Il linguaggio impoverito- Parole di plastica

Il QI (Quoziente Intellettivo) medio della popolazione mondiale, che dal dopoguerra alla fine degli anni ’90 era sempre aumentato, nell’ultimo ventennio è invece in diminuzione. È l’inversione dell’effetto Flynn.

Sembra che il livello d’intelligenza misurato dai test diminuisca nei paesi più sviluppati. Molte possono essere le cause di questo fenomeno. Una di queste potrebbe essere l’impoverimento del linguaggio.

Diversi studi dimostrano infatti la correlazione tra la diminuzione della conoscenza lessicale e l’impoverimento della lingua: non si tratta solo della riduzione del vocabolario utilizzato, ma anche delle sottigliezze linguistiche che permettono di elaborare e formulare un pensiero complesso.

La graduale scomparsa dei tempi (congiuntivo, imperfetto, forme composte del futuro, participio passato) dà luogo a un pensiero quasi sempre al presente, limitato al momento: incapace di proiezioni nel tempo. La semplificazione dei tutorial, la scomparsa delle maiuscole e della punteggiatura sono esempi di “colpi mortali” alla precisione e alla varietà dell’espressione.

Solo un esempio: eliminare la parola “signorina” (ormai desueta) non vuol dire solo rinunciare all’estetica di una parola, ma anche promuovere involontariamente l’idea che tra una bambina e una donna non ci siano fasi intermedie. Meno parole e meno verbi coniugati implicano meno capacità di esprimere le emozioni e meno possibilità di elaborare un pensiero.

Gli studi hanno dimostrato come parte della violenza nella sfera pubblica e privata derivi direttamente dall’incapacità di descrivere le proprie emozioni attraverso le parole. Senza parole per costruire un ragionamento, il pensiero complesso è reso impossibile. Più povero è il linguaggio, più il pensiero scompare.

La storia è ricca di esempi e molti libri (Georges Orwell – 1984; Ray Bradbury – Fahrenheit 451) hanno raccontato come tutti i regimi totalitari hanno sempre ostacolato il pensiero, attraverso una riduzione del numero e del senso delle parole.

Come l’impoverimento del nostro linguaggio e del nostro pensiero sia subordinato a precise esigenze politico-economiche, è messo in luce da un famoso linguista contemporaneo Uwe Pörksen che ha elaborato il concetto delle ‘parole di plastica’. Nel suo testo “Parole di plastica – La neolingua di una dittatura internazionale“, evidenzia la degenerazione del linguaggio nelle società industrializzate della seconda metà del Novecento. Pörksen nota che alcuni termini (le parole di plastica o parole-ameba) sono entrati a far parte del linguaggio comune, perdendo il loro significato denotativo e acquisendo una grande varietà di connotazioni. (Ricordiamo che ogni vocabolo si caratterizza per la sua denotazione, cioè il significato esplicito di ciò a cui si riferisce e per la sua connotazione, ovvero il significato implicito determinato dalla sua carica emotiva.

La denotazione è quindi un concetto relativamente stabile sul quale tutti i parlanti sono d’accordo, mentre la connotazione può variare a seconda del contesto, della persona, della cultura, della situazione in cui il vocabolo viene usato). Un’immagine efficace della differenza tra denotazione di una parola e connotazioni ad essa associabili l’ha data la linguista Beatriz Garza, che paragona la denotazione, ovvero la designazione della cosa, alla prima onda che si forma quando si getta un sasso nell’acqua e la connotazione, che designa le sensazioni, le valutazioni, le associazioni inerenti alla cosa, a tutte le onde successive. Secondo Pörksen, le parole di plastica “sembrano consistere solo nelle connotazioni che si allargano in cerchi concentrici, mentre il sasso e la prima onda sono scomparsi.”

Proprio per questa mancanza di una denotazione precisa, le parole di plastica costituiscono – a suo parere-  una “neolingua”, di orwelliana memoria, funzionale al potere e che impedisce la formazione di un pensiero critico, dato che sono intercambiabili e con esse si possono creare frasi che sembrano avere un senso, ma non ne hanno nessuno. Ma quali sono le parole di plastica? Ecco alcuni esempi:  “sviluppo, sessualità, relazione, comunicazione, bisogno fondamentale, ruolo, informazione, produzione, materia prima, risorsa, consumo, energia, lavoro, partner, decisione, management, service (servizi), assistenza, educazione, progresso, problema, pianificazione, soluzione, funzione, fattore, sistema, struttura, strategia, capitalizzazione, contatto, sostanza, identità, crescita, welfare, trend, modello, tenore di vita, modernizzazione, processo, progetto, centro, futuro”. Possono sembrare parole innocue, ma vengono usate più e più volte da esperti – politici, professori, funzionari aziendali e pianificatori – per spiegare e giustificare i loro piani e progetti ottenendo un consenso collettivo, senza che il senso reale dei loro discorsi sia chiaro.

Se non esistono pensieri, non esistono pensieri critici. E non c’è pensiero senza parole. Come si può costruire un pensiero ipotetico-deduttivo senza il condizionale? Come si può prendere in considerazione il futuro senza una coniugazione al futuro? Come è possibile catturare una temporalità, una successione di elementi nel tempo, siano essi passati o futuri – e la loro durata relativa – senza una lingua che distingue tra: ciò che avrebbe potuto essere; ciò che è stato; ciò che è; ciò che potrebbe essere; ciò che sarà dopo che; ciò che sarebbe potuto accadere è realmente accaduto?

Cari genitori e insegnanti: facciamo parlare, leggere e scrivere i nostri figli, i nostri studenti. Insegnare e praticare la lingua nelle sue forme più diverse. Anche se sembra complicata. Soprattutto se è complicata.

Perché in questo sforzo c’è la libertà.

Coloro che affermano la necessità di semplificare l’ortografia, scontare la lingua dei suoi “difetti”, abolire i generi, i tempi, le sfumature, tutto ciò che crea complessità, sono i veri artefici dell’impoverimento della mente umana.

Non c’è libertà senza necessità. Non c’è bellezza senza il pensiero della bellezza.

 

Fonte

PIÙ POVERO È IL LINGUAGGIO, PIÙ IL PENSIERO SCOMPARE

‘Fiorirà l’aspidistra’ di George Orwell. Quando un nobile sogno diviene ossessione

Il sogno di una vita serena, con una pianta di aspidistra alla finestra, e la difficoltà di raggiungerlo, è questa in estrema sintesi la trama del romanzo del 1936 “Fiorirà l’aspidistra” (edizione italiana nel 1960) di George Orwell, che è una dura critica alla società capitalista: l’ossessione per i quattrini, visti come unico motore del mondo, che porta il protagonista Gordon all’abbrutimento totale.

Il romanzo di Orwell è attuale oggi come allora. Delinea i tratti senza tempo di ricchi e poveri; di chi i soldi li ha e di chi li desidera con tutto se stesso, tramutandoli in un’ossessione distruttiva. È un libro che richiede tempo per essere letto, digerito e compreso.

Gordon Comstock non è come tutti gli altri. Anche se mi rendo conto quanto nessuno, in fin dei conti, si senta mai “come gli altri”. Si crede sempre, specie in giovane età, d’essere diversi. Di avere quella luce, li, fissa negli occhi, a differenziarci da tutti gli altri. Ma la maggior parte, ahimè, crescendo, si arrenderà al fatto che in fondo si è un po’ tutti simili.

Gordon, invece, diverso lo è davvero.

Si dimena, scalcia, grida forte nella sua diversità, a tal punto che le persone che gli vogliono bene, come la sorella o la fidanzata, a un certo punto si arrendono nel ripetergli di quanto sia sicura e percorribile la “normalità”. Quella normalità che insegue il denaro ed è succube del buon posto di lavoro con tutte le sue catene ben fissate alla scrivania di quel minuscolo ufficio. Per Gordon la vita è un equazione semplice. Se hai i soldi hai tutto, e se non dovessi averli, scordati pure le attenzioni della gente o l’amore delle donne. Tutto e tutti cercheranno di mantenere le distanze da te evitandoti.

Per quanto Gordon sia fermamente convinto che il mondo funzioni così, non fa nulla né per opporvisi e né tantomeno per farne parte. La sua vita consiste in un perenne galleggiare tra lavori pagati due soldi e la sua ambizione letteraria di diventare scrittore.

In passato non sono poche le opportunità che ha avuto per potersi creare una carriera nel mondo pubblicitario come copywriter, ma non appena si è reso conto d’avere talento, e quindi di poter guadagnare sempre più, ha deciso di abbandonare il lavoro. Il terrore puro, dell’eventualità di poter essere come tutti gli altri, schiavo del Dio denaro quindi, lo ha condotto verso la fuga.

“Ebbe una visione di Londra, del mondo occidentale: vide milioni di schiavi sgobbare e strisciare ai piedi del trono di Quattrino.”

Julia, la sorella di Gordon, è esattamente l’esempio di quel che lui intende in queste due righe quando parla di “schiavo”. Dopotutto lei vive una vita nella miseria lavorando dalla mattina alla sera, sopravvivendo a malapena con il suo salario, e cercando in mille modi di aiutare il fratello, il quale è messo addirittura peggio di lei.

Gordon, in cuor suo, disprezza Julia, ma lo fa nonostante le voglia un gran bene e riconosca quanto lei abbia sempre cercato di aiutarlo. Non riesce però a nascondere la  totale mancanza di stima nei suoi confronti, per il semplice fatto che per tutta la durata della sua vita lei non abbia fatto altro che lavorare bramando denaro.

La sua perenne fuga dal denaro, è probabilmente dovuta dalla paura di non essere in grado di gestirlo, se mai ne avesse avuto. Questo suo incubo, ad un certo punto del romanzo, diviene realtà. Un importante rivista accetta una della sue poesie, inviandogli ben dieci sterline. Soldi che di colpo lo gettano nel panico, facendogli compiere una serie di sciocchezze. Nonostante il suo primo pensiero sia quello di dare parte di quel guadagno alla sorella Julia, come se fosse un risarcimento per tutto quel che lei ha fatto per lui durante quegli anni, alla fine si ubriaca dandosi alla pazza gioia, sperperando tutto.

È difficile scindere l’odio verso gli altri dalla povertà. Quando si ha poco o niente, l’unica cosa che rimane è detestare tutti quelli che hanno qualcosa, e Gordon ovviamente non può esimersi da questo.

“Londra! Chilometri e chilometri di case modeste, solitarie, tutte ad appartamentini e camere in affitto: non focolari, non comunità, ma semplicemente fasci di vite senza senso trascinate da una specie di caos sonnolento in lenta deriva verso la tomba! Vedeva passare gli uomini come cadaveri deambulanti”. Li detesta tutti Gordon, e dietro al suo sguardo scrutatore e senza ritegno, li considera dello stesso valore dell’aspidistra che tiene dietro la finestra in cucina.

Gordon ha una fidanzata, Rosemary, con la quale non riesce a fare l’amore perché convinto che per poter andare a letto con una ragazza ci vogliano i soldi. Dopotutto, offrirle una cena fuori aiuterebbe no? E portarla in una bella camera d’albergo, non sarebbe certamente d’aiuto? Per non parlare dei vestiti, indossare un capo di tutto rispetto, ci farebbe partire sicuramente avvantaggiati. Non potendo usufruire di tutto questo, il vittimismo di Gordon la fa da padrone ingurgitandolo e risucchiandolo in un vortice di negatività dal quale proverà ad uscire solamente nelle ultime pagine del romanzo.

In Fiorirà l’aspidistra, George Orwell ha messo a punto una precisa scelta ideologica. Un protagonista che diventa un borghese modello, con tanto di cravatta ed aspidistra, non significa altro che la vittoria del profitto, del denaro sull’idealismo, dell’apparenza sociale sull’essere. L’individuo è così soddisfatto, socialmente contento, ma sconfitto, a vantaggio di una visione utilitaristica e conformista dell’uomo.

Ed è proprio questa scelta politica che rende il romanzo realistico e visionario allo stesso tempo, nonché sempre attuale:

“Si chiese chi fosse la gente che abitava in quelle case. Dovevano essere, per esempio, piccoli impiegati, commessi di negozio, viaggiatori di commercio, galoppini di assicuratori, tranvieri. Sapevano di essere soltanto marionette che ballavano solo quando il denaro tirava i fili? C’era da scommettere la testa che non lo sapevano. E quand’anche lo avessero saputo, non gliene sarebbe importato nulla. Erano troppo occupati a nascere, a sposarsi, far figli, lavorare, morire”.

Fiorirà l’aspidistra è un pamphlet antiborghese con diversi riferimenti autobiografici, una sorta di resa dei conti tra l’autore, le proprie aspirazioni e passioni, i compromessi rifiutati e quelli accettati durante la sua carriera, portato avanti con una scrittura mirabile e con una dettagliata definizione dei personaggi che dicono molto sul nostro modo di agire in qualsiasi luogo e tempo, di come un nobile sogno possa trasformarsi una pericolosa ossessione.

Ma è il capitalismo a renderci davvero più egoisti e ambiziosi o il desiderio insito nell’essere umano a migliorarsi continuamente per sfuggire alla mortifera noia e all’immobilismo? Manca forse in Fiorirà l”aspidistra l’attenzione per la dimensione psicologica, o meglio esistenziale della natura umana, concentrandosi su quella politica e sociale.

 

L’universo orwelliano delle sardine

Chi non è, a suo modo, fomentatore d’odio, scagli la prima pietra. Questa di sicuro non è la prima, dato il clima pro-regolamentazioni della comunicazione e dell’informazione online che aleggia intensamente, almeno dai tempi della Brexit in poi.  Ma il promotore di questa idea è colui che, onnipresente da mesi sulle reti e sulla stampa nazionale e internazionale, pretende una Politica “con la P maiuscola” (nonostante questa nasca da un dibattito fatto di proposte concrete che, in più occasioni, le Sardine hanno dimostrato di non poter offrire). Mattia Santori infatti è il leader del movimento delle sardine che, proprio perché nato sospinto dai venti di mezzi e personaggi più mainstream, vorrebbe la distruzione degli altri mezzi di diffusione del pensiero, più funzionali alla disintermediazione.

Pertanto, Santori propone il daspo dai social come misura a tutela della «sostenibilità democratica» (non sia mai che si andasse in overdose), garantita dalla vigilanza di organi di polizia su determinati account. In questo modo la manifestazione del pensiero, seppur espresso con veemenza, viene assimilata a un atto di turbamento dell’ordine pubblico, segnatamente per le manifestazioni a sua detta «ai limiti della diffamazione».

Come se, in giudizio, si potesse adottare un sistematico pressappochismo nel decretare la sussistenza di un reato descritto con estrema precisione da codice penale, laddove già quest’ultimo indica le fattispecie di delitti a mezzo stampa, comprendendo le aggravanti legate all’istigazione della violenza per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi, alla legge Mancino, oltre a quelle più classiche di calunnia, diffamazione, vilipendio e minaccia.

Benché l’organizzazione delle “piazze che non si Legano” avvenga proprio tramite la rete, Santori si fa promotore dell’antiquata distinzione tra reale e virtuale. È una visione nella quale si presenta una peculiare forma di «democrazia digitale», che ospita il populismo del sentimento umano più strumentalizzato: un odio (per la verità legittimo tanto quanto il suo opposto, fatti salvi i reati) talmente generico da poterci racchiudere tutte le manifestazioni del pensiero più sgradite; e pensare che Gramsci sull’odio aveva costruito un’invettiva agli indifferenti da premio. Secondo tale proposta, la (psico)polizia, in atto preventivo, dovrebbe controllare che i profili messi all’indice come fomentatori di violenza vengano banditi dalle piattaforme, in barba ad ogni precetto enucleato dall’art.21 della Costituzione.

Questo infatti, non solo comprende al primo comma «ogni altro mezzo di diffusione» della parola e dello scritto, come tutela della libertà di manifestare il proprio pensiero, senza prevedere, né con riserva giurisdizionale né di legge, la possibilità di esserne cacciati, anche dopo condanne definitive, ma persino l’istituto del sequestro avviene ex post la pubblicazione, e mai prima. Altrimenti, costituirebbe automaticamente una forma di censura. Per di più, Sartori beatifica quella privata, ad opera delle piattaforme social, in base agli ambigui “standard della community”, incoraggiando un esacerbarsi degli stessi: «va affinata la tecnica».

Il colmo, per un movimento che si dichiara antifascista, è proporre misure ultra-securitarie. Si ripresentano addirittura sembianze della norma sulle manifestazioni del pensiero redatte nel Testo Unico di Pubblica Sicurezza, tra il 1926 e il 1931, il quale riesce a mettere insieme l’inasprimento delle licenze di polizia per la stampa, e il passaggio dell’istituto del sequestro, da provvedimento azionato dal giudice, con atto motivato, a strumento preventivo delle forze dell’ordine, indipendentemente dall’effettivo reato commesso.

Il paradosso è realizzato. Insomma, a furia di voler mettere i lucchetti ai pericolosi populisti internauti, contro i quali l’art.21, nonostante sia erga omnes e coessenziale alla Forma Repubblicana stessa, viene presentato come sacrificabile, le Sardine finiscono col riproporre, nelle vesti di crociati contro Salvini, una perfetta restrizione distopica. Il tutto nell’ignavia generale, che la fa passare come un’idea addirittura lecita.

 

Caterina Betti

Orwell e Huxley, distopie per un futuro dispotico

Le distopie sono il termometro delle paure di una società, ma oggi uno stato rigidamente controllato e ordinato non ci sembra più una minaccia credibile. Le cose stanno davvero così?

Si deve a Thomas More il termine “Utopia”, dal nome dell’opera in cui tratteggia una società ideale in un non-luogo o luogo felice (a seconda di quale etimologia si preferisca). Nel corso del ‘900 è stato codificato un genere chiamato, invece “distopia”, dove vengono rappresentati in modo grottesco i tratti più disumani e crudeli di una società immaginaria. Le distopie mostrano un mondo assolutamente antiutopico con intento polemico, per mettere in guardia i lettori contro i pericoli futuri. Le due più famose, probabilmente, sono “1984” di George Orwell e “Il Mondo Nuovo” di Aldous Huxley. Ciò che accomuna tutte queste opere, in ogni caso, è il movente delle loro rappresentazioni: la paura. Le distopie mostrano le paure dell’autore, che si fa portavoce di un sentire più grande, circa il futuro della società.

Le due opere citate, pur mostrando due società praticamente opposte, hanno in comune l’elemento di assoluto controllo da parte dello stato. Il clima novecentesco in cui sono state scritte tali opere traspira da ogni pagina. I totalitarismi erano dilaganti negli anni di pubblicazione, l’informazione (come del resto ogni contenuto psicologico, scientifico e filosofico) perdeva la sua verità monolitica per mostrarsi più sfaccettata e – per questo, manipolabile- il mito della natura umana vista come “buona” rovinava sotto i colpi degli avvenimenti storici. La tecnica si metteva al servizio dei sistemi di polizia a fini di controllo e le ideologie avevano ancora delle forme aguzze,  non scendendo a compromessi con la realtà. La paura di finire incasellati, controllati, ridotti a macchine era l’incubo per eccellenza nei paesi liberali. Si può dire che, in generale, questi autori non avessero torto. Queste due opere sono figlie del loro tempo, la loro funzione critica era legittima ed era condivisa da molti. Si è fatto, soprattutto di “1984”, un culto vero e proprio, segno che i timori espressi non erano aria fritta (al di là della strumentalizzazione politica liberale di quest’opera).

Perché, tuttavia, molti film o libri distopico-fantascientifici di oggi non ci spaventano minimamente? Pensiamo a due celebri libri-pellicole di successo come quella di Hunger Games e Divergent. Entrambe presentano una società rigidamente organizzata, non troppo distante da quelle delle grandi distopie del novecento, in cui uno o più eroi sovvertono quest’ordine. Ovviamente l’impostazione narrativa è differente, visto che l’attenzione è concentrata molto più sulla protagonista rispetto a ciò che la circonda. Il target di pubblico è diverso, la complessità è molto inferiore. Tuttavia è lecito chiedersi il perché di queste scelte e perché questi fanta-mondi non siano più spaventosi.
La verità è che queste opere non hanno intento polemico, non denunciano un processo di controllo e incasellamento in atto, pertanto il loro sfondo distopico è più un artificio letterario per proporre una morale di sicuro successo (viva la Libertà, meglio star peggio, ma liberi, che controllati da qualcuno) che un’esasperazione di una tendenza in corso. La morale di queste opere è proprio un rafforzativo dei valori democratico-liberali che non ha quasi più bisogno dello spauracchio totalitario, ma a cui basta l’elevazione dell’individuo a valore in sé (da cui la centralità della vicenda del protagonista).

Che la verità storica stia nei termini sopra enunciati è dubbio. Quelle distopie non ci fanno paura perché noi non crediamo possibile un controllo statale assoluto, non avvertiamo questo timore all’orizzonte, ma questo non vuol dire che il problema non sussista. Grazie soprattutto al progresso tecnico, oggi il controllo può essere totale. La registrazione in un social network consegna tutte le nostre informazioni ad aziende che le sfruttano per proporci cose che potrebbero interessarci, ogni nostra conversazione può essere controllata, i telefoni che abbiamo in tasca sono dei localizzatori e la nostra identità è sparsa per dei database. Per il momento abbiamo molte “licenze”. Sono queste a darci una parvenza di libertà. Ci sono strumenti di consenso più raffinati che la violenza o la coercizione.
Una vera distopia, ad ogni modo, deve denunciare questo, deve essere coerente con il suo tempo come lo sono state in passato quella di Orwell e quella di Huxley.

La libertà è premessa indispensabile della vita intellettuale di un paese: “i filosofi, gli scrittori, gli artisti, persino gli scienziati, non hanno solo bisogno di incoraggiamento e di un pubblico: hanno anche bisogno di costante stimolo degli altri. E’ quasi impossibile pensare senza parlare. (…) se si elimina la libertà di parola, le facoltà creative inaridiscono”. (G. Orwell)

 

Fonte: l’intellettuale dissidente

Bukowski scopre che gli scissionisti del PD sono uguali ai maiali de ‘La fattoria degli animali’ di Orwell

Charles Bukowski entra alla Bury Farm, ma c’è qualcosa di strano. Gli animali, le strutture, tutto a posto, ma qualcosa non va… non vede uomini. Bussa alla villa padronale e… gli apre un maiale.

Bukowski: Ma quanto cazzo ho bevuto? Devo proprio smetterla. Lo sa che lei mi sembra un maiale? – dice ridendo al maiale – Almeno riesco a vederla che ancora cammina su due gambe, lei sicuramente è un uomo, non sono poi così ubriaco. Senta, volevo chiederle se per caso ha un dollaro, o due, o… ma sì dai, facciamo prima, ha una bottiglia di alcool da offrirmi?

Il maiale lo guarda con un’aria di superiorità infinita: Aspetti qui due gambe, le chiamo Napoleon.

Bukowski: Chi?

Il maiale: Sì, mi scusi, può chiamarlo Massimo, Massimo d’Alema.

Bukowski: Ah! Come no, lo scissionista.

Il maiale: Rivoluzionario! – urla.

Bukowski: Ok, ok, stai calmo, compagno…

Il maiale: Può chiamarmi Pierluigi Bersani. Comunque non sono tuo compagno, due gambe, stai al tuo posto. – e gli indica il salotto dove Bukowski sente un gran vociare…

Bukowski entra accompagnato da maial-Bersani e vede seduti al tavolo tanti maiali. “Ma possibile che quello che ho bevuto mi fa vedere tutto, tranne che uomini? E poi i visi di quei maiali hanno qualcosa di familiare”, consulta lercio.it su facebook. “Ma sì!!! Ecco chi siete!” Riconosce d’Alema, che siede dietro il capotavola, pronto, se servisse (a lui) ad accoltellare il capotavola di turno, e poi c’è un maiale enorme, lo scruta a fondo… è Emiliano! E poi Speranza attaccato alla gamba di Bersani continua a sorridere come uno scemo.

Maial-Bersani: Prego, si accomodi due gambe.

Bukowski: Ma… ma voi sembrate gli scissionisti del Pd, ma dove sono finito, che fattoria è questa?

Napoleon-d’Alema: Questa non è una fattoria, questo è il paradiso, non lo riconosce? Forse deve bere di più, vedrà che con qualche sorso la vita sembra un paradiso, prego si sieda e beva, e ascolti.

A Bukowski sedendosi sembra di leggere

quattro gambe è buono, due gambe è meglio, popolo è buono, d’Alema è meglio.

Si rese conto che non aveva bisogno di bere ancora: No grazie, apposto così. Volete spiegarmi che succede?

Napoleon-d’Alema interviene dicendo: Compagno Boschi…

Bukowski: Bukowski.

Napoleon-d’Alema: Sì insomma, compagno Boschi, la dirigenza si occupa del suo bene, non di spiegarglielo. Altre domande saranno ritenute da noi come sintomo di… – E Napoleon-d’Alema cerca di schioccare le dita, ma non è ancora così antropomorfo per farlo con lo zoccolo a due punte che ha, così interviene subito il maial-Speranza che sfrega il suo zoccolo su quello di Napoleon-d’Alema, in modo da ottenere il suono dello schioccare per ricordarsi qualcosa – Ah sì ecco, sintomo di renzismo, tu compagno sei renziano?

Bukowski: Io?… Boh, non so neanche che vuol dire.

Maial-Bersani: Se lo faccia dire dal nostro Emiliano, lui è antirenziamo, ma anche renziano, dipende da chi apparecchia la tavola.

Maial-Emiliano intanto si muove di continuo sulla sedia giustificandosi: Mi scusi sa, ma sono abituato a cambiare sempre posizione.

Bukowski: Le pare.

Maial-Emiliano: Comunque le spiego, io non sono contro gli scissionisti, ma preferisco rimanere dentro il PD, non sono neanche renziano, io sono per un altro PD!

Bukowski: Che tipo di PD?

Maial-Emiliano: PD…. Vorrei dirglielo, ma non ho una posizione sola neanche su questo, sicuramente un PD diverso da tutti gli altri PD. Sicuramente!

Napoleaon-D’Alema: Sicuramente! – poi rivolgendosi di nuovo a Bukowski – Vede signor Boschi, noi, IL POPOLO, non possiamo restare nel PD, lì padron-Renzi…

Bukowski: Ma non era padron-Frodo nella storia?

Napoleaon-D’Alema: L’anello ce l’ha Renzi, no? Quindi noi, IL POPOLO, abbiamo capito che padron-Renzi non ci avrebbe mai lasciato il controllo: purtroppo vince sempre le primarie, anche se perde le elezioni e quindi comanda sempre lui. Ci tocca fare come in Russia, meno voti… allora armi e rivoluzione! Lui non riconosce l’uguaglianza delle minoranza, che deve comandare sulla maggioranza. Noi, signor Boschi, siamo più uguali degli altri!

Bukowski: Voi siete dei maiali, proprio come tutti i politici. – e ride di gusto, ma intanto maial-Bersani gli spacca una bottiglia d’alcool in testa uccidendolo.

Due giorni dopo, funerali di stato del regime…

Napoleaon-D’Alema: Noi POPOLO piangiamo oggi la terribile scomparsa del compagno Boschi. Da quello che dice il medico (il medico non è alla fattoria ma gli altri, cioè le pecore non lo sanno, sono pecore) è morto per un attacco di renzismo. Abbiamo cercato di cambiare la sua testa con questa bottiglia, aveva chiesto lui l’alcool, chiedendoci praticamente di morire, piuttosto che rimanere renziano. Non potevamo fare altro , lo ha chiesto lui. Ricorderemo sempre il suo amore per l’acool. Propongo di intitolare una pizza al defunto, la bukoskaiola!

Le pecore osannanti cantarono poi l’inno Boschi ciao…

«Una mattina mi sono scisso,
o Boschi, ciao! Boschi, ciao! Boschi, ciao, ciao, ciao!
Una mattina mi son scisso
e ho salutato l’invasor (Renzi).

O d’alemiano, portami via,
o Boschi, ciao! Boschi, ciao! Boschi, ciao, ciao, ciao!
O bersaniano, portami via,
ché mi sento di morir.

E se io voto da speranziano,
o Boschi, ciao! Boschi, ciao! Boschi, ciao, ciao, ciao!
E se io voto da rossiano,
tu mi devi candidar.

Mi candiderai in Parlamento,
o Boschi, ciao! Boschi, ciao! Boschi, ciao, ciao, ciao!
E candiderai in Parlamento
al caldo di una bella poltron.

E le genti che passeranno
o Boschi, ciao! Boschi, ciao! Boschi, ciao, ciao, ciao!
E le genti che passeranno
Ti diranno «Che faccia da cul!»

«È questa la faccia da cul del d’alemiano»,
o Boschi, ciao! Boschi, ciao! Boschi, ciao, ciao, ciao!
«È questa la faccia da cul del d’alemiano
morto per la poltro-o-na!»

La natura politica della letteratura

Il novecento è stato un secolo dominato dalle ideologie. Per citare un’opera su tutte, esemplificativa di questo concetto, appare utile ricordarci de Il Novecento. Il secolo delle ideologie di Bracher Karl D., ove si percorrono minuziosamente la genesi e gli sviluppi dei fenomeni totalitari. Durante il secolo breve, la letteratura, come tutti i fatti umani, è complessivamente impregnata, utilizzando la definizione di Hobswan, di tutte le insenature pensieristiche dei fiumi totalitari. Negare la natura politica della letteratura equivale a negare un aspetto sottinteso, un nesso indissolubile e inequivocabilmente sempre presente. L’epica greca, partendo dal trapassato, è diretta, significativamente, alle πόλεις.

Il filosofo Massimo Cacciari, durante il “Premio Cesare Pavese 2014″, ha rimarcato con forza questo aspetto, asserendo che la letteratura occidentale,per mezzo del suo valore mitopoietico, ha fondato le qualità delle città e quindi le fondamenta stesse dell’esistenza convissuta. L’origine della letteratura, persino in chiave storica, appare quindi strettamente politica. Saltando più avanti nel tempo, potrebbero elencarsi infinità di esempi relegabili all’interno dell’insieme della “letteratura politica”, per evidenziare la declinazione delle intrecciate complicità di questi due mondi, che poi è la relazione tra il potere e il mondo intellettuale, basti pensare a Dante Alighieri.  Nel novecento la situazione appare farsi più complessa: indagando sulle riviste letterarie di quel secolo ci si rende conto dell’aspetto perfettamente organico di queste alle ideologie e alla propaganda di esse. Se prima della nascita dei totalitarismi, la letteratura si è principalmente distinta quale espressione indipendente dell’animo umano seppure, come si è visto, legata a doppio filo alle dinamiche del potere, alla auctoritas e alle sue manifestazioni, con l’avvento del novecento si innesta un processo di identificazione della letteratura con il pensiero dominante o con l’ opposizione e la resistenza ad esso.

Dalle pubblicazioni dell’estetismo decadente (<<Hermes>>, <<Leonardo>>, <<il Marzocco>>) alle esperienze di Gobetti e Gramsci (<<L’Ordine Nuovo>>, <<La Rivoluzione liberale>>, <<Energie Nuove>>), passando per le riviste fasciste (<<Gerarchia>>, <<La difesa della razza>>, <<Critica fascista>>) o attraverso le esperienze cattoliche (<<Il Rinnovamento>>, <<L’Eroica>>, <<Rassegna Nazionale>>), ci si può pienamente rendere conto di quanto viene pervaso il pensiero letterario da quello delle concezioni fideistiche delle visioni del mondo all’epoca presenti. Si contraddice, per così dire, la tensione esistenzialista di Sartre che, con la teorizzazione dell’intellettuale impegnato, l‘intellectual engaged, postula la necessità di non sposare una specifica dicotomica (destra/sinistra per semplificare) e di orientarsi diversamente, di volta in volta, verso scelte ideali orientate unicamente all’uomo e alla sua libertà. La funzione del letterato cambia radicalmente, banalizzando, con l’avvento dei regimi e se l’Imperatore Augusto necessitava di Virgilio per legittimare il proprio potere, questione anch’essa rimarcata da Cacciari durante il Premio sopracitato, gli aspetti contemporanei della politica non necessitano di legittimazione letteraria, anzi la respingono, prodotti come sono da cesure storiche-filosofiche invertibili. Quello che resta di questo processo, le scorie, appaiono essere le necessità degli uomini di potere di appropriarsi anche di “un’immagine letteraria”, utilizzando un esercizio di appropriazione a volte palesemente indebita delle opere letterarie e dei risvolti teorici a loro legate, etichettando autori e forzando l’attualizzazione di tematiche letterarie al fine di erudire un ipotetico pantheon di riferimento a cui un partito qualunque dovrebbe rivolgersi. Potere e letteratura viaggiano, durante i nostri giorni, su binari distinti, distanti e ben differenziati, apparendo quasi mossi da una reciproca repulsione, la letteratura appare disimpegnata e priva della sua originaria funzione creatrice.

Il romanzo di carattere politico-sociale è un genere ormai in disuso, estinto, non riproponibile. D’altro canto, la politica ha smesso di pensare e di esigere delle basi culturali per sostentare idealisticamente la propria esistenza , limitandosi così alla etichettizzazione di autori del passato per esigenze non sostanziali. Entrambi gli ambiti si mostrano, in definitiva, vicendevolmente impoveriti. Viene totalmente smarrito quell’appello di Orwell presente all’interno di un saggio del 1948 dal titolo significativamente Hobbesiano, Gli scrittori e il leviatano, nel quale l’autore di 1984, scriveva:

“E quindi? Dovremmo concluderne che ogni scrittore ha il dovere di non immischiarsi di politica? Certo che no! In ogni caso, come ho già detto, in un’epoca come la nostra nessuno che abbia un cervello riesce a tenersi, o si tiene in pratica, fuori dalla politica”.

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