In morte di Elsa Martinelli, tra ironia ed eleganza

“Nessun rimpianto. Certo mi piacerebbe essere ancora a cena con Orson Welles, parlare con John Wayne, salutare John Kennedy in pigiama sulla porta di una casa di Palm Springs all’alba, ma non si può fare. Il passato non torna. E non mi dispero”. E’ stato un piacere conoscere Elsa Martinelli, scomparsa lo scorso 8 luglio nella sua casa romana a ottantadue anni, e un onore usufruire del suo garbato e incuriosito consenso: tra i punti fermi tramandati da un brillante curriculum di attrice, modella, stilista, giornalista, protagonista del jet set non risultano, del resto, preponderanti quelli del rapporto privilegiato con i critici o dell’attenzione dedicatale dalle storie del cinema. La sua personalità, peraltro, irradiava un fascino speciale per ragioni forse più profonde: fotogenica, elegante, raffinata, colta e non a caso soprannominata la Audrey Hepburn nostrana, ha visto riconosciute molte di queste vocazioni diverse e ha perseguito con affabile testardaggine tanto gli obiettivi professionali quanto quelli esistenziali, ma soprattutto ha impresso la sua impronta più duratura al di là della labile superficie mediatica incarnando una delle storie esemplari dell’Italian Dream del dopoguerra.

Nata a Grosseto nel gennaio del 1935 settima di otto figli e trasferitasi a nove anni insieme all’intera tribù familiare a Roma, dove il padre ex contadino era stato assunto come usciere delle Ferrovie, Elsa Martinelli studia sino alla quinta elementare, ma poi sceglie di darsi da fare lavorando come commessa o cassiera. Il fisico longilineo, l’eleganza naturale distribuita in un metro e 76 d’altezza e lo spiazzante sex-appeal non possono, peraltro, che predisporle un destino glamour: entrata in una boutique di via Frattina per comprare una gonna incontra Roberto Capucci che, invaghitosene all’istante, l’ingaggia come indossatrice e la lancia nell’alta moda come icona del nuovo tipo di fisicità (l’ombelico fuori dai jeans, la frangetta, il trucco quasi inesistente) antitetico ai crismi della bellezza femminile dell’epoca. Anche l’ingresso nel cinema avviene in modo fiabesco e in un percorso contrario a quello tipico di tante illustre colleghe: dopo avere recitato in “L’uomo e il diavolo” di Autant-Lara (1954), appare a sorpresa sulla copertina di “Life”, Kirk Douglas la nota, la impone al regista De Toth e la vuole a tutti costi accanto a sé sul set dell’ottimo western “Il cacciatore di indiani”.

Ormai sbocciata al sole di Hollywood, Elsa Martinelli può proseguire una carriera che alla fine viaggerà su una settantina di titoli: senza rinunciare alle sue caratteristiche indelebili – il volto da dea androgina, il sorriso enigmatico, la voce roca e sensuale alla Dietrich, il portamento altero e le gambe interminabili- e alternando in scena e in privato atteggiamenti da vamp e grinta da maschiaccio, travalica i ghetti dell’Italietta approssimata degli anni Cinquanta e di quella sfrenata dei Sessanta dimostrandosi a suo agio in film che, come accadeva in quei tempi benedetti per la potenza mitopoietica della settima arte, sono firmati da registi della caratura più eclettica e offrono allo spettatore una gamma variegata d’immedesimazione “alta” o “bassa” che dir si voglia. Da “Donatella” di Monicelli, che le fa vincere uno dei rari premi togati come migliore attrice al festival di Berlino del 1956, a “La risaia” di Matarazzo che fa il verso pop al neorealistico “Riso amaro”; dal disimpegnato “Costa Azzurra” all’impegnato “La notte brava” di Bolognini; dallo struggente “Un amore a Roma” di Risi in licenza poetica dalla commedia all’instant movie ingenuamente osé “I piaceri del sabato notte” di D’Anza; da prodotti internazionali di giustificata ambizione come “Il sangue e la rosa” di Vadim, “Hatari!” del grande Hawks, ”Il grande safari” di Karlson e Hathaway, “La calda pelle” di Aurel e soprattutto “Il processo” (1962) di Welles ai ruoli più che dignitosamente eseguiti in film italiani provocatori e fuori standard come “La decima vittima” di Petri, “L’amore attraverso i secoli” di Bolognini, “L’amica” di Lattuada e “Una sull’altra” del sabotatore misconosciuto Lucio Fulci.

Nell’autobiografia del ’95 Sono come sono. Dalla Dolce vita e ritorno Elsa Martinelli non sforna scoop, ma spicca per l’insolita credibilità: sposata col conte Franco Mancinelli da cui nel 1958 ha l’unica figlia Cristiana, divorziata e risposatasi col fotografo e designer Willy Rizzo, rievoca con inconfondibili tonalità ironiche e autoironiche viaggi esotici, party mondani, rentrée con o senza premi in festival internazionali, allude senza remore a un numero imprecisato di serate di champagne e passione con spasimanti del calibro di Cooper e Sinatra, sottolinea come la sete di novità la porta a distaccarsi precocemente dal cinema per incidere un disco, cimentarsi come presentatrice al festival di Sanremo, scrivere reportage non banali, concedersi alla tv o esibirsi in cammei di lusso in fiction di grande audience. Nel 2005 riconquista un nuovo pubblico interpretando una perfida duchessa nella miniserie tv “Orgoglio”: ma è una performance all’acqua di rose paragonandola alle soavi stilettate che ha inferto a Bardot, De Laurentiis, Monicelli, Rosi e finanche Craxi nelle ultime interviste fedeli al suo stile di tagliente sincerità.

 

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In memoria di Elsa

Narrazione e stile in “Quarto Potere” di Orson Welles

“Soffre di gigantismo, di pedanteria, di tedio. Non è intelligente, è geniale: nel senso più notturno e più tedesco di questa parola”. Sono le parole quanto mai azzeccate, del grande scrittore Jorge Luis Borges a proposito del capolavoro firmato da Orson Welles, Quarto potere (Citizen Kane), del 1941.

Quarto potere narra della straordinaria carriera di Charles Foster Kane, magnate della stampa scandalistica ed erede di una colossale fortuna, candidato politico battuto e infine, bislacco marito di una falsa cantante lirica, per il cui successo spende un patrimonio, ma inutilmente. Ritiratosi nel castello da favola di Xanadu, muore in solitudine, pronunciando una parola di cui nessuno comprende il significato: “Rosebud”. Un giornalista cercherà di scoprirne il significato, indagando nell’ infanzia di Kane e intervistando suoi amici e dipendenti. Da sempre in testa alla lista dei 10 migliori film del mondo, Quarto potere ha avuto 8 nominations agli Oscar: film, regia, Welles attore, fotografia, musica , scene, montaggio, ma ha vinto solo quello della sceneggiatura (Herman J. Mankiewicz, O. Welles).

Orson Welles ha rivoluzionato la calligrafia tradizionale, riassumendo in un solo film tutte le esperienza tecniche e artistiche ai fini della sua riflessioni sul capitalismo nordamericano e sulla caduta del sogno americano di cui Kane è l’emblema. Ciò che è importante prendere in considerazione è lo stile di questo masterpiece e come spiegano Bordwell e Thompson in Cinema come arte, teoria e prassi del film, scopriamo così che il film è organizzato come una ricerca: il giornalista Thompson è una sorta di investigatore che cerca di trovare il significato dell’ultima parola pronunciata da Kane prima di morire; l’inizio del film genera un mistero: dopo che una dissolvenza d’apertura ha rivelato il cartello di divieto d’ingresso nella proprietà, la macchina da presa oltrepassa alcune cancellate per poi indugiare sulla grande tenuta, mentre la casa (che in realtà consiste in una serie di dipinti combinati con la tecnica matte con i modellini tridimensionali ripresi in primo piano), resta sempre sullo sfondo. Il film, dominato da una luce fosca e una musica funerea, è attraversato da un’atmosfera sovrannaturale propria dei racconti del mistero.

La macchina da presa continua a muoversi verso le cose potrebbero rivelare i segreti della personalità del magnate Kane, seguendo uno schema di penetrazione nello spazio e di ingresso graduale nella storia, creando suspence e curiosità nello spettatore. Nei flashback, Welles evita il montaggio alternato, girando in piani sequenza lunghi e statici, limitandosi a mostrare ciò a cui hanno potuto assistere i partecipanti della scena. Welles si avvale di una fotografia focale profonda, la quale produce una prospettiva esterna sull’azione, rinunciando agli stacchi di montaggio, usando la messa in scena nello spazio profondo e il suono.

La narrazione di quarto potere colloca in contesti più ampli le visioni oggettive dei narratori: l’inchiesta di Thompson si riferisce a diversi racconti e noi sappiamo quanto ne sa lui, ma il protagonista del film è e rimane Kane; attraverso l’uso del chiaroscuro, Thompson viene reso irriconoscibile: volta le spalle allo spettatore e di solito è al buio in un angolo. Tutto questo per rendere il giornalista un investigatore neutrale. Tuttavia tale indagine giornalistica è posta in una narrazione onnisciente come si può subito notare dalla sequenza di apertura di Xanadu: quando entriamo nella camera del moribondo Kane, “lo stile suggerisce di tuffarsi nella mente dei personaggi”. In questo modo abbiamo una visione soggettiva delle cose.

Osservando lo sviluppo narrativo di Quarto potere, possiamo notare come Kane da giovane idealista si trasformi nel corso della vita in un uomo solitario, senza amici. Questo contrasto è visibile nella messa in scena  e in particola modo negli allestimenti degli uffici di Xanadu e nella redazione dell’ “Inquirer”. La transizione dalla vita del protagonista all'”Inquirer” alla reclusione finale a Xanadu è anticipata da un cambio di messa in scena all'”Inquirer”, mentre Kane è in Europa, le statue che spedisce in patria iniziano a riempire il piccolo ufficio e ciò indica la crescente ambizione di Kane. Ma quando le ambizioni politiche vengono spazzate via, il magnate cerca di sostituirle creando una carriera pubblica per la moglie, priva di talento artistico.

Quella del cinegiornale è una sequenza fondamentale, in quanto funge come una sorta di mappa degi fatti dell’intreccio; in primo luogo il regista ci fa credere che si tratta davvero di un cinegiornale per stabilire il potere e la ricchezza di Kane, usando diverse tecniche per ottenere l’aspetto e il suono di un cinegiornale dell’epoca: la musica è quella dei cinegiornali, e le didascalie ne sono una convenzione.

Un altro importante aspetto da rilevare in Quarto potere è il modo in cui l’intreccio manipola il tempo storico: il passaggio dal presente del narratore agli eventi passato che spesso racconta è intensificato da uno stacco “traumatico” che crea una contrapposizione stridente come dimostrano l’inizio del cinegiornale dopo la sequenza del letto di morte o il passaggio dalla pacata conversazione  nella sala di proiezione del cinegiornale ai tuoni e fulmini fuori dal nightclub El Rancho. Anche la musica rafforza lo sviluppo dello sequenza: la cena iniziale è accompagnata da un valzer; ad ogni passaggio, la musica cambia, ad esempio la scena finale, dominata dal silenzio della coppia, è accompagnata da una lente e lugubre variazione del tema iniziale. Vi sono diversi motivi musicali: quello associato al potere di Kane, il modo in cui l’arredamento della stanza della cantante Susan rivela il comportamento di Kane nei suoi confronti, le foto che si animano e le sovraimpressioni durante le sequenze di montaggio.

 

 

 

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