Octavio Paz, premio Nobel messicano 1990: quando la riflessione politica si compone in versi e la poesia diviene contemplazione purificando le nostre percezioni

E’ commovente la riflessione politica di Octavio Paz che si compone in versi nelle sue opere, a difesa della cultura. «Quando una società si corrompe, a imputridire per primo è il linguaggio. La critica della società inizia quindi con la grammatica e il ristabilimento dei significati». E’ chiaro che la parola appare al poeta messicano come l’unico antidoto alla tecnica, rimedio necessario per rimarcare costantemente, attraverso una sofisticata critica, la modernità globale, la quale non si misura dai progressi dell’industria, ma dalla capacità di autocritica che permette di interiorizzare i cambiamenti ancor prima di farli nostri.

L’immagine non può essere spiegata concettualmente, deve essere ricreata come una comunione poetica tanto da risultare simile all’esperienza religiosa, nondimeno alla magia. L’uomo ha la possibilità di vivere, nel momento poetico, una sorta di rapimento, una epifania estatica che è fondamentale per il recupero di un’esistenza autentica. Octavio Paz, scrittore, poeta e saggista latinoamericano, utilizza molti modi per scrivere di tale esperienza, parlando di alterità e partecipazione. L’estetica paziana recupera oltremodo, attraverso il pensiero di Bergson e Ortega y Gasset, la dimensione del tempo e del senso della vita mediante la poesia. Concilia i contrari, l’affermazione con la negazione, giacché disvela la tirannia più feroce, mascherata a libertà, per mezzo dell’immaginazione poetica. Octavio Paz si avvicina letterariamente a Pessoa, a Quevedo e ad Ortega, sceglie di dialogare con Othón Salazar ed il suo movimento di maestri dissidenti; dialoghi che illuminano una civilizzazione, la sua.

Octavio Paz nasce a Città del Messico quando il paese è in piena lotta rivoluzionaria, nel 1914, l’anno della Grande Guerra che da inizio al Secolo breve, e si spegne nove anni dopo la caduta della Cortina di Ferro. E’ un uomo del suo secolo, intellettuale che ha dedicato la propria vita ad analizzare i molti spigoli storici, sociali e, dunque, anche politici che delineavano il suo presente. Dal tempo della giovinezza, Octavio Paz ha scritto di letteratura, arte, politica, storia e persino di antropologia. Ha permesso il dialogo tra poesia e società, portando in seno la tradizione letteraria messicana che mai lo ha abbandonato, colorando i suoi scritti di modernità e avanguardia artistica. Ha sempre inteso la poesia come quell’altra voce in grado di sovvertire i cliché del commercio, della politica e del giornalismo, poiché era davvero un discendente di quei romantici e di quei surrealisti che avevano come missione lo sconvolgimento delle abitudini del pensiero borghese, come ad esempio il suo mentore, André Breton. Appassionata è la critica alla società moderna, quella società di mercato ove l’economia è la parte visibile della merce, il frammento percettibile di una realtà in cui sono le cose a praticare l’umanità per mezzo degli uomini, relegati a parte invisibile, in silenzio. Un mondo che vede l’uomo confinato in un unico dormitorio abitato da anime compranti, consumatori e di prodotti e di tempo.

La parola, dunque, icastica arma che permette di confrontare la politica e, vocazione ancora più nobile, di difendere la libertà. Bisogna «fare, abitare le parole».

Dire: fare

Idea palpabile,
parola
impalpabile:
la poesia
va e viene
tra ciò che è
e ciò che non è.
Tesse riflessi
e li stesse.
La poesia
semina occhi nella pagina,
semina parole negli occhi.
Gli occhi parlano,
le parole guardano,
gli sguardi pensano.
Udire
i pensieri,
vedere
ciò che diciamo,
toccare
il corpo dell’idea.
Gli occhi
si chiudono,
le parole si aprono.

Abbiamo creato un mondo dove le più importanti fonti di paura tra gli esseri umani non sono né calamità naturali né tantomeno punizioni divine: sono, malgrado, proprio altri esseri umani. Quando Octavio Paz riceve il Premio internazionale per la pace degli editori tedeschi nel 1984, pronuncia queste parole: «La violenza aggrava le differenze e impedisce alle persone di parlare e ascoltare». Chi legge Paz contempla poeticamente il mondo e, poi, lo nomina. «L’uomo, persino quello avvilito dal neocapitalismo e dallo pseudo socialismo dei nostri giorni, è un essere meraviglioso perché, a volte, parla. Il linguaggio è il marchio […] Attraverso la parola possiamo accedere al regno perduto e così recuperare gli antichi poteri».

Ebbene la poesia di Octavio Paz, quella poetica che è capace di purificare la nostra percezione e ci libera dai luoghi comuni della mente e del corpo, intensificando la nostra esperienza, non è fantasia, ma contemplazione. La sua posizione critica, in bilico tra tradizione e rottura, maturata dietro una lunga trincea analitica, costringe a prendere coscienza delle degradazioni dell’industrializzazione, quali, per esempio, l’avidità e il consumismo. Dopo tutto, egli era un moralista, pervaso da uno scetticismo che si intreccia con la saggezza orientale, l’erotismo e la sensualità.

Prima del principio

Rumori confusi, incerto chiarore.
Inizia un nuovo giorno,
è una stanza in penombra
e due corpi distesi.
Nella fronte mi perdo
In un pianoro vuoto.
Già le ore affilano i rasoi.
Ma al mio fianco tu respiri;
intimamente mia eppur remota
fluisci e non ti muovi.
Inaccessibile se ti penso,
con gli occhi ti tocco,
ti guardo con le mani.
I sogni ci separano
ed il sangue ci unisce:
siamo un fiume di palpiti.
Sotto le tue palpebre matura
il seme del sole.
Il mondo
non è ancora reale,
il tempo è dubbio:
solo il calore della tua pelle
è vero.
Nel tuo respiro ascolto
la marea dell’essere,
la sillaba scordata del Principio.

 

Octavio Paz, premio Nobel messicano per la letteratura nel 1990, è affascinato dalla politica. Tutto ha inizio durante le numerose contraddizioni che stavano fiorendo tra le élite intellettuali di Città del Messico ad inizio secolo, che le vedeva incerte tra la spinta europea e il richiamo, insistente, dell’appartenenza americana. Paz non si sottrae all’esigenza di assumere posizioni politiche radicali in questo scontro culturale, posizioni che cambieranno nel corso della sua vita. Attraverso la metafora del labirinto, una delle sue preferite, riflette sul motivo che spinge i messicani a sentirsi inferiori rispetto agli Stati Uniti al punto da restare intrappolati nella solitudine. E’ dal vuoto di identità del suo popolo che nasce una delle opere più belle, Il labirinto della solitudine (1950), in cui i suoi pensieri trovano collegamenti molto stretti con la nozione heideggeriana dell’esistenza autentica. Rimane inizialmente affascinato dall’ideologia comunista, ne prende gradualmente le distanze durante la guerra civile in Spagna, maturando una visione critica dell’Unione Sovietica e delle sue strategie interne e in politica estera.

L’ideologia e, conseguentemente, la politica di Stalin, ha creato nel poeta l’esigenza di modellare una nuova filosofia politica che coinvolgesse quei concetti a lui molto cari, di libertà, fraternità e uguaglianza. Fuori dal coro, critica coraggiosamente i fondamenti ideologici del comunismo russo — e per estensione quello dei partiti comunisti di Cina e Cuba — tanto quanto si impegna nella critica all’imperialismo americano. Nel 1968 la lotta sociale diverrà per lui fondamentale e necessaria a seguito del massacro di Plaza de Tres Culturas, teatro di una cruenta repressione esercitata dal governo messicano durante le Olimpiadi per soffocare le proteste degli studenti.

«La memoria —scrive —non è ciò che ricordiamo, ma ciò che ci ricorda».

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

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