Lo stoicismo etico di Eugenio Montale

<<Per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni>>. Queste le parole che delineano la motivazione del Premio Nobel per la Letteratura, consegnato nel 1975 ad Eugenio Montale, poeta, giornalista, traduttore, critico musicale e scrittore, tra le colonne portanti del Novecento.

La concezione poetica di Montale appare disillusa, critica e realistica. Non a caso la sua raccolta principale è intitolata Ossi di seppia, ad esprimere la condizione di una vita “strozzata”, che non riesce a conoscere l’esistenza in senso pieno.

Montale non ha da offrire “illuminazioni” ungarettiane; non è portatore di verità assolute e la sua poesia non si prefigge lo scopo di garantire all’uomo la via unica, sicura ed infallibile verso la conoscenza di sé e del mondo. La poesia, per l’autore, può essere solo uno strumento di indagine e testimonianza, quello che rappresenta il tentativo più alto e dignitoso, di cui l’uomo può far sfoggio per affermare, al di là di quella che è la condizione dilaniante dell’esistenza (questa, una concezione influenzata anche dal terribile divenire storico del  ventesimo secolo), la comunicazione con altri esseri umani, la presa di coscienza della propria fragilità, incompiutezza, debolezza; è questa la consapevolezza, secondo Montale, che rende “ degno” l’uomo. L’essere umano, spogliato, messo a nudo da un’esistenza amara e soffocante, divenuto “osso”, si riscopre ancora uomo, ancora vita, nonostante tutto.

Montale dunque esalta lo stoicismo etico, la compostezza di chi, al di là dei dubbi, delle incertezze, degli ostacoli, delle nefandezze di cui è pregna l’esistenza, riesce comunque a compiere il proprio dovere, a conservare quel barlume di dignità, portando con una rassegnazione che sa più di coraggio, quel malessere del vivere, che è il “manifesto sociale” del Novecento.

Questa “lucidità” con la quale Montale ci racconta il mondo, in ambito poetico è traslata in un simbolismo denominato “correlativo oggettivo”, che dà vita ad una poesia profonda, piena, ricca, specchio dell’esistenza, dove l’inconoscibile dell’esistenza sembra palesarsi in superficie, ma ad ogni verso, lo riscopriamo sempre lì, in profondità, mai fino in fondo scopribile, conoscibile. Eppure, in quest’analisi attenta ed obiettiva della vita, anche Montale, in alcune liriche, si “mette a nudo”, permettendoci di penetrare quell’involucro di “critico”, per scorgere più a fondo il meraviglioso poeta e il suo animo sensibile. Ne è un esempio lampante la poesia Ho sceso, dandoti il braccio,dedicata alla moglie, che fa parte della raccolta Satura del 1971, dove il poeta ci parla d’amore, dell’amore coniugale, quello forte, profondo, che si costruisce tra le macerie, le difficoltà, le ostilità di una vita a volte, fin troppo ostica. Ma il romanticismo del Montale è sempre coerente con i principi della sua poetica. Egli infatti,  non ha bisogno di proiettare speranze, illusioni, mondi magici ed incantati per descrivere il legame che tiene unito i cuori dei due innamorati. Non ci parla di un amore che dissolve le difficoltà, di un mondo, quello dei due amanti, che si estranea dalla realtà.

Montale ci parla di un amore che si sublima nella realtà, che si suggella nelle difficoltà; è sempre l’esistenza, reale, schietta, lucida, cruda, il punto di riferimento costante della sua opera. Le scale infatti sono metafora della vita. L’atto di scenderle, metafora della fatica, della stanchezza di affrontarla ma anche della volontà, della dignità della quale si arma l’uomo, passo dopo passo, caricandosi sulle spalle quel malessere del vivere, che in questo caso, condiviso, diviene meno pesante.

E Mosca, sua moglie, così denominata per la sua miopia, diviene l’emblema della sensibilità, di colei che fa del suo punto debole, un proprio punto di forza. Non vede con gli occhi, ma con il cuore e diviene così un modello per il marito, perché riesce a leggere l’esistenza con quella profondità d’animo, di cui pochi sono dotati, superando il limite umano del non saper cogliere l’essenza dell’esistenza.

Montale, vivendo il lutto della perdita della moglie, si rende conto che quel braccio che le porgeva nella traversata della vita, era soltanto d’aiuto, da sostegno, ma il vero pilastro di quella traviata dell’esistenza, era la donna, era Mosca. E riscopre così che la miopia più invalidante è quella del cuore. Mosca aveva visto, aveva capito: l’essenza delle cose è oltre la realtà stessa, non si scorge, non si comprende, ma è lì, c’è ed esiste, e questa consapevolezza basta a far acquisire una visione della vita più piena, più profonda, più veritiera.

L’esempio della moglie rafforza il pensiero portante della poetica e di quello che poi diviene lo “stile di vita” dello stesso Montale: la realtà non è quella che si vede con gli occhi e si percepisce con i sensi, fatta di impegni e casualità, insidie e delusioni, ma è qualcosa che va al di là delle apparenze e resta misterioso per l’uomo.

Dunque, il ruolo del poeta non è quello del profeta, bensì quello di testimone, e non potrebbe essere altrimenti. Montale, infatti, rifiuta l’idea che al mondo   vi siano delle leggi certe, immutabili, di cui si possa far portatore. Il poeta non può e non deve essere annunciatore di “fedi sicure”. Egli infatti afferma:

 

“Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. (Non chiederci la parola, dalla raccolta Ossi di seppia)

 

Il poeta è uomo tra gli uomini; non offre mere  speranze, ma è proprio questa lucida razionalità il riscatto più grande per l’uomo stesso, ciò che gli permette di non soccombere in uno sconfinato pessimismo, ma di essere cosciente della propria condizione, della propria realtà, con onore. Mosca, coraggiosamente, aveva smesso di preoccuparsi, di arrancare, di rincorrere gli affanni di una vita menzognera. Le sue pupille malate, divengono ora, agli occhi del Montale, l’unica guida sicura, esempio da seguire. Il tema del “vedere” viene così spostato dal piano fisico, a quello metaforico, simbolico, grazie alla forza dell’amore.

Montale, dunque, come la moglie, non scappa dinanzi la vita, neanche ora che è affranto, dilaniato dal dolore della sua perdita ed è il “vuoto ad ogni gradino”; nonostante tutto, il suo “viaggio continua”. Il poeta, con straordinaria sensibilità artistica, servendosi della sua vena critica, ha tracciato un excursus sull’amore all’insegna della lucida e razionale osservazione dell’esistenza, creando un binomio perfetto tra mente e cuore, classicismo e modernità.

Montale ha vissuto un’epoca difficile, il Novecento, secolo ricco di inquietudini e malesseri, ma ha saputo rappresentarlo al meglio, non soffermandosi solo all’aspetto scontato del più generico pessimismo, ma scandagliando a fondo ogni sfaccettatura, mostrandoci come la consapevolezza del “male” sia, talvolta, l’unica salvezza, l’unica possibile rinascita.

Queste, le parole che possono essere considerate il manifesto poetico della sua intera opera:

“…Preferisco vivere in un’età che conosce le sue piaghe piuttosto che nella sterminata stagione in cui le piaghe erano coperte dalle bende dell’ipocrisia..”

Rassegnazione o coraggio?

 

 

Camillo Sbarbaro, una vita ad occhi chiusi

Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure, 12 gennaio 1888 – Savona, 31 ottobre 1967), nato in provincia di Genova, si trasferisce nel 1904 con la famiglia a Savona dove consegue il diploma di licenza. Nel 1910 trova lavoro in un’industria siderurgica. Il suo esordio poetico avviene un anno dopo con il volumetto di poesie dal titolo “Resine”, che sarà rifiutato dall’autore stesso.

Nel 1914 pubblica “Pianissimo” la sua raccolta più significativa. Nello stesso anno si trasferisce a Firenze dove conosce Papini, Campana e altri artisti che facevano parte della rivista “La voce”: proprio grazie a loro collaborerà con la rivista. Quando scoppia la grande guerra, Sbarbaro lascia l’impiego e si arruola come volontario nella Croce Rossa Italiana e nel febbraio del 1917 viene richiamato alle armi. A luglio parte per il fronte. Scrive in questo periodo le prose di “Trucioli” che verranno pubblicate nel 1920 a Firenze da Vallecchi. Lasciato il lavoro nell’industria siderurgica, si guadagna da vivere con le ripetizioni di greco e di latino, appassionandosi sempre di più alla botanica e dedicandosi alla raccolta e allo studio dei licheni, sua vera passione.

Camillo Sbarbaro ha condotto una vita appartata, sostentata dopo l’abbandono dell’industria con ripetizioni di latino e greco. Muore nel 1967. La sua poesia rientra nell’espressionismo più per i temi che per lo stile: le scelte formali sono lontane dalla tensione violenta degli espressionisti contemporanei. Il lessico è banale e quotidiano, e lo stile prosastico con l’influenza della metrica tradizionale. Anche se la materia è autobiografica Sbarbaro riesce a scrivere poesie che trattano con distacco la sua stessa vita, dovuta evidentemente da una scarsa vitalità. Il protagonista degli episodi narrati si presenta come un fantoccio o un sonnambulo che vive la vita alienante in condizione di oggetto e non di soggetto. Al poeta non resta altro che guardarsi dall’esterno diventando spettatore di sé: è questo il tema dello sdoppiamento che caratterizza tanto la poetica di Camillo Sbarbaro.

La freddezza della poesia di Sbarbaro è sicuramente un’auto repressione dovuta al contrasto del desiderio di una vita autentica e la sua impossibile realizzazione. Così come il protagonista è arido così il paesaggio in cui vive, la città è un deserto in cui è impossibile interagire con le persone e gli oggetti della civiltà moderna.

Negli anni 20 del ‘900 conosce Eugenio Montale che gli dedicherà un saggio nella raccolta “Auto da fè”: fu tale l’elogio che indusse Montale alla confessione di aver scelto il titolo della sua raccolta “Ossi di seppia”, proprio in onore di Sbarbaro e della sua poetica dello scarto. La poesia ormai è un residuo, è stata messa ai margini e ormai non può rispondere all’agonia del mondo. È questo il motivo che indusse i poeti al forte soggettivismo autobiografico. Camillo Sbarbaro diventa così un paradigma per Montale, poiché con la sua poetica rivive e fa rivivere la condizione di crisi del poeta nel 900.

I temi centrali della poetica sbarbariana sono quindi il doppio, lo scarto e la chiaroveggenza, intesa come la consapevolezza di un poeta sincero e onesto che ha imparato a conoscere sé, nel tentativo di risvegliare il distratto viandante che non si volta. È evidentemente una denuncia sociale nella quale egli non nega uno spiraglio di salvezza per l’uomo, ma neppure l’afferma.

Le due raccolte più importanti di Sbarbaro sono “Trucioli” e “Pianissimo”:

Pianissimo” è un canto cupo di sconforto per la condizione del poeta e dell’uomo in generale. è una poesia della disperazione e della sofferenza tutta personale. I motivi ricorrenti in questa raccolta sono dunque: lo sconforto universale e la condizione di sofferenza individuale. La critica che muoverà Montale alla raccolta, volta a riconoscerne il limite, è l’impossibilità e l’inadeguatezza di Sbarbaro di coniugare questi due aspetti: egli non riesce a farsi carico di una voce universale, tema tanto caro a Montale.

“Trucioli” sono pagine di diario, fogli volanti, in cui il tema centrale è lo scarto, visibile dal nome stesso della raccolta. Sbarbaro cammina “con un terrore da ubriaco” tra la gente che non comprende, in un luogo che non sente familiare. Egli galleggia come il sughero sull’acqua. Il poeta riesce a descrivere la condizione di sofferenza personale, soffermandosi anche sulla Natura che però è vista come mondo crudele. Per questo motivo è possibile rinvenire Leopardi e i poeti francesi del 900 per il tema della solitudine.

Dalla raccolta “Pianissimo” proponiamo “Taci, anima stanca di godere”:

Taci, anima stanca di godere

e di soffrire (all’uno e all’altro vai

rassegnata).

Nessuna voce tua odo se ascolto:

non di rimpianto per la miserabile

giovinezza, non d’ira o di speranza,

e neppure di tedio.

Giaci come

il corpo, ammutolita, tutta piena

d’una rassegnazione disperata.

 

Non ci stupiremmo,

non è vero, mia anima, se il cuore

si fermasse, sospeso se ci fosse

il fiato…

Invece camminiamo,

camminiamo io e te come sonnambuli.

E gli alberi son alberi, le case

sono case, le donne

che passano son donne, e tutto è quello

che è, soltanto quel che è.

 

La vicenda di gioia e di dolore

non ci tocca. Perduto ha la voce

la sirena del mondo, e il mondo è un grande

deserto.

Nel deserto

io guardo con asciutti occhi me stesso.

 

È evidente in questa poesia la principale aspirazione anti-dannunziana che ha come obiettivo la sliricizzazione del verso. Già i crepuscolari e Gozzano aprono la via per questa strada, ma Camillo Sbarbaro è il poeta che forse ha raggiunto i risultati più mirabili. Come afferma Mengaldo, Sbarbaro è “il primo vero esempio in Italia di poesia che torcesse radicalmente il collo all’ eloquenza tradizionale”. La lingua è assai vicina a quella del parlato quotidiano, con assenza di fenomeni polisemici e un uso parco di metafore. Queste scelte stilistiche sono il simbolo di un pacato colloquio con se stesso, che rappresentano la pietrificazione e inaridimento interiore, che fanno di Sbarbaro l’esempio calzante della crisi della coscienza moderna.

 

Eugenio Montale: poeta metafisico dell’essenziale

Il poeta della negatività, della corrosione critica dell’esistenza, ma anche uno scettico o addirittura uno snob o un borghese onesto al di sopra della mischia, restio ad essere catalogato come chierico rosso o nero. Al più, la tragica testimonianza di una coscienza intellettuale che ha rimosso i conflitti politici del nostro tempo, sostituendoli con una condizione <<eterna>> di solitudine e di incomunicabilità.” Così è stato definito Eugenio Montale, uno tra i più grandi scrittori italiani, nato a Genova il 12 Ottobre 1896 da un’agiata famiglia borghese. Egli rifiuta di attribuire un valore assoluto e istituzionale alla scelta della poesia ed aspira a scrivere “sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale”: l’attività poetica non rappresenta per lui un mezzo mediante il quale spillare il senso profondo, intimo, segreto della vita, ma uno strumento di contatto con la realtà del presente, con lo scenario storico-sociale-naturale circostante. L’arte è per lui una forma di vita “alternativa”, che parte da un rifiuto della vita reale e da una non partecipazione al flusso distruttivo della natura e della storia. Queste le parole del Montale sulla figura del “poeta laureato”: “Io non attribuisco nessun particolare privilegio alla posizione dell’artista nella società, nessun merito specifico. L’idea classicistica del poeta che vive in mezzo agli uomini con l’alloro in testa , mi sembra un relitto di cui bisogna assolutamente liberarsi”.

La vita dello scrittore consta di motivi biografici meno significativi di quanto invece accade per poeti quali Saba o Ungaretti. Tuttavia, vive un’adolescenza difficile dove inizia ad emergere un senso di distacco dalla consueta vita borghese, un distacco che caratterizzerà profondamente la sua opera, mostrandoci, al di là della borghesia operosa e in ascesa, al di là della secolare fatica dell’uomo e della sua famiglia che ne è diretta rappresentazione nella mentalità e nei costumi ( il padre infatti dirige un’importante azienda di prodotti chimici), quella che è una natura opprimente, una realtà che in tutte le sue sfumature cela la pena di un male di vivere consustanziale nelle cose.

Da sempre appassionato di arte, studia dapprima musica per poi dedicarsi alla letteratura. Come molti scrittori del tempo, anche lui viene arruolato. La prima pubblicazione poetica risale al 1922 denominata “Accordi”, mentre il suo libro “Ossi di seppia” è del 1925. Nell’ambito politico chiara è la sua avversione al movimento fascista, quando nello stesso anno appone la sua firma al manifesto antifascista di Croce, un’opposizione che gli costerà l’espulsione dalla direzione del gabinetto di Vieusseux, seppur non condividendo i limiti troppo nazionali e tradizionali del crocianesimo, ma cercando un confronto con il mondo molto più problematico. Nell’immediato post guerra, fonda insieme a Bonsanti e Loria il quindicinale “Il Mondo”, ma dinanzi alla situazione conflittuale del dopoguerra, cadono le speranze di un orizzonte europeo laico ed illuminista. Montale ritiene infatti che la guerra più grande a cui è chiamato l’uomo sia quella contro l’ arroganza e la presunzione della stessa umanità, restia ad accettare di essere soltanto una minima parte dell’universale ingranaggio cosmico.

Nel 1939 pubblica “Le occasioni”. Viene a contatto con i più grandi intellettuali dell’epoca, primi fra tutti Svevo ed Ezra Pound. Lavora come giornalista al “Corriere della Sera” per poi pubblicare nel 1956 La bufera ed altro” e nel 1971 “Satura”. Nel 1980 nasce l’edizione critica di tutta la sua intera attività culturale, col titolo di “Opera in versi”. D’obbligo, nel 1975 è l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura ad uno scrittore considerato modello di cultura laica e liberale, di discrezione e di civiltà. Un uomo, Montale, poco propenso alle sbavature sentimentali, ai miti dell’ottimismo, che spesso schivo e reticente verso la propria stessa esistenza, può sembrarci alteramente rinchiuso nella “cittadella” del proprio io; ma in realtà è proprio il distacco, l’apparente non coinvolgimento, la sua “solitudine” che fanno della sua arte il dono grandissimo di comunicare “l’essenziale”, di scoprire la distanza abissale tra un io, lacerato dalle contraddizioni, e gli altri. Muore a Milano il 12 Settembre 1981.                                                                                                                                                                             Montale ha svolto anche una lunga attività di critico e traduttore che lo porta a contatto con le letterature straniere, specialmente francese e inglese. Dalla poesia francese ed in particolare da Baudelaire riprende la volontà di uscire da un orizzonte linguistico e tematico già dato, di valicare i limiti della realtà, mosso da un imperativo intellettuale e morale, che sembra richiamare le famose parole di Ulisse del canto ventiseiesimo dell’Inferno dantesco : “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. La sua poesia è   plasmata per conoscere, interrogando, il presente; per immergersi laicamente e razionalmente anche negli aspetti più inquietanti della realtà e della coscienza umana  prendendo atto della profonda solitudine dell’uomo e riconoscendo dinanzi a ciò i limiti e la marginalità della stessa poesia; una “scoperta”, questa, che lo porta a tenere il discorso, per l’assegnazione del premio Nobel, dal titolo: “E’ ancora possibile la poesia?”                                                                             

A questa domanda Montale non ci lascia una vera e propria risposta, ma esprime una condizione della poesia “martoriata” dalla “quantità estrema di parole che percorrono la terra”. A differenza di Ungaretti che propone un ermetismo conciso e tagliente, Montale va creando una poesia metafisica nata dal contrasto tra ragione e qualcosa che non è ragione; una poesia che si immerge razionalmente negli oggetti che va descrivendo per trarre alla luce ciò che in essi vi è di irrazionale; una poesia che ha uno scopo ma che al contempo è anche consapevole dei limiti di tale scopo. Questo tipo di poesia è stata definita “ poetica dell’oggetto”, richiamandosi al correlativo oggettivo di Eliot.

La poetica montaliana è un tipico esempio di come mediante l’attività letteraria si possano perfettamente conciliare classico e moderno. Innanzitutto la moderna “ricerca antropologica” condotta dal poeta assume connotati classici. Guarda al mondo dei grandi classici non per farne sfoggio di preziose citazioni, ma se ne avvicina in maniera critica, ricercando ciò che in essi serve a comprendere la realtà presente. Si uniscono così linguaggio tradizionale e moderno. Da Leopardi, il poeta ligure riprende l’inquieta interrogazione del nulla, dal Petrarca una ricerca di equilibrio perfetto, da Dante la ricchezza espressiva.

In Ossi di seppia già il titolo ci dà il senso  di questa poetica. L’osso infatti è metafora delle cose ridotte alla loro nuda e scarna esistenza. Questo spogliarsi delle cose rompe i consueti equilibri quotidiani, disintegra le maschere sotto le quali la realtà si cela, ci svela il vuoto in cui consiste il vivere personale e naturale. La voce del poeta, con quell’atteggiamento razionale e critico che lo contraddistingue, si immerge nel paesaggio, spesso quello ligure, descritto sull’onda dei ricordi dell’infanzia, senza però confondersi in esso, dove ogni barlume di speranza, di un attingere ad una vita più autentica e migliore, si risolve in una disillusione.  Non c’è una salvezza certa, non c’è un valore assoluto e definitivo della parola poetica. Tutto il libro è attraversato dal presupposto di una crisi gnoseologica che vieta l’adesione a confortanti certezze.  La poesia montaliana invita a  riflettere, non annuncia blande promesse:

“ …..Non domandarci la formula  che mondi possa aprirti,                                                                                              

  sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.                                                                                                              

   Codesto solo oggi possiamo dirti,                                                                                                                       

   ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.” 

Nelle Occasioni significativo è il discorrere con alcune figure di donne, generalmente donne reali, conosciute per momenti brevissimi, portatrici di un messaggio: il tentativo  di trovare la luce in un mondo buio e negativo. Un tentativo labile, che emerge come squarci di luce improvvisi nell’oscurità, che si risolve come la fiamma che brucia e poi immediatamente si spegne divenendo cenere. Rappresentano un’ultima, drammatica difesa contro la barbarie del mondo, una possibilità comunque insufficiente per “poter mutare le cose del mondo”:

“………La vita che dà barlumi                                                                                                                                                   

  è quella che sola tu scorgi.                                                                                                                                                                 

    A lei ti sporgi da questa                                                                                                                                                                                           

 finestra che non si illumina.”

Nella Bufera ed altro abbiamo un aspetto romanzesco del libro, che fa sì che si ponga un intreccio tra i segni della realtà contemporanea e la vicenda d’amore per una donna salvatrice. Una donna che richiama solo in parte quella stilnovistica, in quanto conserva tracce di un sottile erotismo, non distrugge la sensualità. Il “tu” femminile con il quale il poeta dialoga si identifica innanzitutto con Clizia, figura mitologica che nasconde in realtà la vera identità di Irma Brandeis, studiosa americana, simile alla lontana e inafferrabile Laura petrarchesca; poi passa a colloquiare con Mosca, più concreta e vicina e infine  con Volpe che in realtà è come se rappresentasse il passaggio da un piano “angelico” ad uno più propriamente terrestre, divenendo molto meno inafferrabile delle precedenti. La donna montaliana diviene simbolo che reca in sé tesi e antitesi, positivo e negativo, funzionale e antifunzionale. Comporta attraverso alcuni “segni preziosi” la funzione di opporre alla degradazione e alla violenza del presente, qualcosa di “altro”, ma al contempo essa stessa distrugge questa funzione, e gli stessi segni diventano simboli di distruzione e morte. La donna è inoltre simbolo della poesia, che da un lato tenta di resistere, di offrirsi come ultimo dono civile in un mondo incivile, e dall’altro soccombe:

“..il lampo che candisce                                                                                                                                                             

alberi e muro e li sorprende in quella                                                                                                                                         

  eternità d’istante….”                                                                                                                                                                

Il lampo è dunque metaforicamente simbolo della verità che , attraverso la donna, si svela per un attimo nell’oscura tragedia della guerra e della storia in generale.  Una verità che come abbiamo detto non può essere attinta fino in fondo e ce lo dimostra la chiusa di questa poesia, con la donna che ritorna nell’oscurità del buio:

“…mi salutasti-per entrar nel buio.”

Eugenio Montale ci ha lasciato una profonda testimonianza della sua poetica; la testimonianza di un uomo, che tra classicismo e modernità è stato interprete critico e razionale del suo tempo, comprendendo a fondo le contraddizioni di una società tanto complessa come quella del Novecento e vedendo molto più lontano di tanti programmi ideologici proiettati nel futuro; lasciando aperto uno spiraglio di speranza, sebbene, come si è visto, Montale non fosse incline alla fede come Ungaretti.

 

 

 

“Le carabattole”, di Eugenio Montale

autoritratto di Montale

Diario del ’71-’72 è una delle ultime raccolte di Eugenio Montale che continua in qualche modo la linea poetica di “Satura”; assume toni più attenuati, lievi, sussurrati come segreti ma non abbandona l’ ironia e la parodia. Oscillando tra pessimismo e ottimismo il poeta vuole confrontarsi con il linguaggio della cultura contemporanea; percepisce una società che trascina come un vortice, dove tutto è deciso da ingranaggi incontrollabili e prestabiliti. L’unica forma di comunicazione e di sopravvivenza nella società di massa che sempre più sembra trasformarsi in una trappola, rimane la poesia; eppure diventa impossibile muoversi perché il mondo ha subito una «decozione/di tutto in tutto» e «vede il trionfo della spazzatura». Il poeta allora decide per un «rispettabile prendere le distanze» che rappresenta il fuggire da un presente che sembra non avere più nulla da dare, ma l’unico modo possibile che gli consente di osservare i movimenti, i gesti, i rumori e le voci di una vita oramai artificiale e lontana.

Eppure, nonostante tutto, la poesia non gli garantisce più nessuna salvezza, anche la Musa è stata sporcata dalla lordura e dalla degradazione. Cerca di fissare alla pagina il vuoto, quella percezione di mancanza che travolge il suo tempo. Guarda, osserva e dissacra tutto cioè che è condizionato, illusorio, ogni tentativo di persuasione e di convincimento fallace e grigio; nel piatto modernismo che avanza, le esistenze si susseguono senz’anima, l’umanità pensa e cammina tutta allo stesso modo, è fatta in serie e tutto ciò in cui crede è insensato e senza fede colorato da scialbi e inefficaci dogmi di poca verità. In questa crisi senza freni dove il crollo e la decadenza sono l’unica certezza si affaccia in questa poesia il tema della morte, che si colora di tinte inusuali e fosche.

Il poeta percepisce l’intera umanità come un mondo di morti-viventi o di viventi-morti: «chi sta sul trampolino/è ancora morto,morto chi ritorna»; sembra non esserci davvero più speranza quando scrive che «tutti siamo già morti senza saperlo». L’insopportabile peso della realtà che non ha più spessore sembra travolgere ogni piega dell’esistenza, gli oggetti, i luoghi, i ricordi, il tempo stesso. Eppure in questo pessimismo venato di esistenzialismo e metafisica c’è un luogo nascosto, segreto, che custodisce e immortala la vera sofferenza di Montale. Ed è proprio Nascondigli il titolo della poesia in cui Montale sussurra il suo dolore, il suo dispiacere; dedicata alla moglie, Drusilla Tanzi, morta nel 1963, affettuosamente soprannominata Mosca per lo spessore dei suoi occhiali. In questi versi assistiamo quasi ad una confessione: la quotidianità è difficile da vivere, rimbalza tra gli oggetti cari, e fa stringere il cuore:

Quando non sono certo di essere vivo la certezza è a due passi ma costa pena ritrovarli gli oggetti, una pipa, il cagnuccio di legno di mia moglie, un necrologio del fratello di lei, tre o quattro occhiali di lei ancora!, un tappo di bottiglia che colpì la sua fronte in un lontano cotillon di capodanno a Sils Maria e altre carabattole. Mutano alloggio, entrano nei buchi più nascosti, ad ogni ora hanno rischiato il secchio della spazzatura. Complottando tra loro si sono organizzate per sostenermi, sanno più di me il filo che le lega a chi vorrebbe e non osa disfarsene. Più prossimo negli anni il Gubelin automatico tenta di aggregarvisi, sempre rifiutato. Lo comprammo a Lucerna e lei disse piove troppo a Lucerna non funzionerà mai. E infatti…

Immerso nelle carabattole, “Ossi di seppia” che ancora invadono il suo cammino, Montale è circondato dagli oggetti che gli ricordano la sua Mosca; sono lì, feticci insostituibili di un’esistenza che non c’è più; occhiali che non potranno più vedere, un necrologio che non potrà mai essere letto, un tappo di bottiglia che non colpirà più nessuna fronte; oggetti che complottano per tenere vivo il filo della memoria, amati ed odiati che rischiano di essere buttati via; si nascondono, si negano, si manifestano, sono come la memoria che nonostante faccia male non può essere cancellata. E poi infine appare l’oggetto più prezioso di tutti, un vecchio orologio, imponente simbolo della vita e della morte. Questa volta il tempo si è fermato per il nostro poeta, il Gubelin automatico, ricordo adorato e melanconico, non funziona più; forse si è fermato proprio lì a Lucerna, e ha smesso di funzionare, dispettoso, molesto quasi a ricordargli un tempo che non potrà più tornare.

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