La notte degi Oscar tra femminismo d’accatto, propaganda e opposti moralismi

[ads2]Mentre qui in Italia si consumava l’ultimo atto della folcloristica parata elettorale, con i cittadini in fila alle cabine di voto, oltre oceano, anzi, sulle rive dell’opposto oceano, il Pacifico, il 4 marzo andava in scena la non meno stucchevole parata degli Oscar. Non è nostra intenzione scadere nell’antiamericanismo d’accatto solo per acciuffare qualche plauso. D’altro canto, l’indifferenza o il non prestare la dovuta attenzione ad un fenomeno che si vorrebbe relegare nella cronaca di costume e spettacolo è ancor più sciocco e segno di profonda cecità. La democrazia liberale coltiva le sue gioiose vittime in molti modi. Anch’essa, sebbene in maniera più subdola rispetto ai regimi totalitari si regge e alimenta attraverso la propaganda. Il consenso è lo sgabello ai suoi piedi. Laddove non sia già pronto, utilizza ogni stratagemma per procurarselo. Lo fa certo nei comizi o dibattiti politici dove ha imparato a soppesare ogni parola. E se qualcosa malauguratamente sfugge dalle labbra poco attente, allora poi è sufficiente ritrattare non appena si intuisce il vacillare della popolarità. Ciò che conta non è più, in effetti, quello che si dice, ma il come esso viene detto. Misteri ultimi della più avanzata fra le scienze, o forse dovremmo dire fra le arti illiberali: la comunicazione.

Ma di certo faremmo un gran torto alla verità se credessimo che la politica sia il solo e più importante ambito della propaganda. Il pensiero muove l’azione. Questo bisogna sempre tenerlo a mente. Sono i circoli di intellettuali, artisti e creativi a precorrere tendenze e nuove frontiere di libertà. Libertà! Che termine abusato quanto incompreso e distorto. Non importa qui soffermarsi se questi ambienti siano oramai in una certa misura eterodiretti da forze invisibili e più potenti. Il Male si serve più della stupidità che della volontaria sottomissione ad esso. Sarebbe già un enorme passo avanti comprendere almeno questo! Ed eccoci così a riflettere sulla notte degli Oscar. Hollywood, patria dell’industria cinematografica più potente – e influente – del pianeta si autocelebra ogni anno e tutto il mondo attende con entusiasmo e compito rispetto, i verdetti che verranno pronunciati.

Oltre ai film in lizza per i premi, quest’edizione ha attirato su di sé l’attenzione mondiale per il movimento di protesta nato in seguito alle denunce di abusi e molestie sessuali che molte attrici americane hanno subito da colleghi, produttori, registi: primo fra tutti l’oramai tristemente noto produttore Harvey Weinstein. Assumiamo per vere tutte le dichiarazioni delle celebrità hollywoodiane. Se non lo fossero, sarebbero comunque verosimili! E pensare che molti da questa parte dell’oceano si sono stupiti di ciò! Il potere ha davvero creato un infinito esercito di sciocchi che non sanno di esserlo. La forza che più di tutte muove la presente umanità è senza ombra di dubbio il piacere; ma attenzione a credere che esso si manifesti solo con modi moralmente attaccabili. Il male è sempre più astuto e sottile dei milioni di benpensanti che ahimè scaldano oggigiorno perfino le panche delle chiese. Essendo una forza, il piacere si manifesta in molte forme; si camuffa e può anche mutare nel tempo, restando però sempre fedele a se stesso, nella sostanza.

Certo l’edonismo è la sua maschera più identificabile e diffusa; in questo, il cinema statunitense è da sempre stato un’avanguardia, sdoganando un po’ alla volta molti tabù. Ma vogliamo guardare più a fondo. Il piacere ha a che vedere con il senso d’identità, con la consapevolezza, o meno, di avere un compito da assolvere durante questo tragitto terreno. E il piacere ha due direzioni, una rivolta verso se stessi, l’altra rivolta all’esterno, verso gli altri. Non ci riferiamo al “dare” piacere, quanto piuttosto al “piacere agli altri”: come è diffusa e profonda tale malattia che opprime l’uomo d’oggi, restringendone gli spazi e l’immaginazione, senza ovviamente che lui ne abbia la benché minima consapevolezza.

Nel caso poc’anzi citato degli scandali scoppiati nell’ambiente cinematografico americano, vedere solo l’aspetto sessuale, è comunque arrestarsi alla superficie delle cose. Hollywood ha sempre propagandato il mito delle celebrità belle e inarrivabili, che scatenavano un insano desiderio in milioni, anzi miliardi di idioti “fan”. Un piacere che da libero si fa senza volerlo obbligato e obbligante. Si deve piacere, pena l’esilio, la morte artistica, il baratro della depressione e quant’altro. E cosa non fare allora per piacere, per arrivare là dove il meraviglioso gioco ha inizio? Incapace di guardarsi dentro, di dialogare col volto della propria anima, l’uomo moderno ha solo l’altro, il proprio gruppo, la società come unico specchio che gli rimanda un’immagine di sé. Non dispiacere diviene la preoccupazione massima esplicitata in molteplici sfumature. Non dovrebbe certo stupire che proprio la patria del liberismo giudaico-protestante lo incarni alla perfezione, e noi da bravi sudditi abbiamo appreso la lezioncina fino ad uniformarci a loro. Qualcuno forse vede ancora una qualche differenza? “Bisogna intessere relazioni”, grida a gran voce il dittatore invisibile. “E più se ne hanno, più si vale”; aggiungono in coro i fedeli. È necessario ottenere riconoscimenti e onori, altrimenti non si è nulla. Bisogna evitare con ogni mezzo di dire o fare alcunché di scomodo per non perdere terreno sugli altri, sempre pronti a sopravanzarti, a scalzarti per un niente che sembra oro solo agli sciocchi. Questi, i comandamenti nuovi!

Ma ecco pronta subito la difesa dei benpensanti, dei giulivi liberal cattolici, o di quell’accozzaglia che va sotto il nome di “conservatori” che altro non sono che la medaglia rovesciata dei rivoluzionari e progressisti. Noi sì che abbiamo i nostri nemici, le nostre trincee schivano colpi ogni giorno. Ma il male, come già detto, si serve proprio degli sciocchi prima di tutto. Certo avete scelto il vostro piccolo gruppo, conventicola o movimento. Vi ci siete rifugiati per sentirvi al sicuro e nel giusto. Ecco pronto là fuori il nemico, anzi, quanti nemici volete. Tutti quelli che sono al di fuori delle sbarre sono detestabili e ipocriti. “A loro certo che dispiacciamo!” Urlano fieri questi sventurati. Ma il punto è un altro. Chi ancora ha il coraggio, per amore della Verità, della Giustizia, del Bello di non tirarsi indietro quando necessario – e sappiano che le occasioni abbondano – sapendo di potersi inimicare non uno ma tutti quelli che fino a quel momento erano i suoi amici, i vicini di gabbia? Mai un’epoca ha conosciuto così tanta viltà come questa! E dove il solo piacere governa, la fedeltà viene esclusa, il potere è libero di compiere abusi, il più forte schiaccia il più debole, l’ipocrisia e il falso successo annientano le sincere vocazioni.

L’America ha disteso le sue larghe braccia sul resto del mondo ad iniziare dal Vecchio Continente e lo ha fatto anche attraverso le immagini che i suoi Studios accendevano su milioni di schermi. Oggi porta avanti i cavalli di battaglia del progressismo più spinto: la rinata ansia per il razzismo, l’esaltazione aprioristica del femminile contro una perversa immagine del maschio, la ridicolizzazione della religione vissuta sempre come un fatto rigido ed esclusivamente moraleggiante.  Eppure, il potere più pervasivo e sottile è ancora un altro. Il cinema, si sa, è visione, ma anche la vetta della conoscenza intellettuale è “visione”. Per questo, attraverso le immagini non solo si veicolano idee, ma si imprime in maniera indelebile un immaginario. Una volta sedimentato nei fondi della psiche, da quello non si può uscire. Tutta la realtà confluisce dentro quel mondo, quelle forme, quei colori e suoni. Ciò che sembra estraneo lo rigettiamo senza dover nemmeno scomodare la coscienza.

E così, dentro questo recinto ci scanniamo fra “opposti moralismi”, ma non comprendiamo che la salvezza sta nel saltare la staccionata e correre verso le alte vette dove l’aria è fresca e pura. I nostri occhi dovrebbero essere pieni di autori come Bergman, Antonioni, Bresson, Sokurov e Tarkovskij. Invece amiamo e comprendiamo solo quello che è fruibile per le nostre anime addormentate. Ci siamo sciolti, liquefatti per nostra stessa debolezza, prima ancora che per la forza altrui. Siamo ben più inconsistenti de La Forma dell’Acqua, siamo piccole particelle vagabonde e senza sapore. Onore al primo fra i vincitori dunque, che metaforicamente ci ricorda che siamo naufragati in questo immenso mare di mediocrità.

 

 

Massimo Selis-L’intellettuale dissidente

 

Oscar 2018: vince ‘La forma dell’acqua’, premiato anche il film dell’italiano Guadagnino per la migliore sceneggiatura non originale

In una serata degli Oscar che ha rispettato tutti i pronostici dei bookmakers e che non riservato sorprese o scossoni il vero vincitore è stato La Forma dell’acqua di Guillermo del Toro, che ha vinto quattro Oscar, tra cui quello per il miglior film. Subito dietro, anche se per Oscar minori, Dunkirk di Christopher Nolan con tre, seguito da Tre manifesti a Ebbing, Missouri, che ha vinto per il migliore attore non protagonista e la migliore attrice protagonista, Francis McDormand. Con due Oscar invece L’ora più buia, che ha vinto sia per il make up che con il migliore attore, Gary Oldman. Due Oscar anche per Blade Runner 2049, ma non quello per la scenografia che vedeva in corsa l’italiana Alessandra Querzoli. Soddisfazione anche per Coco, il film animato della Pixar, vincitore di categoria e per la migliore canzone originale. Un Oscar è andato anche a Get Out, migliore sceneggiatura originale, e a Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino per quella non originale di James Ivory. Un Oscar anche a I, Tonya per l’interpretazione da non protagonista di Allison Janney in una serata che non vede film sconfitti malamente tornare a casa a mani vuote.

L’Academy segnala stavolta al pubblico mondiale un modello cinematografico non modaiolo, in parte addirittura ricalcato sul cinema di serie B dell’età dell’oro hollywoodiana; lo stile di Del Toro non esegue una partitura univoca, ma ha il non comune coraggio (o furbizia) di variare radicalmente i toni e il ritmo dal thrilling al fiabesco, dallo storico al romantico; risultando avvincente per ogni tipo di pubblico, può passare in secondo piano la metafora anti-Trump –peraltro rivendicata dallo stesso corpulento director messicano- del diverso, l’alieno, il “clandestino” a cui è doveroso spalancare le braccia.

La prima stuatuetta della serata 2018 era andata a Sam Rockwell, attore non protagonista in Tre manifesti a Ebbing, Missouri in cui interpreta la parte di un poliziotto inizialmente razzista che poi prende invece le difese della madre alla ricerca della verità sullo stupro della figlia.

A Rockwell il primo grande applauso della serata al Dolby Theatre a Hollywood iniziata con la sfilata delle star sul red carpet. «L’oscar è l’uomo ideale: tiene le mani a posto, non dice mai cose fuori luogo e soprattutto non ha un pene. È esattamente l’uomo di cui c’è bisogno oggi a Hollywood». Non ci va piano Jimmy Kimmel nella sua introduzione della novantesima cerimonia di premiazione degli Oscar che come ci si aspettava è centrata sul nuovo ruolo delle donne e delle minoranze (che noia e quanta melassa). «Fino allo scorso anno sembrava impensabile che due film di supereroi fossero interpretati da donne e afroamericani. Oggi dopo solo un anno siamo davanti a due successi come Wonder Woman e Black Panther. A Hollywood era tempo di un cambio – ha proseguito Kimmel – e la lotta per evitare le molestie sul lavoro era da tempo dovuta. Risolta la questione sul lavoro poi rimarranno tutti gli altri ambienti dove le donne sono vittime di certi atteggiamenti». Una parola anche per il grande escluso dall’Academy, Harvey Weinstein: «Unico ad essere stato cacciato dall’Academy oltre a Carmine Caridi mandato via in passato perché riproduceva illegalmente i film che avrebbe dovuto solo guardare».

Chi si aspettava numerosi riferimenti ai movimenti Timès Up e #MeToo nella serata degli Oscar è rimasto deluso salvo un momento, a circa metà serata in cui Salma Hayek e Ashley Judd con Annabella Sciorra hanno lanciato un video che parlava come se non se ne fosse fatto abbastanza negli ultimi anni, con la solita retorica stucchevole, di inclusione e di superamento di barriere, non solo di genere ma che anche riguardavano il colore della pelle dei protagonisti del cinema. Mira Sorvino ha parlato della fine dell’epoca dell’ipocrisia mentre Geena Davis, protagonista di un classico del femminismo come Thelma & Luise, ha parlato del fatto che dopo quel film tutti dicevano che si sarebbero prodotte più pellicole con protagoniste femminili. «Allora non successe ma ora è arrivato il momento». Insomma, come l’anno scorso, anche la novantesima edizione della notte degli Oscar è stata all’insegna del politicamente corretto e del prevedibile. E diciamo anche che l’Oscar per il miglior film l’avrebbe meritato Il filo nascosto di Anderson che porta a casa solo una statuetta o Tre manifesti a Ebbing, come del resto l’Oscar per il miglior film straniero avrebbe dovuto aggiudicarselo il film Corpo e anima di Ildiko Enyedi o The Square di Ruben Östlund, che invece è andato ad un film che parla di diritti civili negati e di pregiudizi, ma che non ha nulla di artistico, Una donna fantastica che ha per protagonista una transessuale.

Tutti i vincitori

Miglior Film
Chiamami col tuo nome (Luca Guadagnino, Marco Morabito, Peter Spears, Emilie Georges)
L’ora più buia (Eric Fellner, Tim Bevan, Douglas Urbanski, Lisa Bruce, Anthony McCarten)
Dunkirk (Christopher Nolan, Emma Thomas)
Lady Bird (Scott Rudin, Eli Bush, Evelyn O’neill)
Il Filo Nascosto (Paul Thomas Anderson, Daniel Lupi, JoAnne Sellar, Megan Ellison)
Scappa – Get Out (Sean McKittrick, Jason Blum, Jordan Peele, Edward H. Hamm Jr.)
The Post (Steven Spielberg, Kristie Macosko Krieger, Amy Pascal)
La Forma dell’Acqua (Guillermo del Toro, J. Miles Dale)
Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Graham Broadbent, Martin McDonagh, Peter Czernin)

Miglior Regia
Dunkirk (Christopher Nolan)
Lady Bird (Greta Gerwig)
La Forma dell’Acqua (Guillermo del Toro)
Scappa – Get Out (Jordan Peele)
Il Filo Nascosto (Paul Thomas Anderson)

Miglior Attore Protagonista
Il Filo Nascosto (Daniel Day-Lewis)
Scappa – Get Out (Daniel Kaluuya)
Roman J. Israel, Esq. (Denzel Washington)
L’ora più buia (Gary Oldman)
Chiamami col tuo nome (Timothee Chalamet)

Miglior Attrice Protagonista
Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Frances McDormand)
– I, Tonya (Margot Robbie)
– The Post (Meryl Streep)
– La Forma dell’Acqua (Sally Hawkins)
– Lady Bird (Saoirse Ronan)

Miglior Attore non Protagonista
– Tutti i soldi del mondo (Christopher Plummer)
– La Forma dell’Acqua (Richard Jenkins)
– The Florida Project (Willem Dafoe)
Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Sam Rockwell)
– Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Woody Harrelson)

Miglior Attrice non Protagonista
I, Tonya (Allison Janney)
– Lady Bird (Laurie Metcalf)
– Il Filo Nascosto (Lesley Manville)
– Mudbound (Mary J. Blige)
– La Forma dell’Acqua (Octavia Spencer)

Miglior Sceneggiatura Originale
– Lady Bird (Greta Gerwig)
Scappa – Get Out (Jordan Peele)
– The Big Sick (Kumail Nanjiani, Emily V. Gordon)
– La Forma dell’Acqua (Guillermo del Toro, Vanessa Taylor)
– Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Martin McDonagh)

Miglior Sceneggiatura non Originale
Chiamami col tuo nome (James Ivory)
– Logan – The Wolverine (James Mangold, Scott Frank, Michael Green)
– Molly’s Game (Aaron Sorkin)
– Mudbound (Dee Rees, Virgil Williams)
– The Disaster Artist (Scott Neustadter, Michael H. Weber)

Miglior Film Straniero
L’insulto
– Loveless
– Corpo e Anima
– The Square
Una donna fantastica

Miglior film d’Animazione
Coco (Lee Unkrich, Darla K. Anderson)
– Ferdinand (Carlos Saldanha)
– Loving Vincent (Ivan Mactaggart, Dorota Kobiela, Hugh Welchman)
– Baby Boss (Tom McGrath, Ramsey Ann Naito)
– The Breadwinner (Nora Twomey, Anthony Leo)

Miglior Fotografia
Blade Runner 2049 (Roger Deakins)
– L’ora più buia (Bruno Delbonnel)
– Dunkirk (Hoyte Van Hoytema)
– Mudbound (Rachel Morrison)
– La Forma dell’Acqua (Dan Laustsen)

Miglior Scenografia
– La Bella e la Bestia (Sarah Greenwood, Katie Spencer)
– Blade Runner 2049 (Dennis Gassner, Alessandra Querzola)
– L’ora più buia (Sarah Greenwood, Katie Spencer)
– Dunkirk (Nathan Crowley, Gary Fettis)
La Forma dell’Acqua (Paul D. Austerberry, Shane Vieau, Jeffrey A. Melvin)

Miglior Montaggio
– Baby Driver – Il Genio della Fuga (Paul Machliss, Jonathan Amos)
Dunkirk (Lee Smith)
– I, Tonya (Tatiana S. Riegel)
– La Forma dell’Acqua (Sidney Wolinsky)
– Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Jon Gregory)

Miglior Colonna Sonora
– Dunkirk (Hans Zimmer)
– Il Filo Nascosto (Jonny Greenwood)
– Star Wars: Gli Ultimi Jedi (John Williams)
La Forma dell’Acqua (Alexandre Desplat)
– Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Carter Burwell)

Miglior Canzone
– Chiamami col tuo nome (Sufjan Stevens) – The Mystery of Love
Coco (Kirsten Anderson-Lopez, Robert Lopez) – Remember Me
– Marshall (Common, Andra Day) – Stand Up for Something
– Mudbound (Mary J. Blige, Raphael Saadiq) – Mighty River
– The Greatest Showman (Benj Pasek, Justin Paul) – This is Me

Migliori Effetti Visivi
Blade Runner 2049 (Lam Pau, John Nelson, Gerd Nefzer, Richard R. Hoover)
– Guardiani della Galassia Vol. 2 (Daniel Sudick, Christopher Townsend, Guy Williams, Jonathan Fawkner)
– Kong: Skull Island (Stephen Rosenbaum, Jeff White, Scott Benza, Michael Meinardus)
– Star Wars: Gli Ultimi Jedi (Chris Corbould, Neal Scanlan, Ben Morris, Michael Mulholland)
– The War – Il Pianeta delle Scimmie (Dan Lemmon, Joe Letteri, Daniel Barrett, Joel Whist)

Miglior Sonoro
– Baby Driver – Il Genio della Fuga (Julian Slater, Mary H. Ellis, Tim Cavagin)
– Blade Runner 2049 (Ron Bartlett, Mac Ruth, Doug Hemphill)
Dunkirk (Gary A. Rizzo, Gregg Landaker, Mark Weingarten)
– Star Wars: Gli Ultimi Jedi (Ren Klyce, Stuart Wilson, David Parker, Michael Semanick)
– La Forma dell’Acqua (Christian T. Cooke, Glen Gauthier, Brad Zoern)

Miglior Montaggio Sonoro
– Baby Driver – Il Genio della Fuga (Julian Slater)
– Blade Runner 2049 (Mark A. Mangini, Theo Green)
Dunkirk (Richard King, Alex Gibson)
– Star Wars: Gli Ultimi Jedi (Matthew Wood, Ren Klyce)
– La Forma dell’Acqua (Nelson Ferreira, Nathan Robitaille)

Migliori Costumi
– La Bella e la Bestia (Jacqueline Durran)
– L’ora più buia (Jacqueline Durran)
Il Filo Nascosto (Mark Bridges)
– La Forma dell’Acqua (Luis Sequeira)
– Vittoria e Abdul (Consolata Boyle)

Miglior Trucco e Acconciatura
L’ora più buia (Kazuhiro Tsuji, David Malinowski, Lucy Sibbick)
– Vittoria e Abdul (Daniel Phillips, Loulia Sheppard)
– Wonder (Arjen Tuiten)

Miglior Documentario
– ABACUS: Small Enough to Jail (Steve James, Julie Goldman, Mark Mitten)
– Visages, visages (Agnès Varda, Rosalie Varda, Jr.)
Icarus (Dan Cogan, Bryan Fogel)
– Last Men in Aleppo (Feras Fayyad, Kareem Abeed, Soeren Steen Jespersen)
– Strong Island (Joslyn Barnes, Yance Ford)

Miglior Cortometraggio Documenatrio
– Edith+Eddie (Thomas Lee Wright, Laura Checkoway)
Heaven is a Traffic Jam On The 405 (Frank Stiefel)
– Heroin(e) (Elaine Mcmillion Sheldon, Kerrin Sheldon)
– Knife Skills (Thomas Lennon)
– Traffic Stop (David Heilbroner, Kate Davis)

Miglior Cortometraggio
– DeKalb Elementary (Reed Van Dyk)
– My Nephew Emmett (Kevin Wilson Jr.)
– The Eleven O’Clock (Josh Lawson, Derin Seale)
The Silent Child (Chris Overton, Rachel Shenton)
– Watu Wote: All of Us (Katja Benrath, Tobias Rosen)

Miglior Cortometraggio Animato
Dear Basketball (Kobe Bryant, Glen Keane)
– Garden Party (Victor Caire, Gabriel Grapperon)
– Lou (Dave Mullins, Dana Murray)
– Negative Space (Ru Kuwahata, Max Porter)
– Revolting Rhymes (Jan Lachauer, Jakob Schuh)

 

 

Fonte: http://spettacoliecultura.ilmessaggero.it/cinema/oscar_2018_la_prima_statuetta_va_a_sam_rockwell-3586130.html

La forma dell’Oscar

‘Il filo nascosto’, l’ultimo capolavoro di P.T. Anderson che accosta con rigore narrativo i misteri della creazione artigianale a quelli dei rapporti di coppia

Mentre gli uomini amano svestire le donne, lo stilista Reynolds Woodcock, fulcro della moda britannica, che abbaglia anche la famiglia reale, ama vestirle per trasformarle in feticci privati di una volontà di dominio che le sublima nel momento in cui le imprigiona. Se Day-Lewis con il suo sguardo sfuggente ed enigmatico giganteggia –ancorché non gli giovi l’eccessiva affettazione del doppiaggio italiano- nel ruolo inventato a partire da figure storiche del cinico e anaffettivo protagonista di Il filo nascosto è perché P. T. Anderson gli costruisce attorno, appunto, come con l’ago, il filo e il centimetro, una tela di comportamenti, gerarchie, nevrosi e rituali su cui la cinepresa indaga cercando di scioglierne l’intrinseco rebus. Quasi sempre serrato nelle stanze del lussuoso edificio che riunisce abitazione e atelier del sarto più venerato della Londra anni 50, il film candidato a sei Oscar, ma in ogni caso già iscritto al novero dei cult-movie, utilizza il tema della moda come un mezzo anziché un fine, riuscendo ad avvicinare con una rigorosa strategia narrativa (sino a correre il rischio di estenuare gli spettatori) i misteri della creazione artigianale/artistica a quelli dei rapporti amorosi/morbosi di coppia.

Il fatto che il film pretenda e meriti un attenzione spasmodica è certificato dal titolo originale Phantom Thread, Il filo fantasma, perché la struttura registica opera come un campo magnetico dell’impenetrabile, il non detto o mostrato (come il sesso sempre relegato dietro porte chiuse) proprio come Reynolds cuce negli orli o le fodere degli abiti i suoi messaggi segreti. Quando nel cerchio magico della maison viene ammessa Alma (Krieps), una timida cameriera più vicina ai ritratti di Vermeer che ai cliché della “femme fatale”, s’avverte dapprima solo una scossa; tanto più che la giovane –non scacciata come le abituali amanti dopo qualche notte- è sottoposta all’inflessibile tutela della sorella dell’egotistico guru chiaramente ispirata al modello hitchcockiano dell’inquietante governante di Rebecca, la prima moglie. Diventata prima musa e modella e poi moglie, però, Alma diventerà una “donna che visse due volte” in grado trasferire tonalità fotografiche, suoni, musica, ritmi di ciascuna sequenza, se non inquadratura del film dalla commedia romantica al noir sadomaso. La genialità di Anderson sta nell’abolire le facili chiavi dello psicologismo per lasciare campo libero all’ovattata violenza dei giochi perversi che nei protagonisti fungono da contrappunto alle rispettive strategie di potere.

Il filo nascosto: la follia irridente di Anderson

Opaco e sinuoso, Il filo nascosto serve due attori indefettibili che si misurano sulla scena di un’epoca (gli anni ’50) sensibile alla seduzione cinegenica e in una relazione più complessa di quella che il quadro iniziale lasciava immaginare. Daniel Day-Lewis, maestro del linguaggio e della verità del corpo a discapito dell’eloquenza, trasforma il suo nel recettore di passioni di un personaggio privato di tante parole e dotato di un’aggressività a fior di pelle. Daniel Day-Lewis appartiene di fatto a quegli attori prossimi all’afasia, la cui rivolta sorda traspira dal corpo e la verità di un ruolo arriva necessariamente dall’interiore. Per l’attore inglese la performance è sempre un gesto da automatizzare, una vita da assimilare, una psicologia da dominare. A rischio di dannarsi. Questa intensità spiega una carriera e un ruolo, l’ultimo ha dichiarato l’interprete, che coltivano esigenza e rigore. Il ritratto di uno stilista senza concessioni, devoto alla sua arte, funziona come una metafora della maniera notoriamente intensa dell’attore di affrontare la sua. Il regista, che ritrova Daniel Day-Lewis dieci anni dopo Il petroliere, è d’altronde anche lui un maniaco assodato del dettaglio che aggiunge un’altra mano di senso a un’opera confezionata imbastendo sottotesti.

Alla maniera dei tessuti selezionati da Mr. Woodcock, gli ultimi tre film di Anderson assomigliano più a fili incrociati di trama e di ordito che alle vecchie costruzioni corali. Al climax violento o assurdo (il colpo di pistola di Boogie Nights o la pioggia di rane di Magnolia), subentra una follia lucida e irridente che minaccia i piani a ripetizione, che smarrisce gli sguardi nel fuori campo, che promette scarti, che disegna fughe interrotte. Come quella di Reynolds Woodcock davanti al sorriso enigmatico di Alma, che colloca il film tra veglia e allucinazione, lasciando planare il dubbio sul loro confine.

La determinazione di far cedere l’altro all’amore senza condizioni

Il regista di riferimento per Il filo nascosto è François Truffaut (sebbene siano più profondi sono i riferimenti letterari, come certi racconti di Henry James dominati dall’opposizione tra vita e arte e dall’attrazione-terrore per la donna), che Anderson ha descritto come l’unico in grado di “assalirlo emotivamente” perché “rispetta le regole, ma ad un certo punto ci butta sopra qualcosa di punk rock”. E il paragone è con un film di Truffaut in particolare: La mia droga si chiama Julie.
Sia Il filo nascosto che La mia droga si chiama Julie raccontano un’ossessione amorosa, o meglio, la determinazione di uno dei due personaggi a far comprendere all’altro la natura profonda dell’amore, e a convincerlo a cedervi senza condizioni. E in entrambi il grimaldello per sbloccare la relazione di coppia è il veleno. Ma le relazioni fra i personaggi sono diversamente incrociate. Ne La mia droga si chiama Julie infatti è Louis (Jean Paul Belmondo) ad essere così travolto dal sentimento per Julie (Catherine Deneuve) da accettare, come estrema prova d’amore, che lei gli somministri un topicida. Nel romanzo originale, Vertigine senza fine di William Irish, la morte dell’uomo era il finale. Nel film del terminalmente romantico Truffaut il finale suggerisce invece l’inizio di una nuova fase della storia d’amore fra Louis e Julie, quella in cui la donna si rende finalmente conto di potersi abbandonare a quell’uomo diverso da tutti quelli che l’hanno preceduto e al suo amore incondizionato, che come tale richiede una resa totale.

Il filo nascosto è dunque anche un autoritratto deformato attraverso il suo protagonista esteta-asceta, ma risulta essere proprio l’opposto di un gioco auto-referenziale: mentre riflette su di sé, si sporge sull’ignoto, affrontando il rapporto tra maschile e femminile come opposizione primaria e storica. La struttura da romance allegorico permette un’abbagliante riaffermazione delle potenzialità del cinema, che vanno molto oltre la semplice narrazione. Il filo nascosto è in equilibrio mirabile tra una fortissima sensualità (è come se il film cercasse di rendere visibile anche l’olfatto, il gusto, il tatto) e, a partire da essa, una dimensione teorica non astratta, ma fatta della sostanza di ciò che si vede. Anderson racconta il tentativo di creare una donna, che diventa invece il riconoscimento dell’altro e il riconoscimento della propria finitezza da parte dell’uomo; ma lo fa in maniera allusiva, in una parabola senza morale. Lo spettatore è continuamente spiazzato, fino a un epilogo quasi beffardo. Il film tuttavia non è mai cervellotico: se è impervio, è per l’intensità di ogni inquadratura, di ogni movimento di macchina, per la sottile ambiguità che attraversa ogni gesto, come leggere pieghe nel tessuto del film.

 

Fonti:  http://www.mymovies.it/film/2017/phantom-thread/

Il filo nascosto

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