Olimpiadi di Tokyo 2020. L’Italia che corre più veloce e salta più in alto

I 100 metri piani sono la specialità più sublime delle Olimpiadi, la gara regina, perché tutto si gioca in un attimo, il duro allenamento e i sacrifici trovano la loro manifestazione sulla pista rossa che pare avere le sembianze della Terra Promessa.

Ma la terra promessa, la beatitudine si raggiunge proprio nel Giorno del Giudizio; lo stesso giorno, quando l’infinito e l’immortalità si concentrano in movimenti perfetti, in muscoli scintillanti.

In questo giorno psiche e turbamento si fondono nel fisico alchemico dell’atleta che ha fatto del suo corpo strumento di lavoro, perché noi siamo corpo. Il corpo modellato perché ogni microscopico muscolo è un perla rara da donare al vento, alla corsa, agli applausi, ai flash dei fotografi, alla rivoluzione delle statistiche e dei primati.

Stavolta a trionfare alle Olimpiadi, nei 100 m non è stato un americano o un jamaicano, bensì un italiano, di origine texana, dal sorriso disarmante e padre, a 26 anni di tre figli. Il suo nome è Lamont Marcell Jacobs che insieme al marchigiano Gianmarco Tamberi, 28 anni (oro nel salto in alto), hanno regalato all’Italia una grande impresa.

L’Italia che faticava a trovare l’oro ai Giochi di Tokyo è anche quella delle prime volte sorprendenti e memorabili. L’altra faccia del medagliere, nel quale gli azzurri non sono ancora alle posizioni del passato, racconta una verità finora passata sottotraccia e portata ora alla ribalta dal lampo di Marcell Jacobs, splendido campione olimpico sui 100 metri, cosa mai vista anche ai tempi di Berruti e Mennea, e di Tamberi, oro ex aequo nel salto in alto. Un’impresa mai compiuta da atleti azzurri alle Olimpiadi in una domenica del primo mese di agosto che rimarrà nella storia dello sport.

L’uomo che corre e l’uomo che si alza più alto. Il primo è una falena che si dimentica di se correndo, illuminato all’improvviso, pronto a scoppiare in un lampo, il secondo vuol sentirsi mancare la terra sotto i piedi, magari indietreggiando prima di compiere il gesto che lo renderò immortale. Perché indietreggiare è pensare prima di buttarsi, è vivere, e lo si fa per saltare meglio.

Questi cavalieri dell’atletica mentre saltano e mentre corrono probabilmente hanno già vinto perché si avventurano laddove il cielo e la terra non sono divisi. C’è stata divisione di oro invece, per il salto in alto, due atleti reduci dallo stesso infortunio che hanno entrambi meritato di salire sul gradino più alto del podio e deciso di non andare allo spareggio, ma di abbracciarsi e condividere la medaglia più importante.

Che non ci sia qualcosa di zen e apocalittico nell’atletica?

 

Quando a Roma arrivarono le Olimpiadi

DCLXXXVIII ab Urbe condita (688 anni dalla fondazione di Roma).
Si era al crepuscolo. La grande palla infuocata condotta dal carro apollineo si andava ormai spegnendo nel limpido fiume intorno al quale la città si era insediata e si era espansa, incendiando di giallo croco e di rosso porpora il travertino dei palazzi pubblici.

Entro uno di essi, il più sontuoso, protetto da una stanza un po’ fuori mano, in un’ala esterna, congegnata apposta per dare luogo agli incontri meno ufficiali lontano da occhi e orecchi indiscreti, l’imperatore attualmente in carica andava esaminando alcuni documenti. Conclusane via via la lettura, che sembrava trasmettergli una particolare soddisfazione, si sbrigava a bruciarli sospendendone un angolo proprio sopra la fiammella della candela di sego che aveva davanti a sé, ben attento che il fuoco appiccasse.
Lucio Domizio Enobarbo, in arte Nerone, era stato il primo a intravvedere la cornucopia di entrate che si doveva nascondere dietro i giochi olimpici, e ora, per il secondo anno, ne stava segretamente prelibando gli attesi frutti.

Le prime Olimpiadi di Roma: le Neroniane

Quando i capostipiti Romolo e Remo erano ancora intenti a sminuzzare una pelle vaccina e stendere torno torno le striscioline che ne erano venute fuori in modo tale da segnare i confini perimetrali della nuova città, la civiltà greca era già così avanti che da più di vent’anni ormai i suoi campioni gareggiavano ignudi nei giochi che si disputavano a Olimpia, lottavano, s’accapigliavano, tiravano giavellotti e dischi, si rincorrevano e si sbracciavano dentro le piscine col solo intento di primeggiare e raccattare onori e plausi.
Ma ci voleva un italiano per pensare di lucrarci sopra, anziché attenersi unicamente all’originale spirito agonistico. E siccome, anche se era l’imperatore, a Nerone non volevano concedere di spostare i giochi olimpici in altra sede, lui, glieli aveva copiati pari pari, organizzandoli però a Roma e zone circonvicine, e rinominandoli autopromozionalmente le “Neroniane”.

Con la scusa della novità, Nerone fece costruire a Roma ponti, strade, strutture, circhi, piste e stadi per ogni disciplina, commissionandoli ad amici fidati, ai quali già allora aveva assegnato i lavori presumibilmente convinto da qualche pesante regalia, insieme a promesse di spartizione dei profitti che ora gli si stavano concretizzando davanti agli occhi. L‘urbe era condita, appunto: quel tanto che bastava per mangiarsela a quattro palmenti già ai tempi. E il buon Nerone conosceva il giusto giro di commensali che sapessero quanta parte di banchetto… lasciare all’ospite.

Il trogolo era stato allargato per farvi accedere quanti più amici si potesse: mercanti e commercianti di pelli, tessuti e vestiti, privati addetti alla pulizia delle pubbliche strade, osti, grandi finanziatori (che davano prestiti con interessi da usura), ministri di culto, fornitori delle grandi derrate alimentari, imprese edili, avvocati e giudici, senza scordarsi senatori e rappresentanti del popolo. Così facendo Nerone si era astutamente assicurato un appoggio vastissimo. Anzi, tutti costoro, in alleanza coi molti tifosi che rappresentavano la gran parte della cittadinanza di Roma, non facevano che supportare e incalzare l’imperatore affinché nuove Neroniane si tenessero ancor prima della prevista scadenza quinquennale.
Nerone stava fregando tra loro le mani ben curate quando sentì la porta alle sue spalle aprirsi di schianto, lasciando entrare uno spiffero freddo che corse a giocare coi riccioli che ancora gli rimanevano, a comporgli una coroncina intorno alla testa calva. Neppure si voltò, sapeva già chi fosse senza dover guardare.
«Ave Cesare!» sentì riecheggiare contro le pareti marmoree del piccolo andito, «Che vai facendo?» aggiunse la vecchia voce. «Guadagno», rispose evasivo Nerone, che già era passato a contare le monete, molte di esse con sopra la sua effigie in rilievo, che tracimavano da un grosso baule, poco prima depositato là dentro da due energumeni inviati in gran segreto da alcuni dei suoi “amici”, coinvolti negli affari olimpici, godendo del loro tintinnio ancor più che del suono che usciva dalla sua lira, quando ci si accompagnava durante i certami poetici. Neppure stavolta si voltò, ben presagendo l’espressione di biasimo che avrebbe riscontrato sul volto rugoso di quel vecchio stoico di Seneca. «Il bene comune dovrebbe essere l’unica tua cura!» lo rimbrottò Seneca, aggiustandosi indispettito la manica del pallium sopra l’avambraccio. «Non mi occorrono stupide prediche. Io sono il dio che governa le genti e le robe di Roma. Sono il caput del Caput Mundi. Come insegnano i tuoi vuoti sillogismi, sono perciò l’essere più importante al mondo. Che me ne fa quindi dei tuoi rimproveri? Saprò bene io quel che è giusto e quel che non lo è…», gridò, tacitando il filosofo, ma stavolta dopo avergli fatto l’onore di rivolgersi al suo indirizzo, «Piuttosto, non ho tempo da perdere, per quale ragione sei venuto a importunarmi?»

«La mia accademia,» spiegò Seneca, a mezza bocca, con l’occhio ancora accigliato, «Quelle elargizioni che erano state a suo tempo promesse per il suo mantenimento…»
Nerone non fece una piega. Afferrò un sacchetto, lo affondò nel forziere come si intinge il mestolo in un liquido. Lo risollevò che era pieno di monete. Ne strinse il laccio.
«Vedi? Guadagno anche per te» fece verso Seneca, con voce da gradasso, mentre gli tirava il bottino, che l’altro raccolse al volo, come un cane fa con l’osso.
«Per essere la voce della mia coscienza mi pare che tu scenda a compromessi un po’ troppo alla svelta…» lo congedò poi.

Seneca uscì nella fresca brezza della prima sera, mentre ancora finiva di assicurare il sacchetto alla cintola. Rimirò una volta ancora la bellezza di Roma, nel suo tripudio di colori caldi, la temperatura mite, il profumo di piante aromatiche nell’aria. Quella bellezza che sempre riusciva a rapire i suoi occhi, tuttora abituati alla bianca piattezza delle strade di Cordova, di cui era originario.
La città eterna, così bella e così corrotta! Come una vecchia puttana che celasse i molti morbi dovuti al mestiere dietro l’attraente maschera di una giovinetta innocente. Eppure, non c’era via di scampo per tentare di salvarla da quel destino immorale. Sarebbe valso le fatiche di uno stolido moralista che voglia recuperare un’etera all’onorabilità, rimanendo però lui invischiato dalla guasta vita della donnaccia.
Roma era questo: potere, corruzione, depravazioni, ignavia e puro degrado nascosti dietro una facciata fastosa.

Ci sarebbe voluto un movimento di cittadini onesti, sobri, integerrimi, capaci di preferire la felicità arrecata dal compimento della giustizia al triviale appagamento dei sensi, meditava appoggiando la spalla scoperta contro il muro portante del palazzo imperiale.
Anche quel movimento sarebbe stato facile preda delle temperie che da sempre e per sempre avrebbero afflitto la città, come una maledizione o una pestilenza inguaribile. L’unica maniera di scampare all’andazzo generale sarebbe stato rimanere sui propri convincimenti senza fuoriuscirne di un passo. Fermi. Fissi. Solidi. Inamovibili. Anche a costo della più assoluta immobilità, perché lì da quelle parti bastava anche solo una timida mossa per rischiare di mettere il piede in fallo e farsi travolgere.
La mancanza di ogni azione, paradossalmente, sarebbe stata la salvezza, risolse tra i fumi dei suoi pensieri.

Un movimento immobile, sorrise tra sé Seneca. Quel che in retorica si chiama un ossimoro: l’accostamento di due termini tra loro contrapposti. Mentre già il suo corpo scioglieva tutta la tensione muscolare nel fresco, piacevole venticello che spirava, come quasi ogni sera, giù dal Gianicolo, la sua mente fece ancora in tempo a celiare circa l’etimologia di quella parola d’origine greca, che quasi sembrava preannunciare il civis novus così concepito: ossimoro, da ὀξύς μωρός, come a dire… un acuto stupidone.

Ponte sullo Stretto e Giochi Olimpici: il futuro delle città e un nuovo spirito economico

Stiamo vivendo giorni confusi sospesi tra il no romano ai Giochi Olimpici ed un ritorno di fiamma per il progetto faraonico e un po’ fantascientifico del ponte sullo Stretto di Messina.
Entrambe le questioni, oltre a fornire il pretesto per una miriade di sterili polemiche, sono una occasione preziosa per discutere, finalmente, del futuro delle città e del nostro rapporto con l’ambiente.

Le città che conosciamo e viviamo quotidianamente sono state costruite per rispondere ad esigenze differenti rispetto a quelle dettate dal nostro contemporaneo. In altre parole viviamo in luoghi del passato il nostro presente e da qui pensiamo di poter costruire il futuro. Le città non hanno bisogno di un semplice adeguamento, ma di una vera e propria rivoluzione. Non si possono più concepire luoghi, che in realtà sono diventati nonluoghi a causa del progressivo deterioramento delle singole identità, che ospitano al loro interno milioni di persone interconnesse ma con crescenti incapacità relazionali.

Date queste premesse è ovvio che non è ipotizzabile uno sviluppo incentrato esclusivamente sulla estensione della superficie che conduce solo alla creazione di nuove periferie/ghetto. Occorre progettare un nuovo modello che vada esattamente nella direzione opposta, cioè incentrato sulla diffusione, capace di spezzare le densità dei centri con una maggiore integrazione con l’ambiente.
Non un semplice no al cemento, ma un nuovo patto con ciò che ci circonda in modo da limitare, per quanto possibile, l’impatto del nostro stile di vita che, inevitabilmente, dovrà essere ridimensionato.

Solo partendo da una riduzione ed un adeguamento degli spazi per le città sarà possibile adempiere alle funzioni brillantemente elencate da Lewis Mumford nel suo fondamentale volume La Città nella Storia: “la funzione principale di una città è di trasformare il potere in strutture, l’energia in cultura, elementi morti in simboli viventi di arte, e la riproduzione biologica in creatività sociale”.
In questo contesto il progetto del ponte sullo Stretto appare ancora di più come un’opera fuori dal tempo che ha un impatto terribile sull’ambiente e che procede in una direzione totalmente contraria a quella indicata da buonsenso.

Il no alle Olimpiadi del cemento, così come definite dalla Sindaca Virginia Raggi, e al ponte sullo Stretto di Messina non sono la rinuncia ad investimenti in grado di cambiare la situazione economica generale, ma semplicemente lo stop ad una azione speculativa che non avrebbe alcuna capacità di incidere al di fuori del breve periodo.
Se si vuole investire dei capitali per rilanciare l’economia si potrebbe cominciare dalle bonifiche delle aree che risultano devastate dallo scriteriato abbandono dei rifiuti e sulle troppe ‘terre dei fuochi’ con cui siamo ormai rassegnati a convivere.

La rivoluzione economica parte dalla capacità di non pensare più l’ambiente solo come mezzo, ma renderlo un protagonista attivo nello sviluppo dell’economia e del benessere collettivo.
Il passaggio dall’Homo Oeconomicus all’Homo Ecologicus non può però passare solo dall’investimento in interventi strutturali, è necessario puntare su formazione e cultura perché è da qui che nasce tutto. Tutto il resto è fuffa.

Olimpiadi: quando l’etica della sconfitta determina un vincitore

Gli occhi dei telespettatori in questo caldo mese di agosto sono tutti concentrati sulle Olimpiadi che, ogni quattro anni, aiutano a lenire la sensazione di sedentarietà tipica del nostro mondo sviluppato. Il medagliere, con l’immancabile corollario di entusiasmo in caso di vittoria e di delusione se il verdetto è una sconfitta, diventa l’argomento cardine delle chiacchiere da bar e con gli amici.

Il giudizio sulle prestazioni sportive delle Olimpiadi in corso, espresso per lo più da esperti improvvisati, è legato alle aspettative che si nutrono nei confronti di un atleta o una squadra. L’emblema, suo malgrado, delle delusioni sportive è diventata la nuotatrice Federica Pellegrini entrata in vasca medaglia d’oro ed uscita con al collo una medaglia di legno.

Ma se durante questa prima parte dei giochi estivi Federica Pellegrini, che è e rimane una campionessa che ha portato ad altissimi livelli il nuoto italiano, non avesse perso, come avrebbe fatto Emma McKeon ad aggiudicarsi il bronzo? La domanda può apparire superflua se il soggetto sconfitto non si chiamasse Federica Pellegrini, ma se sostituiamo il suo nome con quello di Andrea Murez, ultima tra le ultime, la prospettiva assume dei contorni diversi. Nello sport c’è chi corre per vincere e chi invece non ha alcuna possibilità di raggiungere quel traguardo. Eppure, la preparazione delle due categorie di atleti è la stessa consudore, lacrime, sorrisi, sofferenze e tanto lavoro quotidiano che si concretizzano per sicuri sconfitti nel futuro oblio.

Perché il mito dello sport possa diventare tale è necessaria la presenza di una schiera di sconfitti. Il meccanismo che si innesca tra vincitori e vinti ricorda molto da vicino quello raccontato da Hegel nel rapporto tra servo e padrone. Nel racconto hegeliano il signoresi pone al di sopra dell’uomo che è divenuto suo servo ma, essendo questi essenziale con i suoi servigi per la sopravvivenza del signore, riesce a ribaltare la subordinazione.

Proviamo ad immaginare se tutti coloro che non hanno alcuna possibilità di ottenere una vittoria si ritirassero, se, ad esempio, nel campionato di calcio tutte le squadre che non sono all’altezza della Juventus (e del suo potere) dovessero rifiutarsi di giocare, cosa accadrebbe?

Certamente i più forti restano superiori, ma rispetto a chi? Quale diventa il termine di paragone per determinare la forza? I perdenti, nello sport come nella vita, consentono ai vincitori di primeggiare e di ottenere riconoscimenti che senza la loro presenza non otterrebbero mai.

Ma siamo poi sicuri che l’obiettivo di tutto possa essere soltanto la vittoria?

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