Il regista Giuseppe Gimmi: riflessioni sul cinema, tra Sorrentino, Capuano e Maradona

Occuparsi di cinema, realizzare un film è come viaggiare sotto una scia di stelle. Sono due anni che approfondisco il cinema attraverso lo studio di sceneggiatura e regia, Per le vie del paradiso” è stato il mio primo cortometraggio che mi ha permesso attraverso l’uso delle immagini e di voci narranti di avvicinarmi, ad alcune mitologie della mia vita. Oggi vorrei strettamente parlare di alcune figure importanti, che hanno cambiato il mio pensiero, e la mia vita. Sotto il segno di Paolo Sorrentino, Antonio Capuano e Diego Armando Maradona
Che cosa avete contro la nostalgia? L’unico svago che resta contro la paura del futuro”. Su questa frase io mi rispecchio; la bellezza del cinema di Paolo Sorrentino per me, racchiude la debolezza dell’essere umano, con le sue fragilità, una sintesi perfetta dei pensieri scadenti che ognuno di noi fa, assorbito da tale ignoranza di ignorare il bello, cioè tutto quello che ci circonda ma soprattutto la nostra anima veritiera, perché da qui parte tutto.
Un giovanissimo Paolo Sorrentino
Riflettere su se stessi, e sicuramente un allenamento che noi tutti dovremmo fare ogni giorno, cosi come i personaggi sorrentiniani analizzano la loro vita attraverso un grandissimo procedimento di scrittura. La nostalgia dei personaggi la rivediamo nei luoghi, alcune volte influenzano le nostre scelte o addirittura ci posso schiacciare in un buco nero dove difficilmente si riesce a tornare a galla. Il cinema è verità, per me Sorrentino é verità, dove attraverso il suo modo di vedere le cose riesce a trasportarti in una realtà confusa, quindi la realtà di tutti i giorni.
Avvicinandomi al suo cinema qualcosa che sicuramente mi ha impressionato è la forza dei personaggi attraverso lo sdoppiamento di facce (Toni Servillo) che nello stesso tempo fanno riflettere su una caratteristica veritiera della nostra vita, le maschere che indossiamo ogni giorno per essere “perfetti” alla massa senza  pensare a noi. Il cinema è senza regole per me, è tutto questo ho capito grazie alle sue pellicole, che si può descrivere la noia, i difetti, i pensieri, la gioia di vivere tutto attraverso un solo binario, quello della verità di essere se stessi, e di non diventare troppo abili per paura di convincersi di sapere tutto dalla vita.
“Non ti disunire” esclama Antonio Capuano a Fabietto Schisa nel film È Stata la mano di Dio. Essere fedeli a se stessi anche quando tutto va male. Parole, gesti e affermazioni, ma alla fine chi siamo noi? Ho conosciuto Antonio Capuano, in un breve incontro cinematografico a Bari. Una persona molto intelligente ma soprattutto un uomo che racconta attraverso una visione incredibile l’essere umano. Cerco di fare le cose con molta onestà. Onestà può essere una parola fastidiosa: cerco di fare le cose come le penso e come le sento, senza nascondigli, come giocano i bambini, questo è Antonio Capuano, dove la verità tocca come corde musicali la nostra anima e ci fa scrivere storie forti, dove attraverso gli occhi puoi toccare il personaggio, addirittura puoi sentirti travolto da tutto questo, perché devi essere accanito della vita. È una magia, come dicevo all’inizio, si perché fuori se alzi gli occhi al cielo senti l’odore della libertà.
“Maradona era una divinità” esclama Paolo Sorrentino in un’intervista. Diego Armando Maradona, dai capelli arruffati, con il volto angelico e un cuore d’oro come i suoi piedi. Il calcio è Diego Armando Maradona. Maradona è uno stato d’animo.
Siamo nel 1984 di un 5 Luglio che resterà nel cuore di tutti gli appassionati di calcio, l’arrivo di Maradona a Napoli, un riscatto, qualcosa di eccezionale che si unisce ad un sogno. L’uomo può superare i suoi limiti, può fondere la sua volontà e arrivare ovunque, quasi a toccare il cielo come ha fatto Maradona, fisico e metafisico questa è la differenza tra gli altri. È difficile raccontare una divinità, perché non la puoi raccontare ma la puoi solo sentire dentro, questo sei per me Diego Armando Maradona.
Giuseppe Gimmi

Venezia 2021, vince il francese ‘L’événement’ di Audrey Diwan. Il trionfo della messa all’angolo dell’arte

Come avrebbe potuto un film meraviglioso e vitale come quello di Paolo Sorrentino È stata la mano di Dio, battere un film, scontato e furbo, che parla di aborto diretto da una donna e con protagonista ovviamente una donna? Venezia 2021 continua a compiacere il politicamente corretto, il finto progressismo, quella infantile idea per cui se si è anti-abortisti o per meglio dire, se si vuole affrontare un argomento così spinoso,  da ogni punto di vista, si è di conseguenza retrogrado, non moderno, non a passo con tempi, come si sente spesso dire. Come se il compito dell’arte fosse quello di assecondare lo spirito dei tempi.

Compagnon nel suo saggio “Gli antimoderni” dice che la modernità è puro artificio, e suscita il desiderio struggente di un altrove naturale. Ma tentare di raggiungerlo è inutile, perché ormai anche la natura coincide con questo artificio, e tutte le sue immagini edeniche scadono subito in un’arte priva di intrinseca validità. Così qualunque rivolta anche credibile contro il mostro moderno non può che ammettere di esserne complice, accettarne il contagio e mediarlo in sé.

Occorre oggi più che mai essere antimoderni, portare avanti una una controrivoluzione che sia fedele alla tradizione e che si opponga al culto del progresso, come i doveri dell’individuo o i diritti di Dio confliggono con i diritti dell’uomo”, come afferma Antoine Compagnon nella sua raccolta.

Antimoderno significa andare oltre la modernità, senza essere reazionari. Ad inventare la modernità è stata la Francia, nel suo doppio volto cartesiano e rabelaisiano, con i suoi eccessi d’ordine e con i suoi eccessi carnevaleschi. Francia che, orgogliosa di essere la detentrice per eccellenza dei diritti, culla della laicità, o meglio del laicismo, ha vinto il Leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia edizione 2021, che passerà agli annali come una delle edizioni più trash e prevedibili degli ultimi anni, tra red carpet ridicoli e imbarazzanti e film noioso salvo qualche eccezione.

Il film che ha vinto quest’ultima edizione porta la firma registica di una donna, e questo al giorno d’oggi già significa partire vincitori: L’événement di Audrey Diwan è tratto dal racconto autobiografico di Annie Ernaux. Un po’ di senso delle proporzioni sarebbe più utile per vendere i libri. Il film racconta l’aborto clandestino di una studentessa nella Francia degli anni 60. Brava l’attrice protagonista Anamaria Vartolomei, ma è chiaro che il tema mette all’angolo ogni considerazione artistica. Anche il regista di “Parasite” Bong Joon-Ho, presidente della giuria, si è lasciato prendere dalla commozione.

Insomma la regista si è presentata con un film sull’aborto calandolo nella Francia degli anni ’60 quanto esso veniva considerato reato, cosicché chi lo guarda non può fare altro che plaudire al coraggio della protagonista, perché si sa quando si sfida la legge e si commette qualcosa di penalmente condannabile, in nome dell’autodeterminazione femminile e dei diritti, della ribellione contro il maschio prevaricatore, allora il prodotto artistico è un capolavoro meritevole del primo premio.

Se a questo aggiungiamo che il film, per conquistare un posto al sole nel parterre del cinema che conta, abbia puntato solo ed esclusivamente sul dolore della protagonista, ripresa attraverso scene molto crude quasi a voler far capire a chi sull’aborto ragiona da una prospettiva differente, che la donna soffre e non le resta nessun altra scelta, chi ne vede un’altra è un cattolico bigotto.

Non si vuole mettere in discussione la sofferenza della donna, la Chiesa peraltro non condanna le donne che hanno abortito perché conosce la loro disperazione e la presa di scelta adottata in poco tempo dettata dalla paura, dal giudizio, da innumerevoli difficoltà. Tuttavia sarebbe intellettualmente onesto parlare qualche volta anche di sindrome post-abortiva che esiste eccome, come sarebbe più interessante soprattutto dal punto di vista artistico, sganciarsi dal pensiero unico e presentare opere in grado di mettere in risalto la molteplicità degli aspetti e delle soluzioni, questo certo che è un segno deteriore di civiltà (è bene precisare tra l’altro che nessun obbliga una donna a tenere un figlio, esiste anche la possibilità di darlo in adozione) e pochezza creativa.

E allora viene da spostare l’attenzione verso il film di Almodovar Madres Parallelas dove è racchiuso il vitale, seppur drammatico, incontro in una stanza di ospedale tra due partorienti pronte a mettere al mondo le loro inattese e, all’inizio, non desiderate, creature. Nel film Leone d’oro, c’è solo la cruda rappresentazione di una accanita ostinazione di negazione della vita, che trova il proprio abisso nella durezza di una scena di aborto clandestino. Come se, alla fine, debba sempre prevalere una mortifera e arrogante ideologia fintamente progressista, a spese dell’arte, la quale deve indagare su tutte le dimensioni della vita umana.

L’événement è un film per compiacere gli “impegnati”, il quale si serve di un’astuzia narrativa, quella di utilizzare un tema sociale, per arrivare in modo violento alla coscienza dello spettatore e di quelli che sono “dalla parte giusta” e arruolarsi nelle truppe che contano.

Tornando all’antimodernismo, l’arte ha bisogno di rinnovare e di creare miti e gerarchie, che sostituiscano le forme del passato in cui non si ha più fede; ma d’altra parte si deve anche fare i conti con l’atomizzazione socioculturale e la babelica e molle democrazia dei linguaggi e degli stili che non li lascia più sorgere.

In una civiltà dove il progresso sembra un fatale calcolo, gli antimoderni degni di questo nome devono denunciare la sparizione delle comunità ristrette, l’omologazione caotica, la confusione che si fa tra diritto e giustizia e in definitiva la distruzione di tutto quello che alla vita dà senso – il mito appunto, ossia un racconto comune, una comune credenza capace di operare tagli e di selezionare valori collettivi nel corpo brulicante del reale, votandosi ad una dimensione spirituale.

Frammenti di un monologo amoroso ai tempi dei social, quando l’amore è solo un travolgente fuoco d’artificio

L’amore è il tutto e il niente nella stessa esplosione fragorosa. Tra i battenti digitali del Ventunesimo secolo, ancor di più. Anno 1977, Roland Barthes regala all’emisfero super accelerato Frammenti di un discorso amoroso, cartina semantica per l’analisi dell’amore novecentesco, con il linguaggio del Soggetto e il contro-linguaggio dell’Altro a fustigare dolcemente lo scenario. Anno 2018, invece di attualizzare il discorso amoroso, potremmo comprendere come lo scambio tra il Soggetto e l’Altro si sia trasformato in un vero e proprio monologo. Ecco a voi, cari lettori, amanti, amati e non corrisposti, i frammenti di un monologo amoroso.

Bussiamo alle porte della Prima Fase del soliloquio:

L’abbordaggio (o rimorchio)

Il soggetto è un uomo, immerso nell’epidemie del sabato sera. Varca le soglie del locale più esclusivo della sua città e dopo un long island, un gin tonic e qualche cicchetto alla goccia, ha l’immanente apparizione: Lei. Bella, ruggente, dallo sguardo cinico. Ci si innamora sempre dell’Immagine, accusando inconsapevolmente una sindrome di Stendhal fiorentina. Il soggetto pensa tra fegato e cuore: Lei è La libertà che guida il mio popolo interiore e io sono il suo Delacroix. Non è verosimile? Perfetto. Lei è la mia Belen o la mia Diletta Leotta e io sono un Cavaliere rispettato dall’Italia tutta. La pensano tutti così, anche se lo nascondano bene.

Il Soggetto si avvicina nella zona dell’altro e cerca un contatto criptico con lo sguardo. Ella risponde, non si sa se per sdegno o complicità. Non resta che affondare il colpo: «Ciao, cosa prendi da bere?» e lei, con superbia mongolina «ciao, io e le mie amiche beviamo vodka lemon, ci spostiamo al bancone». Si inaugura una chiacchierata improbabile, vuoi per il frastuono o vuoi per la banalità degli argomenti. «Andiamo a ballare?», dice l’Altro. «Subito!», sentenzia il Soggetto (già cotto a puntino). A questo punto si staglia davanti gli orizzonti dell’uomo e della donna un bivio: se lui sarà stato convincente, scapperanno via dalle luci cloroformizzate della serata, amandosi in macchina o a casa del Soggetto. Uno scenario che disintegrerebbe l’Immaginario dell’innamorato, poiché avendo tutto subito, non cercherebbe mai più niente in quell’Immagine desiderata.

Perciò l’Altro, astuto come il ventre del cavallo di troia, sparisce dalla pista, sfruttando un momento di distrazione e piantonando con stile il Soggetto. Il finale della serata per l’innamorato diventa arduo: aveva in mano il proprio Desiderio, ma se lo è fatto sfuggire. Il crepuscolo fa riemergere i dettagli appassionanti di Lei: rossetto rosso anima, profumo intonato, abito da sera che risaltava poeticamente le forme. Il giorno dopo il Soggetto si trasforma in Sherlock Holmes e durante l’assorbimento della sbornia progetta l’assalto virtuale. Fa il diavolo a quattro per scoprire il vero nome e cognome di Lei, spulciando la pagina Facebook del locale dell’incontro e mettendo sotto torchio eventuali conoscenti in comune.
«Bingo! Trovata». L’aggiunge subito su Facebook e Instangram e attende l’accettazione dell’amicizia e del segui. «Toh, ha accettato». Il soggetto parte con il like tattico e piazza un messaggio su ambedue i social, presentandosi con garbo. «Ciao, sono il ragazzo con cui hai ballato ieri, non so se ti ricordi…». L’Altro risponde con acuto sadismo: «Hey, ciao. Dimmi…». Il Soggetto assalta la Bastiglia: «Ti ho trovata molto interessante, sei davvero carina. Mi piacerebbe che ci sentissimo, giusto così per scambiare quattro chiacchiere. Mi daresti il tuo numero di cellulare?». Ora l’Altro effettua un’analisi dei social del Soggetto, con un ritmo forsennato, a tempo di record. Se l’aspetto virtuale del disturbatore ha superato l’esame, la conversazione continuerà, sfociando poi su WhatsApp. Altrimenti, saranno solo lunghe risate tra lei e le sue amiche, che canzoneranno il Soggettino.

L’Altro miracolosamente accetta: si passa alla Seconda Fase:

Frequentazione (o “ci stiamo sentendo”)

La prima volta è «bellissima, meravigliosa, indimenticabile». Per il Soggetto sempre, qualche volta anche per l’Altro. Adesso potenzialmente si dovrebbe volare, ma il sentiero dei due attori diviene di nuovo complicato. Se l’altro si sente sicuro, partecipe e «mentalmente preso», è fatta. Altrimenti, amici come prima, ovvero amici come mai. In realtà esiste una terza e una quarta chance: diventare come Mila Kunis e Justin Timberlake in Amici di letto (specialisticamente trombamici), oppure continuare la frequentazione fisica ed emozionale, appurando infine che al Soggetto l’Altro gli vuole «molto bene e gliene vorrà sempre», perché «lui è come un amico, se non il migliore». Chiamasi, tecnicamente, friendzonamento.
Ma non è questo il caso. L’Altro è convinto del bagaglio fisico e sentimentale del Soggetto, ormai sono entrati nella Terza Fase:

Il fidanzamento

Come comportarsi in questo capitolo culminante di una relazione già dogmatica? «Cosa mettiamo su Facebook?», «vabbè, mettere solo “impegnato” è riduttivo dai», «no, macché, fare il profilo di coppia è proprio da sfigati». La storia diventa ufficiale, d’ora in poi entreranno pian piano nello scenario amici, familiari e nemici dell’amore, che guasteranno l’Immaginario di lui e faranno perdere le staffe a Lei. E poi c’è da scommettere tutto il proprio Io: regali, sorprese, sacrifici, viaggi, paranoie e litanie. Ma il Soggetto si sente trasportato, privo di freni razionali, un po’ come Dawson con Joy in Dawson’s creek, con la piccola differenza che lui l’Altro l’ha conquistato senza servirsi di una scala (e senza piagnucolare). Ora Lui e Lei prendono totalmente confidenza con i rispettivi corpi, fanno l’amore spesso e con progressiva intesa e intensità. È un momento spettacolare e irripetibile, è la Festa della relazione. Ma nel preciso istante in cui tutto funziona, il Soggetto classifica la sua musa come a-topos, cioè inclassificabile, e ha un assaggio positivo di de-realtà sentendosi avulso dal mondo.
Tutto cambia intorno, ma a lui non importa, sta amando davvero. Rino Gaetano spiega magistralmente questa sensazione cristallizzata di volo sul tempo in Sfiorivano le viole. Ecco, si palesa inesorabile il primo atto egoistico del Soggetto: «Io ti amo». Io, ti amo! E adesso esigo la stessa risposta da te. L’Altro è sempre mentalmente preso, come mai finora, e non può che rispondere così: «Anch’io ti amo, da morire». Nel tam-tam della Festa l’esagerazione è l’ospite d’onore. D’ora in poi un sostantivo accompagnerà i due Attori: gelosia. «Chi è questo che ti ha mandato l’amicizia su Facebook?», «chi ti scrive a quest’ora?», «chi è questo che ti segue su Instangram?», «ci scambiamo le password dei social?», «ti vedo assente stasera, chissà a chi starai pensando…», «perché hai messo il like alla foto di quello?», «dove stai e con chi stai?».

Incredibilmente il rapporto disperde molte energie in discussioni efferate, che spesso si chiudono con una potente pace sotto le lenzuola. La paura di perdersi lascia spazio alla conferma di aversi – fisicamente e mentalmente – e di conseguenza torna lo smalto sui sorrisi del sodalizio. Si passa da urlarsi contro di tutto a ripercorrere le tappe di 50 sfumature di grigio. Si passa dal non parlarsi per un giorno intero a sfogliare il kamasutra con le canzoni di Maluma di sottofondo. Un amore strano, psicopatico, ma vincente. Eppure, è un monologo. Il preludio d’ensemble inganna un po’ tutti, Attori compresi.
Arriva puntuale come un bombardamento della Luftwaffe su Londra la Fase Quattro:

La complicazione

Le Nubi sull’Immaginario del Soggetto e complessivamente sullo scenario costruito con l’Altro, possono arrivare da più direzioni della rosa dei venti. Facciamo un po’ di ordine. Una Nube può arrivare dalla separazione per lunghi tratti di tempo. Soggetto e Altro si separano causa università al nord o all’estero, causa lavoro al nord o all’estero. La tecnologia riesce supportare le due parti di mela divise: foto, video, chiamate, note vocali, messaggi in ogni ora della giornata: peccato che Skype e WhatsApp non riusciranno mai a sostituire la ricchezza sensoriale dell’epidermide. A questo punto uno dei due dovrebbe mollare rispetto alle proprie ambizioni future e rispetto alla propria visione di vita. Chi lo fa? Nessuno dei due.
Il Soggetto a La Mecca, l’Altro a New York: così si rimane perché il lavoro o lo studio obbligano una scelta netta e perché «la mia carriera e la mia felicità sono più importanti, tanto, come dicono le mie amiche o i miei genitori, “di ragazzi ce ne sono a bizzeffe”». I viaggi per venirsi incontro non bastano più, nemici nuovi aumentano la nebbia intorno alla coppia. Dopo l’arrivo di Sex and the city nella serialità televisiva, ogni ragazza si sente in diritto di avere un domani aizzato da brividi sempre più forti, emulando fiaccamente Marylin Monroe. Idem per l’uomo. Lui è cacciatore, si sente il don Giovanni di Kierkegaard. Comincia a insinuarsi tra le sue sinapsi l’idea che fare il rattuso da fidanzato sia un valore aggiunto al proprio superomismo. Crolla scioccamente. La lontananza lo tormenta e alla ricerca del limonamento fatuo si alterna ai blitz su You Porn.

Nubi devastanti possono arrivare da un tradimento di uno dei due Attori o peggio ancora dalla dipartita improvvisa di uno dei due. Casi estremi, sia chiaro, ma abbastanza diffusi. Torniamo al linguaggio. Nubi fitte possono provenire sovente dalle distrazioni. Quando il Soggetto dà priorità all’asta del fantacalcio, al torneo alla Playstation, alla partita della Longobarda o a qualsivoglia suggestione personale, trascurando l’Altro, lì perde totalmente la bussola del rapporto. L’Altro è insoddisfatto, si sente preso in giro, e ne prende consapevolezza grazie alle amiche. I nervi non resistono più, Lei sbotta: scrive al soggetto su WhatsApp tirando la corda della ghigliottina: «stasera ti devo parlare…». In un attimo tutti i nomignoli scambiati tra i due Attori evaporano (amò, cucciolo, patato, orsetto, cicci, ecc…), il clima è freddo, l’atmosfera minimal, le emoticon inesistenti.
La Fine è vicina, planiamo mestamente nella Quinta Fase:

Tra noi è finita

Le scenate, i pianti, i lapsus freudiani in pubblico e tanti aneddoti menati in questo frangente diventano acuminati e portano il Soggetto ad essere Scorticato. Adesso Lui è estremamente sensibile, qualsiasi cosa potrebbe ricordargli l’Altro, perché sa bene che sta per essere abbandonato. Che fare? Suicidarsi? Come il protagonista di Spirits dei The Strumbellars? Oppure, resistere. Ma a che prezzo? Egli vive in un desolato e impassibile spleen. Il Soggetto incontra per l’ultima volta l’Altro, ignorando che l’Immaginario della prima ora è purissima utopia (un ultimo harakiri). Nel tragitto che fa dalla sua dimora al luogo del confronto finale, focalizza bene i propri errori, rendendosi conto di aver fatto l’opposto di quello che Gaber professava in Quando sarò capace di amare. Le parole di Lei sono fin da subito al miele, ma taglienti, mortifere all’ennesima potenza. L’idea dell’Altro è la stessa di Fabrizio De André in La canzone dell’amore perduto: lasciarlo, riservandogli un bene sincero.
Ma il Soggetto non comprende e al ritorno a casa fa razzia sui social: cancella le foto di loro insieme, bloccandole addirittura i profili. Se mi lasci ti cancello, in pratica. Nel film di Michel Gondry – Premio Oscar nel 2005 –, Kate Winslet, mollata da Jim Carrey, decide di andare in una clinica per cancellare dalla propria mente di tutti i ricordi di Lui. Ci riesce. Ecco l’intento del Soggetto, che pleonasticamente ignora un dettaglio: proprio i ricordi dell’Altro saranno un bene preziosissimo da salvaguardare nel suo tortuoso percorso amoroso. Alla fine il Soggetto si dimostra testardo come un mulo e ricomincia da capo: vaga alla ricerca di un nuovo amore come l’olandese volante in Il vascello fantasma di Richard Wagner: miete le stesse pene da molo in molo e incamera un gelido senso di fervore nelle vene.

Perché frammenti di un monologo amoroso? Lo racconta bene Paolo Sorrentino in La grande bellezza, lo dimostrano gli amanti del Ventunesimo secolo toujours. L’amore è diventato un travolgente fuoco d’artificio: lo si accende con maestria, abbaglia con la sua luce originale, impaurisce con il suo rombo. Tutto meraviglioso, tutto svanisce. Rimane solo un caldo ricordo nell’inconscio. L’individuo odierno vuole conoscere a malapena il passato, gli interessa vivere al massimo delle proprie emozioni il presente, perché lo deve dimostrare al suo vicino di sventure. Ebbene sì, il futuro diventa un optional: le responsabilità di valore vengono dribblate alla Garrincha. Il mantra è sempre lo stesso: divertirsi, mostrarlo. Stare bene, godere. Dirlo a tutti. Un figlio? Lungi da me, al massimo prendo un cane o un gatto. Matrimonio? È sempre troppo presto, ognuno ha i suoi spazi e una corrispettiva libertà.

La Filumena Marturano di Eduardo De Filippo sarebbe agghiacciata da questo Immaginario fragilissimo. Certo, l’influenza della madre è rimasta la stessa, il complesso di Edipo è sempre presente. I ragionamenti lacaniani sulla capacità di ricercare le caratteristiche del precedente amore in quello futuro sono le medesime. Le paranoie e le schizofrenie triviale sono addirittura amplificate a causa dell’era digitale. E cosa è cambiato allora? Si ama solo se stessi, vero Altro del Soggetto dell’avvenire impersonale. Questa conclusione determina un orizzonte apocalittico: le poesie d’amore di Verlaine, Shakespeare o Rimbaud non verrebbero mai comprese. Nemmeno quelle di immacolata sofferenza di Baudelaire: la sensibilità è fagocitata dall’Io. L’amore platonico de Le notti bianche di Dostoevskij sembrerebbe una barzelletta oggi, poiché la tangibilità fisica e fallica è il tutto. «Io devo essere soddisfatto, ma senza fatica, o tutto subito o niente». Amore veniale da condividere in mainstream: anche un genio come Giacomo Leopardi si sarebbe rifiutato di sognarlo.

La giusta chiosa a questo monologo la devono dare due prodotti artistici dell’epoca amorosa in questione:

Siamo morti a vent’anni, Il Chile.
Ma tu cammina, cammina, accumula strada lasciando che tutto si muova, Maldestro.

 

Annibale Gagliani-L’intellettuale dissidente

Papa Lenny si mette a nudo: il finale di ‘The Young Pope’

Papa Lenny finalmente si mette totalmente a nudo nel finale di The Young Pope, la fortunatissima serie televisiva di Sky Atlantic, premiata da ottimi ascolti in relazione al canale da cui è stata trasmessa la serie (nonché venduta in oltre 80 Paesi), firmata dal regista premio Oscar Paolo Sorrentino, giunta ormai al temine, ma che già fa parlare della seconda stagione. Gli ultimi due episodi delle serie che è stata acutamente ribattezzata da alcuni The House of Cardinal, ci hanno condotti fuori dal Vaticano e fatto conoscere più a fondo Papa Lenny la cui fede è invisibile ma sempre presente.

Papa Lenny: tra dolore e astuzie

Papa Lenny Belardo, interpretato da un magistrale Jude Law, che in un’intervista ha definito Sorrentino un regista fantastico, nell’atteso finale di The Young Pope, ha mostrato più che mai tutte le sue debolezze umane, senza però rivelarsi ricattabile; ha messo a nudo il suo dolore, i suoi dubbi sulla fede, senza però rinunciare all’ironia, al cinismo e all’astuzia e proseguendo imperterrito nei suoi intenti di rivoluzionare la Chiesam una Chiesa scevra dalla corruzione.

Vediamo un Pio XIII che pretende amore assoluto per Gesù Cristo, addolorato, si strugge nella sua devozione alla cristianità, ma è proprio questo dolore, questa ambiguità a rendere Papa Lenny estremamente affascinante e attraente. Sorrentino ci mostra tutta la determinazione del Santo Padre  a riportare la chiesa agli antichi splendori, rendendola appetibile al mondo, abbagliante come Lenny.

Attraverso i suoi complessi personaggi, Sorrentino, ha accompagnato i telespettatori in un viaggio esistenziale fatto di diversi punti di vista e scelte. In quali tra questi ci riconosciamo? Siamo pià vicini ai setimenti di amorevolezza e autorevolezza della materna Suor Mary o all’apparente scabrosità e furbizia che però nascondono una grande sensibilità, del Cardinale Voiello? Anche davanti a quest’opera di Sorrentino ci sentiamo smarriti, proviamo un senso di perdizione nell’essere catturati da tanta bellezza estetica. Anche in The Young Pope, come nei precedenti lavori di Sorrentino, sono presenti i sogni perché, come ha affermato più volte lo stesso regista napoletano, essi possono avere una grande potenza nel creare una perfetta sintesi dello stato psicologico del personaggio.

Trama e contenuti del nono e decimo episodio

Il nono e decimo episodio dunque sono risultati i più difficili, dato l’innalzamento del livello simbolico e filosofico. Il nono episodio si è aperto con un duro confronto tra il cardinale Spencer e Lenny nella Cappella Sistina, riguardante lo spinoso tema dell’aborto. L’anziano cardinale rimprovera al suo (ex) discepolo, un’eccessiva rigidità a riguardo. Uno scontro paradossale: un vecchio moderno contro un giovane conservatore e ha inizio un flashback.

Torna finalmente in scena anche Gutierrez, che vive in una squallida stanza in un palazzo di New York. L’ex Monsignore è provato, a causa dell’indagine su Kurtwell. Gutierrez bussa a una porta dietro l’altra alla ricerca di un testimone, una ex vittima del cardinale pedofilo disposta a rompere il silenzio, ma inutilmente; è solo, i suoi unici contatti umani sono Freddy, il giovane commesso del negozio di liquori dove il cardinale si rifornisce e Rose, l’obesa proprietaria dell’albergo in cui vive. Ma quando Gutierrez smette di cercare, ecco che spunta un testimone, David, il quale sostiene di essere il figlio di Kurtwell. L’ex Monsignore si presenta dal cardinale con delle prove schiaccianti, cui segue la telefonata di Papa Lenny. Ma Kurtwell tenta di ricattarlo, minacciando di raccontare ai media delle lettere d’amore che il giovane Lenny Belardo scrisse alla ragazza californiana di cui era innamorato. Solo che le lettere non furono mai spedite. Dunque non può esserci nessuno scandalo. E, di conseguenza, nessun ricatto. Dunque non ci può essere nessun ricatto e Kurtwell  dovrà andare in Vaticano per sottoporsi al giudizio di Sua Santità che non sarà molto clemente.

Il decimo episodio si apre con la nevicata su San Pietro che provoca in Lenny un sorriso, il ritorno di Gutierrez a Roma, un’importante conversazione tra il Papa e il Cardinale Voiello, l’atteso discorso del Papa dalla Basilica di San Marco a Venezia, avendo sempre i mente i genitori che lo hanno abbandonato (ma non importa perché come dirà Sua Santità, quando morirà finalmente potrà abbracciarli) e si chiude con l’immagine di un malinconico Papa Lenny sulla spiaggia di Ostia che in sottofondo legge una delle famose lettere d’amore, e nelle ultime inquadrature, si vede anche la destinataria delle missive, pubblicate alla fine dal The New Yorker.

Un coraggioso prodotto tv che avrà una seconda serie

Qualcuno taccerà The Young Pope di essere uno stucchevole esercizio di stile, una successione di sequenze suggestive, ma in questo coraggioso prodotto tv c’è tanta anima, tante emozioni, dall’irritazione alla commozione, che ha reso questa prima edizione della serie una ricerca continua di appigli a cui aggrapparsi per sopportare il peso dell’esistenza, di punti di riferimento per non perdersi. Cosa aspettarsi quindi dalla seconda stagione? Magari più spazio a nuovi intrecci narrativi, un ulteriore approfondimento dell’analisi della psicologia del potere (già peraltro affrontata da Sorrentino ne Il Divo), e un’ evoluzione di Papa Lenny.

Senza dubbio The Young Pope ha battutto per contenuti, valore artistico e regia la tanto pubblicizzata serie tv targata RAI, I Medici, tenendo ben presente che Sky Atlantic non è RaiUno, e che di conseguenza  The Young Pope non poteva fare sette milioni di spettatori come I Medici, senza contare il modo personale di fare cinema di Sorrentino e la sua fruibilità.

‘The Young Pope’ sempre più un fenomeno globale: 7° e 8° episodio

The Young Pope sta ormai conquistando tutto il mondo. Paolo Sorrentino sta scatenando vivaci dibattiti sui social e tra gli addetti ai lavori. Certamente la sua serie emoziona i telespettatori, la quale si arricchisce, puntata dopo puntata, di nuove ed intense sfumature che caratterizzano i personaggi. Alternando musiche che vanno da Roberto Murolo ai Jefferson Airplane, passando per Schubert, il regista napoletano prosegue la sua originale narrazione tra il poetico e il grottesco.

Se nei due precedenti episodi centrale era stato il ridondante richiamo all’infanzia del pontefice, in questi due episodi, l’equilibrio tra passat e presente si è dimostrato più saldo consentendo la straordinaria espressività attoriale di Jude Law, grazie anche alla presenza di Esther e del suo bambino che trasforma il Papa in una figura paterna, anche se come afferma Lenny: “Un prete non cresce mai perché non può diventare padre. Rimane sempre figlio”. A fare da sottofondo alla scena, una versione personale della canzone “Hallelujah” di Leonard Cohen, scomparso pochi giorni fa, durante un provino di X Factor, proprio nel giorno in cui è stato dato l’annuncio della morte del cantautore canadese folk, rendendo la sequenza una toccante coincidenza. Ma questo episodio ha permesso al regista di mostrare anche la decadenza umana fatta di botox, paillettes e selfie che caratterizza la vita dei salotti romani, accompagnata da Melanconia di Peppino Di Capri, evidenziando e marcando lo stato d’animo del Cardinale Dussolier (Scott Shepherd), tormentato dal senso di colpa per la morte del giovane Sanchez.

La settimana puntata di The Young Pope si era aperta con un Cardinal Voiello, sfegatato tifoso del Napoli, in tenuta calcistica azzurra, con il rosario in mano, mentre penava in ascolto della radiocronaca di una partita della sua squadra del cuore contro la Lazio nelle stanze vaticane. Napoli è presente anche nell’ottava puntata con il ritorno dell’accenno alla canzone “Era de maggio” cantata da Roberto Murolo durante il primo viaggio del pontefice in Africa. Qui Pio XIII incontra la finta benefattrice Suor Antonia, fondatrice del Villaggio della Bontà: il pontefice denuncia le ipocrite azioni umanitarie della religiosa e al suo ritorno in Italia, costretto da un atterraggio d’emergenza a Napoli, sull’autostrada Napoli- Roma Lenny chiede al suo seguito di fermarsi in un’aerea di servizio, in una strada buia, dove prega inginocchiato, invocando la morte della suora. Dall’altra parte del mondo suor Antonia muore.

Sorrentino in questi penultimi episodi, racconta per contrasti, tra suggestioni ed ironie, tra stravaganze e dolore, la presa di coscienza di Lenny Belardo che le cose non stanno andando per il verso giusto, e il pensiero che il suo pontificato sia destinato a concludersi presto. La curiosità per come andrà a finire questa potente serie tv sarà soddisfatta il prossimo 18 novembre.

Sorrentino presenta un Papa sempre più ambiguo nel 5° e 6° episodio di ‘The Young Pope’

Le contraddizioni del papa nordamericano Lenny Belardo proseguono. ll quinto episodio di The Young Pope è, finora, dal punto di vista narrativo e visivo il più intenso di questa prima della fiction, dimostrando che si può essere aggressivi e delicati nell stesso tempo. Paolo Sorrentino sembra abbia dato libero sfogo a tutta la sua arte, tutta la sua ossessione per il cinema, facendo provare allo spettatore una vasta gamma di emozioni. Nel quarto episodio vi sono riferimenti all’abbandono da parte dei genitori di Lenny che consentono con la loro presenza/assenza di far emergere nuove sfaccettature del rapporto tra Papa Pio XIII e il Cardinale Dussolier (Scott Shepherd), amico d’infanzia e compagno di solitudine nell’orfanotrofio dove sono cresciuti insieme, accuditi dall’amorevole Suor Mary (Diane Keaton). Durante una passeggiata notturna tra i due per le strade di una Roma deserta, tra alberghi e paninoteche ambulanti dove cercare e trovare una prova dell’esistenza di Dio, Paolo Sorrentino fa a meno di flashback visivi de La grande bellezza optando per una strizzatina d’occhio ad Habemus Papam di Nanni Moretti sintetizzato acutamente in una breve “fuga” degli amici dai confini vaticani. Un’ esigenza di Lenny di ritornare alle proprie origini, al  “famigliare” riflettendosi in chi come lui ha subito il trauma della mancanza di una famiglia anche grazie all’uso di flashback che mostra il Papa e il Cardinale bambini, alludendo ad un “miracolo” del quale Lenny non si sente ancora pronto a parlare né con Dussolier né con Suor Mary.

Paolo Sorrentino e il suo indecifrabile Papa

Man mano che si va avanti con gli episodi, ci rende sempre più conto della straordinaria bravura di Jude Law sul quale Paolo Sorrentino scolpisce un personaggio a tutto campo, completo, contraddittorio e ambiguo e personaggi-chiave che contribuiscono a proteggere il refrain dei dialoghi, dei gesti, delle azioni e dei pensieri espressi o reconditi che in un vortice sorprendente inizialmente celebrano e subito dopo mettono in discussione l’esistenza di Dio. Le inquadrature e le sequenze sono naturalmente “sorrentiniane”, visionarie e cariche di suspence e sarcasmo, originalissime, di cui la ridondanza, il compiacimento, l’infantile narcisismo sono ormai parte integrante e appaiono necessari per raccontare ateismo e cattolicesimo in poche riprese.

Come il quarto episodio, anche il sesto di The Young Pope rievoca un’attualità verosimile. E lo fa attraverso la doppia vita, ecclesiastica e privata, di Dussolier, il Caso Kurtwell affidato al neo Cardinale Gutierrez (Javier Cámara) e il rapporto Stato-Chiesa. Ed ecco che spunta un giovane e rampante premier italiano (Stefano Accorsi) che si scontra con l’ambiguo pontefice nordamericano, scontro fatto di botta e risposta, una gara a chi ha l’ultima parola riguardo tematiche spinose come quelle sulle unioni civili, divorzio, aborto, otto per mille e addirittura revisione dei Patti Lateranensi. Argomenti sfruttati da Paolo Sorrentino per approfondire la sua personale riflessione sul potere, le tattiche mass mediatiche, unite alla filosofia del marketing.

In questi due penultimi episodi regista premio Oscar ci mostra il dietro le quinte delle stanze del potere ed un Papa sempre più fermo decisionista, machiavellico, conservatore, contro sacerdoti omosessuali o sessualmente attivi che ha deciso di allontanare dalla Chiesa con conseguenze drammatiche di cui avremo conto nei prossimi ultimi due episodi.

Non dimentichiamoci che anche in questi due episodi accanto al grandioso e carismatico Papa-Jude Low, giganteggia Silvio Orlando nella parte del colto cardinale napoletano dalla lingua biforcuta Voiello, inafferrabile e astuto, di cui non deve essere data per scontata la sua buona fede: non meraviglierebbe infatti se la sua fosse una strategia per togliere di mezzo questo Papa XIII dalla Chiesa Cattolica.

‘The Young Pope’, 3° e 4° episodio: vanità e ricatto

L’ottimo esordio di The Young Pope di Paolo Sorrentino ha avuto l’effetto di amplificare l’interesse per gli episodi 3° e 4° trasmessi ieri sera su Sky. Che si trattasse di un papa vagamente – per utilizzare un eufemismo – sui generis lo si era capito già venerdì scorso, ma l’ingresso in scena di questa sera è stato a dir poco da rockstar: i titoli di testa con Pio XIII (l’enigmatico e spiazzante Jude Law) che attraversa un corridoio sulla cui parete sono esposti meravigliosi quadri, il sottofondo musicale rockeggiante, e lui che ci fa l’occhiolino per introdurci nel suo papato stravagante, valgono  da soli l’attesa di sette giorni.

Da un punto di vista narrativo, le puntate di The Young Pope di stasera sono state un po’ interlocutorie con l’aggiunta di un paio di ingredienti. La curiosità che aveva provocato Lenny Belardo lasciando in sospeso dei concetti non esattamente ortodossi, solo in minima parte, infatti, è stata soddisfatta; nel senso che il prosieguo della storia ancora non ha fatto sufficientemente luce sul suo passato turbolento, sulle dinamiche della sua elezione, né sul suo problema con la fede. La sensazione generale è che questo papa sia alla perenne ricerca dei genitori, di Dio, di se stesso, e chi è costantemente alla ricerca di qualcosa è condannato perennemente alla contraddizione.

I principali elementi di novità emersi rispetto ai primi due episodi, sono la vanità e il ricatto, rappresentati, rispettivamente – manco a dirlo -, dal papa stesso e dal cardinale Segretario di Stato Voiello (Silvio Orlando). Pio XIII è un Papa vanitoso oltre ogni immaginazione. Per lui la bellezza è un dono, e invita chi la possiede a gioirne. E lui, ben consapevole della propria, arriva ad affermare addirittura di essere più bello di Gesù. Al contrario, il Segretario Voiello può estrinsecare la propria vanità solo mediante il potere, quel potere che Belardo a poco a poco gli sta polverizzando. Ecco che quindi, per scoprire delle debolezze ataviche del pontefice e “salvare la Chiesa”, ordisce una trama di ricatti che involge alcune delle persone che orbitano attorno a Belardo. E in un certo qual modo, ci sentiamo ricattati anche noi, non solo perché è impossibile non empatizzare con Pio XIII, ma soprattutto perché siamo costretti a vedere come andrà a finire.

 

‘The Young Pope’ di Sorrentino: un esordio tra stravaganze e riflessioni

C’era grande attesa attorno all’esordio di The Young Pope, prima serie tv scritta e diretta interamente dal Premio Oscar Paolo Sorrentino. Attesa che, a giudicare dai primi due episodi trasmessi ieri sera su Sky, è stata ampiamente ripagata dagli ottimi ascolti. Di notevole e immediato coinvolgimento l’impatto visivo – grazie anche alla fotografia di Luca Bigazzi – , con i proverbiali ‘fellinismi’ entrati ormai in pianta stabile nella cifra stilistica di Sorrentino, e la sceneggiatura, esaltata da un buon ritmo complessivo e da dialoghi mai banali.

Ma la principale ‘attrazione’ di questo debutto non poteva che essere il protagonista, Lenny Belardo (Pio XIII), interpretato da un monumentale Jude Law, che condivide carisma da tutti i pori. Lenny è un giovane cardinale americano dal passato tormentato – i genitori in tenera età lo avevano abbandonato in orfanotrofio – e che vive con una certa inquietudine il suo personale rapporto con la fede; tuttavia, evidentemente per ragioni politiche, viene eletto papa dal collegio cardinalizio. Ma è proprio in Vaticano che, contrariamente a quanto avevano previsto i ‘manovratori’, Lenny dimostrerà una convincente riluttanza a farsi comandare.

A farne immediatamente le spese sarà il cardinale Segretario di Stato Voiello, interpretato dal formidabile Silvio Orlando, che a causa delle ‘stravaganze’, per così dire, del nuovo pontefice, vedrà il suo potere subire una verticale dequotazione. Due sono gli aspetti che hanno colpito maggiormente in questi primi episodi, e riguardano entrambi il protagonista, oltre alla sua giovane età, si intende: le sue ‘bizzarrie’, appunto, che vanno dal suo vizio del fumo alla non curanza dei bilanci del Vaticano opponendosi fermamente all’utilizzo della propria immagine per finalità di merchandising, passando per il poco piacere per il cibo e la decisone di far vigilare il segretario da Suor Mary (Diane Keaton), una suora di cui Lenny si fida perché l’ha cresciuto e aiutato a farlo diventare papa; e la tensione che dipinge sui volti dei suoi interlocutori ogni volta che sta per parlare o porre delle domande, che sono quasi sempre indiscrete. Tensione che ha raggiunto il picco massimo alla fine del secondo episodio, quando Pio XIII, dopo essersi rifiutato di leggere un testo ‘equilibrato’ confezionatogli ad arte da Voiello, decide di optare, per la sua prima omelia, per un testo scritto di suo pugno a dir poco destabilizzante, che recita con grande trasporto in una Piazza San Pietro gremita di fedeli, per l’occasione accorsi di sera per volere di Belardo stesso.

Silvio Orlando tra i protagonisti di ‘The young Pope’

Sarà che in quel discorso emergeranno imperiose tutte le sue inquietudini ataviche, sarà che anche lo spettatore non può restare totalmente indifferente a quelle parole ‘rivoluzionarie’, ma sta di fatto che The Young Pope si è presentata come meglio non poteva: un prodotto di elevata qualità che ha tutte le carte in regola per tenerci incollati allo schermo per altri otto episodi, facendoci anche riflettere sul problema della fede. Che non è mai tempo perso.

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