irlandese (con Gente di Dublino e Ulyses); un’opera non sempre di facile comprensione, ma che rivela la sua potenza espressiva chiaramente solo nel finale, in cui il lettore si rende conto del significato di pagine e pagine di romanzo, dominate soprattutto da una tecnica simile al “flusso di coscienza”.

Pochi discorsi ma molte immagini, descritte dalla mente del protagonista, infatti caratterizzano questa opera: Stephan Dedalus, il protagonista che mischia già nel nome sacro e profano (Stefano, il primo martire e Dedalo, l’eroe mitologico) è stato visto da molti come l’alter ego di Joyce. Ma più di questo è interessante capire come si sviluppi il personaggio durante l’arco del racconto: Stephen è un giovane che studia presso un collegio gesuita: l’adolescenza sarà per lui l’età che devasterà il suo animo, sempre desidoroso di conoscenze e di domande e che poco si confà alla rigida educazione impartita nel collegio. Qui scopre l’amore, i piaceri della carne, le pulsioni bestiali che ogni ragazzo adolescente prova: solo successivamente, in confessione, scopre che i peccati carnali da lui commessi, i pensieri impuri sognati sono in realtà atroci peccati che vanno contro la morale religiosa.

Inizia così il suo cammino di redenzione: l’autore ce lo offre con pagine e pagine di descrizioni interiori, di squarci di una esistenza dominata dal grigiore e dalla irreprensibilità di leggi severe a cui obbedire, senza farsi domande. Seguire i precetti, pregare, confessarsi, studiare problematiche teologiche e filosofiche (come il problema dell’estestica). Tutto fino a una notte, in cui incontra alcuni suoi vecchi compagni che, dominati da un istinto leggero, fanno il bagno durante la notte: lo chiamano, vogliono che si aggiunga a loro. Dedalus, dopo un primo tentennamento, si lascia anche lui andare: nella penombra, vede una ragazza che fissa il mare, gli appare magnificamente bella, va in estasi e gli viene in mente, pensando a se stesso, questa domanda: “dov’era la sua adolescenza?”. Dove l’aveva nascosta? Esisteva ancora, nascosta tra le pieghe dei libri e dispersa tra le stanze del collegio?

Ed ecco che, quando si trova a frequentare l’università, i suoi pensieri sono ben altri: non crede più come prima. O meglio, crede nel farsi domande, crede nell’uomo: questo lo porta a una crisi religiosa, lo porta a liberare anche il suo talento letterario, riconosciuto anche dai suoi colleghi.

La crisi sarà suggellata dal dialogo finale con Cranly, suo fedele compagno di studi, in cui si palesa l’avvenuta trasformazione: la libertà come risposta, la solitudine come rischio da correre, per sfuggire alle catene della morale e del pensiero comune.
Stephen Dedalus è un’opera complessa, ricca di spunti, ma che porta solo e soltanto a una conclusione: il viaggio di Stephen è una catarsi, una espiazione che è completa solo se si è potuto sperimentare su se stessi il dolore dell’incomprensione con il proprio animo, la tragicità della dissociazione con una società che non è lo specchio delle proprie pulsioni. Il martire Stephen non esiste più, ora c’è Dedalo che ha costruito le ali per volare fuori dal labirinto del Minotauro.

 

 

‘Il Diavolo in corpo’: l’amore impossibile di Radiguet

Raymond Radiguet scrive Il Diavolo in corpo a 23 anni e nel giro di  pochi mesi dopo la sua pubblicazione del libro, avvenuta nel 1923, muore di tifo: molti critici e autori francesi lo hanno descritto come una perla rara nella letteratura, non soltanto circoscrivendolo a quella francese (ricevette i complimenti da Valery e gli fu assegnato uno dei massimi premi letterari francesi, conferitogli tra gli altri, da Cocteau e Giraudoux).

Già il titolo potrebbe far intuire quale sia il “cuore” del romanzo: stiamo parlando ovviamente di amore, ma non di un classico “amore impossibile”, cosi  come molte altre opere ce lo presentano: nella scrittura di Radiguet c’è qualcosa che rende questo amore impossibile diverso dagli altri.

Il tempo del racconto si svolge in piena grande guerra, ma il focus degli eventi si ha in un anno, tra il 1917 e il 1918,e questo periodo sarà fondamentale per la storia d’amore tra il dodicenne “ragazzo precoce” e la diciottenne Marthe Grangier, promessa sposa a Jacques, che ora si trova al fronte a combattere. Il loro primo incontro avviene con le famiglie, in una stazione ferroviara: durante una lunga passeggiata tra i boschi, il giovane protagonsita (che non ha un nome) è eccitato dal fatto che Marthe preferisse la sua compagnia a quella della famiglia e della natura circostante. È il primo passo verso una escalation di sensazioni che imbriglieranno il protagonista, andando a nutrire il suo “diavolo in corpo”. Le sensazioni descritte non sono solo di un amore intellettuale, come tuttavialo era anche, ma il diavolo che il protagonista ha in corpo esige ben altro: le descrizioni sulla fisicità di Marthe, i desideri irrefrenabili di “saltarle al collo” prenderanno il sopravvento da qui per tutto il romanzo.

Ma, come detto, c’è qualcosa che rende questa storia di amore impossibile diversa dalle altre, e questo qualcosa è la psiche del giovane protagonista. “Il sapore del primo bacio mi aveva deluso come un frutto che si assaggia la prima volta. Non è nella novità, ma è nell’abitudine che si provano i piaceri più grandi. Qualche minuto dopo, non solo ero abituato alla bocca di Marthe, ma non potevo neanche più farne a meno. E proprio allora lei parlava di privarmene per sempre” dice il ragazzo, e ciò dimostra come la sua psiche non segua una linea retta, ma prenda vie tortuose per poi arrivare a sentenze come la seguente: “Dopo la volgarità dei miei primi desideri, mi ingannava la dolcezza di un sentimento più profondo. Cominciavo a rispettare Marthe perché cominciavo ad amarla”. L’amore viene quasi subito ricambiato da lei, anche alla luce di un fidanzato Jacques che non la assecondava sempre, una sorta di “matrimonio di convenienza”: per assurdo l’amore del protagonista inizia invece a scemare, dopo una impennata iniziale, durante il corteggiamento, per poi insinuarsi nelle pieghe della mente di un ragazzino di dodici anni, più maturo della sua età, ma che in ogni caso deve fare i conti con “l’etichetta” dell’epoca: al paese di Marthe ormai tutti non la salutano più, lo scandalo di questo amore è ormai trapelato. Trapelato a tutti tranne che alla famiglia di lei, che saprà solo alla fine. I due protagonisti insomma si muovono su una lastra di ghiaccio: il loro dirompente amore deve sopportare, oltre al peso dello scandalo, anche quello forse più angoscioso della guerra. O meglio, della pace. Il loro amore sarebbe finito con il ritorno di Jacques, alla fine della guerra?

A questa domanda sarà impossibile rispondere. Dopo quasi un anno, quindi alla conclusione di questa storia, Marthe aspetterà un bambino: i dubbi del giovane protagonista ora sono atroci. Marthe gli ha mentito o no? Non aveva detto che quindici giorni prima del loro incontro, aveva trascorso un giorno con Jacques? Questi dubbi vengono spazzati dall’amore che il giovane padre ora prova nei confronti del figlio: gli sembrerà ora di dividere il suo amore tra Marthe e il figlio. La strada per diventare adulti è ormai avviata. Jacques, che come un fantasma si è aggirato per tutta la durata della storia, comparirà solo alla fine, quando Marthe morirà a causa degli sforzi del parto, dal momento che questo è avvenuto con due mesi di anticipo. Jacques tuttavia non incontrerà mai la persona che la sua promessa sposa ha amato davvero, ma potrà dare un futuro alla creatura che gli ha lasciato. Anche il giovane amante, nelle pagine conclusive del romanzo, sembra felice per l’epilogo di questa storia: “Capii che, alla lunga, l’ordine si dispone da solo nelle cose”, sono infatti le sue ultime parole.

Radiguet cerca un modo valido per dominare la vicenda che racconta, dandoci l’impressione di aver dato vita ad un’opera non spontanea, la quale però mette le distanze tra l’età in cui gli adolescenti vivono ancora l’amore in maniera idealistica e quella in cui si vive questo sentimento in maniera più concreta, facendone un’esperienza dolorosa.

Molte interpretazioni a questa opera fanno prevalere il profilo egoistico di entrambi gli amanti, giudicando l’autore come un “Proust più egoista”: quello che forse il giovane autore ha voluto dirci attraverso queste pagine, forse rendendosi anche conto della malattia che lo consumava, probabilmente è che una forza come l’amore deve fare i conti con tanti aspetti del mondo che abbiamo dentro e anche  di quello che sta fuori, ma che, alla fine dei conti, sembra arrendersi sotto i colpi di qualcos’altro ancora che risulta impossibile controllare da soli.

Il critico Giacomo Debenedetti probabilmente ci ha fornito una delle definizione più acute e giuste dell’opera dello scrittore francese: “Nel Diavolo in corpo, tutto l’adulterio si atteggia come la vertigine scoperta e celebrazione dell’amore, compiuta in uno “stato di natura” anteriore alla scoperta del peccato”.

 

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