Cannes 2024: ‘Anora’ vince la Palma d’oro. Se questo è il nuovo cinema americano

La Palma d’oro 2024 va al Sean Baker di Anora, narratore indie dell’America diseredata con una speciale attenzione per gli hustlers, gli spiantati che campano di espedienti, e per i lavoratori del sesso in particolare. Li considera, uomini e donne, il nuovo proletariato. Il suo film-troppo lungo- sembra all’inizio una replica di Pretty Woman, con una Cenerentola lap dancer che lo svitato rampollo di un oligarca sposa per gioco. Ma poi diventa una scorribanda mozzafiato con bodyguards e genitori nababbi impegnati a ricacciare Cenerentola nel fango da cui è venuta. Solo i perdenti possono darsi, tra loro, comprensione e conforto, e questo avverrà. E’ il più bel film del concorso? Naturalmente no.

Emilia Pèrez, il mélo in musical di Jacques Audiard che ha avuto comunque due premi, il Prix di Jury e la Palma collettiva per l’interpretazione femminile al quartetto protagonista: l’attrice transgender Karla Sofìa Gascon, Zoe Saldana, Adriana Paz e Selena Gomez, avrebbe meritato il premio più ambito.

E’ troppo facile premiare le donne perché fa tanto “femminista impegnato”. Il Gran Premio della giuria, secondo in ordine di importanza, è andato a All we imagine as light della documentarista indiana Payal Kapadia, debuttante nella finzione, con le storie intrecciate di tre donne emarginate da una Mumbai caotica e ostile. Altra regista donna, Coralie Fargeat, premiata per la sceneggiatura di The Substance, un body-horror per palati robusti che denuncia l’asservimento delle donne all’imperativo maschile che le vuole belle, giovani e sode e le cestina sopra i 50. Con una impavida Demi Moore.

E’ discutibile anche il premio per la regia a Grand Tour del portoghese Miguel Gòmez: è il film meno originale della sua carriera, mentre il Jesse Plemons miglior attore per Kinds of Kindness di Yorgos Lanthimos risarcisce un film di sottile humour noir massacrato dalla critica. Restano fuori in tanti, a torto o a ragione: il più vicino a noi è Paolo Sorrentino, che racconta una storia di donna ma con sguardo maschile, il più glorioso è Francis Ford Coppola, col suo pirotecnico sogno di una vita, Megalopolis.

Insomma la giuria presieduta da Greta Gerwig ha assegnato il premio per la miglior attrice a ben quattro interpreti a pari merito: Adriana Paz, Zoe Saldana, Karla Sofia Gascon e Selena Gomez, Karla Sofìa Gascòn, che ha iniziato la sua transizione di genere all’età di 46 anni, è la prima attrice transgender a vincere questo premio. Tutto nella norma.

Il film vincitore racconta tuttavia racconta di una ragazza che sogna di diventare una principessa, una prostituta di Brooklyn,  che ha la possibilità di vivere una storia da Cenerentola quando incontra e sposa il figlio di un oligarca russo. Pellicola curiosa e divertente che consente di fare qualche annotazione in relazione:

Una ragazza di oggi sogna la favola, l’agiatezza, la bella vita, e nel frattempo pratica la propria libertà ed emancipazione facendo la sex worker (come direbbero quelli che parlando bene e che non discriminano!);

per fare ciò la ragazza ha bisogno degli uomini;

sempre la ragazza viene dipinta come l’eroina della vicenda, in quanto donna libera che si “autodetermina” e che smaschera le ipocrisie dell’alta società di cui vorrebbe far parte;

I genitori del ragazzo russo non vogliono avere a che fare con una nuora americana ex spogliarellista e prostituta;

il regista americano prende in giro l’oligarca russo e rappresenta la protagonista, un russa americana, come una sex worker in nero (che originalità).

Una rivisitazione senza troppe ambizioni dunque, di Pretty Woman, Anora, film che secondo alcuni rappresenterebbe il nuovo cinema statunitense, lontano da quello dei grandi maestri, un cinema di piccole storie e nella fattispecie una storia con un protagonista maschile ricchissimo ed idiota e una ragazza sveglia, che “deve” muovere il sedere in faccia alla gente per dimostrare di avere potere sugli uomini.

Anora sembra raccontare solo di una generazione che dà per scontato di doversi vendere. Il regista stira allo stremo ogni idea e questo forse indebolisce Anora anziché rafforzarlo, a maggior ragione considerando il fatto che l’intera trama è completamente prevedibile e non presenta nessuno scostamento da quanto uno spettatore minimamente avveduto possa dedurre dal primo quarto d’ora, per quanto riguarda la prima metà, e poi dall’ingresso in scena degli sgherri e soprattutto dell’attento e gentile Igor per quanto riguarda lo sviluppo che porterà alla risoluzione.

La pellicola intrattiene e porta al pubblico anche qualche spunto di riflessione (senza però spremere troppo le meningi, sia chiaro), ma non è così inventivo o creativo da motivare la propria durata. Basti pensare al dialogo pre-fnale tra Igor e Anora, in cui si ribadiscono otto volte due concetti: sebbene l’attrice protagonista abbia lavorato con Tarantino e in ogni frase dica – volutamente – “fuck” o “fucking” in ogni possibile declinazione, Sean Baker non ha la genialità del collega e il suo film non ha forse la brillantezza per reggere ogni singolo minuto di pellicola (è girato in 35mm).

Anora resta una rom-com spassosa che mantiene comunque quel che promette. Non che prometta più di tanto.

Anora

In morte di Andrzej Wajda, maestro del cinema polacco

Quando al festival di Cannes del 1981 fu proiettato L’uomo di ferro (Czlowiek z zelaza) di Andrzej Wajda, destinato a vincere la Palma d’oro e successivamente a essere nominato all’Oscar per il miglior film straniero, l’emozione fu grande, ma l’apprezzamento non altrettanto unanime. Inutile nascondere, infatti, che lo slancio cosí fortemente anticomunista del soggetto poneva dei problemi all’accorto unanimismo della gestione Jacob e alla propensione assolutoria di molti addetti ai lavori nei confronti delle cosiddette democrazie popolari.

In effetti Andrzej Wajda, scomparso il 9 ottobre scorso a Varsavia all’età di novant’anni, non solo era riconosciuto come maestro del cinema polacco, ma si era già mobilitato in senso artistico contro il regime con L’uomo di marmo che sulla Croisette s’era limitato a ottenere il Premio della critica internazionale: nel suo capolavoro, però, il regista dagli anni dello stalinismo in cui era ambientato il primo film si trasferiva nelle lacrime e sangue del presente, ricostruendo con forte spirito d’adesione (vi compare anche Lech Walesa nel ruolo di se stesso) e un’incalzante struttura da thriller la nascita di Solidarnosc e l’inevitabile deriva del potere. Materia scomoda, insomma, per il milieu intellettuale egemone anche al cinema che ancora sperava nell’autorigenerazione del cosiddetto socialismo reale.

Andrzej Wajda, tra realismo poetico e gusto per la dissacrazione

Il maestro Andrzej Wajda, che ha ricevuto un Oscar alla carriera nel 2000, nasce nel 1926 a Suwalki e combatte giovanissimo contro i tedeschi anche per onorare il padre, uno dei famosi ufficiali della cavalleria nazionale caduti all’alba dell’invasione hitleriana. Allievo della Scuola di cinematografia di Lodz, si fa le ossa collaborando col prestigioso regista Aleksander Ford che gli offre ben presto la chance di esordire con Generazione (1955), un risentito identikit generazionale gremito d’insofferenza nei riguardi del mondo degli adulti e del loro tronfio patriottismo. Diventato inscindibile dal vigoroso attore Zbigniew Cybulski, protagonista del capolavoro Cenere e diamanti (1958) che coniuga magistralmente una visionarietà fantasmatica e barocca con la stringatezza di un mystery hollywoodiano, è duramente colpito dalla morte di quest’ultimo in un incidente ferroviario, tanto da dedicare alla sua fine uno dei suoi titoli più celebrati, il complesso intreccio tra realtà e fiction intitolato Tutto in vendita (1969). Divenuto un beniamino dei festival più autorevoli, dirige negli anni Settanta film importanti e intensi, non di rado impregnati di una letterarietà non puramente illustrativa, come Paesaggio dopo la battaglia, Il bosco di betulle, Le nozze, La linea d’ombra o La classe morta, ricoprendo cariche numerose e prestigiose nelle istituzioni cinematografiche polacche pur senza piegarsi a farsi docile portavoce degli ipotetici interessi nazionali.

La gestione di uno stile personale, attirato sia dal realismo poetico sia dal gusto dissacrante della distorsione grottesca, non trasforma certo Andrzej Wajda in un dominatore del box-office, tanto che in patria sembra a tratti raggiungere il massimo della popolarità prevalentemente nelle plurime esperienze di regista teatrale, ma la vittoria al festival di Mosca 1975 ex aequo con Scola e Kurosawa di La terra della grande promessa e il succitato scoop di L’uomo di marmo lo riportano al centro del panorama cinematografico internazionale. Sull ‘abbrivio dello shock procurato con L’uomo di ferro, l’anziano Andrzej Wajda  gira successivamente titoli che non hanno nulla di senile come Un amore in Germania e Dottor Korczak, Walesa (con la Omaggio perfetta nella parte della Fallaci) e soprattutto i veementi Danton e Katyn che ribadiscono la sua fede in un asciutto pessimismo che ripudia tutti i falsi balsami redentoristici imposti alle masse nel vecchio e nuovo secolo. Ed è dunque triste che all’imminente festival di Roma passerà, come se fosse stato preventivato un tempestivo omaggio, il suo ultimo film Afterimage.

 

Fonte:

In morte di Andrzej Wajda

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