‘Un uomo finito’, la vitalità e le frustrazioni di Papini

“Un uomo finito” è l’opera più celebre di Papini (1881-1956), pubblicata dalla libreria della Voce nel 1913, ristampata più volte e tradotta in tutto il mondo.

Come hanno scritto in molti il romanzo è a metà strada tra l’autobiografia ed il diario. Un uomo finito riassume le vicissitudini, le sfide intellettuali, i percorsi mentali, l‘iter creativo, gli stati e gli strati psichici di Papini. In queste pagine sono racchiusi l’impegno e la vitalità dello scrittore fiorentino, che esplora da par suo il proprio Sé.

Il disincanto di Papini

Grazie alla sua onestà intellettuale riesce ad essere chiaro, lucido, disincantato e non lascia mai spazio ad errori di interpretazioni. Si dimostra capace di introspezione e allo stesso tempo di riflessione senza vana gloria, senza alcuna accortezza. Non si lascia abbindolare dalla memoria  che spesso migliora il passato e lo mistifica, presentandolo come molto diverso da quello che è stato realmente.

Papini si dimostra per quello che è e per quello che è stato, senza filtri, maschere o inganni. Il lettore avverte che si trova al cospetto della testimonianza di un artista memorabile, di una coscienza che, pur tra errori e pecche, ha sempre cercato di essere attenta a tutte le problematiche del suo tempo.

L’anima di Papini

In questa opera c’è tutto Papini: scontroso, ieratico, pensoso, tormentato, inquieto, cinico, autoesaltato, sconfitto, ambizioso oltremodo. In 50 brevi capitoli sono descritti i suoi primi trenta anni di vita. Innanzitutto esordisce scrivendo che non ha mai avuto fanciullezza. È nato povero e fin dai primi anni è sempre stato solo, schivo, appartato.

Da bambino subiva angherie ed umiliazioni da parte dei coetanei, che oggi definiremmo atti di bullismo. La sua vita fu sempre contraddistinta dalla “smania di sapere”.

Iniziò a formarsi con la libreria di soli cento volumi del babbo e poi accrebbe il suo sapere andando nelle librerie aperte a tutti, dove però potevano entrare solo le persone che avevano più di sedici anni.

Un uomo geniale e complessato

L’adolescenza fu vissuta tra la campagna e la biblioteca. Le umiliazioni, i complessi, le frustrazioni per un meccanismo di compensazione, descritto da Adler (secondo cui dietro ad un complesso di superiorità si celerebbe sempre un complesso di inferiorità), faranno scaturire in lui la smania di grandezza, la voglia irrefrenabile di essere tutto, di sapere tutto.

Un poco impropriamente questo atteggiamento mentale ed esistenziale viene chiamato da alcuni complesso di Dio, cioè il desiderio di voler annientare Dio e di farne le veci, di sostituirsi ad una divinità che sembra assente o indifferente. Ma siamo tutti esseri umani e dall’onnipotenza si finisce sempre nel senso di impotenza.

Papini e Dio

A tratti sembra che lo scrittore fiorentino non avesse coscienza del suo declino, della sua decadenza, della sua mortalità.  Tutti ci domandiamo come il cyborg di Blade runner quale è il trucco per non spegnersi, per non guastarsi. Ma essere immortali forse non è la soluzione.

La letteratura con Dorian Gray e il Faust ci avverte che non sarebbe una buona cosa. Forse Papini aveva coscienza di avere scritto opere immortali. Vivere comporta delle contrarietà. Come scrisse Alessandro Morandotti “tutto sarebbe più semplice se nascessimo con le istruzioni per l’uso e la data di scadenza”.

“L’inferno sono gli altri”

Però certe cose di fondamentale importanza purtroppo non è dato saperle. A Papini queste questioni stavano molto a cuore, eppure, nonostante il suo grande acume, non trovò mai la quadra. Infatti sono cose che ci trascendono come si evinci da Un uomo finito.

Per Papini come per Sartre gli altri sono l’inferno. Cerca conforto nelle opere dei grandi autori già morti e disprezza “i piccoli vivi”. La sua vita è stata vissuta pienamente, a tratti titanicamente, per alcuni anni all’insegna del superomismo. Non ha mai risparmiato energie. La sua gioventù è stata caratterizzata dal furore idealistico, dall’ubriacatura ideologica, dall’entusiasmo intellettuale, così come nella sua maturità si è distinto per il fervore cattolico.

Ma Papini molto probabilmente era un maniaco-depressivo. A dimostrazione di queste dinamiche psichiche e di questo disturbo dell’umore c’è la sua dichiarazione di scrivere “per sfogo”. Da voler essere un semidio onnipotente e onnisciente, eccolo piombare nel ripiegamento interiore, nel crollo psichico, nella “discesa”, nella malattia, nella depressione.

Papini, Soffici e Campana

Probabilmente se fosse vissuto oggigiorno a Papini gli sarebbe stato diagnosticato un disturbo bipolare, avrebbe fatto analisi, avrebbe assunto giornalmente una pasticca di Depakin e non avrebbe scritto niente di memorabile.

Papini ad ogni modo è un genio che ha il dubbio di essere “un imbecille”, “un ignorante”, che non ha la minima conoscenza di sé stesso né degli altri. È un uomo in fin dei conti che ha chiesto l’impossibile a sé stesso e agli altri.

Nonostante alcune sue tare come i pregiudizi nei confronti delle donne (ma anche lui era un uomo del suo tempo e certi pregiudizi all’epoca erano diffusi), dalla lettura di Un uomo finito è possibile trarre beneficio e godimento intellettuale, interiore. A trenta anni nessuno è un uomo finito, nemmeno uno che come Papini ha iniziato molte cose ed ha cercato di voler essere tutto vanamente.

Un uomo infinito?

Questa impresa era destinata comunque al fallimento. Ma dimostrò nel resto della sua vita che aveva ancora molte cose da dire. Piuttosto Papini è stato dimenticato oggi perché su di lui ci sono luci (il suo ingegno fu ineguagliabile) ma anche ombre: 1) fu interventista durante la prima guerra mondiale, anche se poi ebbe grandi rimorsi di coscienza. 2) per molti nascose insieme ad Ardengo Soffici il manoscritto “Il più lungo giorno” di Dino Campana, che il poeta di Marradi aveva dato loro per un giudizio critico.

Un uomo finito dunque descrive in modo magistrale la giovinezza, la formazione culturale, l’apprendistato, le contraddizioni, le amicizie di un grande intellettuale della sua epoca; un intellettuale che crebbe con Schopenhauer e con Stirner, che fu condizionato da D’Annunzio, che fu da giovane irrazionalista, occultista, nazionalista, idealista, futurista.

Con un semplice gioco di parole Papini più che un uomo finito cercò di essere un uomo infinito, ma ciò è impossibile per tutti. Fu un uomo dalle innumerevoli qualità che a forza di volere troppo rischiò banalmente di non stringere nulla, rischiò di essere un uomo senza qualità, un Ulrich come tanti.

L’interrogativo che lo porta a scrivere questa opera, ovvero “la vita è degna di essere vissuta?”, dopo averla letta, non può che trovare risposta affermativa.

 

Di Davide Morelli

Ugo Tommei, proletario lacerbiano e futurista e gli scrittori di ‘Quaderno latino’

Contadino e lavoratore manuale, Ugo Tommei. Un vero e proprio autodidatta in un’epoca in cui la passione accesa e bruciante e il sacro fuoco del sapere e della conoscenza divampavano nelle menti e nei cuori dei proletari più coscienti e generosi. Visse a cavallo tra XIX e XX secolo, e fu una sorta di Lemmonio Boreo in carne ed ossa. Chissà se Ardengo Soffici nel redigere il suo giovanile, anticonvenzionale ed anarcoide romanzo del 1912 così intitolato, non si sia poi realmente ispirato ad un certo milieu da lui frequentato ed approfondito e nel quale alcuni personaggi come Tommei, così affini per l’appunto a Lemmonio Boreo, erano componenti preziose ma infine non così rare.

Ugo Tommei nacque a Firenze il 15 gennaio 1894 da Francesco e Teresa Linari. Tommei, pur da umilissime origini, si fece ben presto conoscere pubblicamente ed entrò in contatto con gran parte della cultura fiorentina dell’epoca, caratterizzata dalla straordinaria ed effimera “stagione delle riviste”. Strinse amicizia con i futuristi papiniani che in seguito partoriranno la rivista Lacerba (1913-1915) e con i vociani Soffici, Rosai, Meriano che lo apprezzarono e lo stimarono. Tra il Nostro e questi tre si realizzò una sincera osmosi culturale, uno scambio gratificante, costante e spiritualmente arricchente. Anarchico e futurista, Tommei decise di prendere una iniziativa personale fondando proprio nella sua città il quindicinale Quartiere Latino (1913-1914), sul quale scrisse anche il poeta Gian Pietro Lucini, e a cui collaborarono molti giovani autori, tra cui il siciliano Enrico Cardile, il pugliese Arcangelo Di Staso, l’abruzzese Giovanni Titta Rosa, il ligure Camillo Sbarbaro, il romagnolo Corrado Govoni, i triestini Giani Stuparich e Augusto Hermet.

La rivista fiorentina diede alla luce sette fascicoli, tutti di otto pagine in formato 22×32 cm, stampati presso la tipografia Vallecchi e usciti, due volte al mese, dal 24 ottobre 1913 al 28 febbraio 1914. Ugo Tommei era affiancato da Guido Pogni in qualità di gerente responsabile. La direzione era in via S. Antonino 5 a Firenze, il costo di ogni copia era di 10 centesimi. Il programma e i lavori ospitati sul periodico si orientarono immediatamente verso una sorta di nazionalismo popolare, sociale e neo-proletario molto rude ed indisciplinato, nonché politicamente scorretto. Come evidenzia lo studioso Ugo Piscopo nella post-fazione alla ristampa anastatica della rivista, il nome di Quartiere latino “si agganciava alle esperienze dei cenacoli dell’omonimo quartiere parigino, dove, a fine Ottocento, era circolata aria frizzante di etimo antiparlamentaristico, antidemocratico, antiriformistico, antilaicistico”. Dall’articolo programmatico apparso sul primo numero, si comprende che l’intitolazione della rivista di Tommei e dei suoi amici voleva essere inoltre un tributo alla latinità, intesa soprattutto come vigore, buona salute, certezza delle proprie origini, spirito indomito e ribelle. Punto di riferimento per tutto il gruppo che ruota attorno a “Quartiere latino” è indubbiamente il già ricordato Gian Pietro Lucini, precursore e insieme eversore dell’avanguardia, iniziatore e distruttore di “mode culturali”. Lucini in questa rivista esaltò il proprio anarchismo e la propria trasgressività, sottolineò la funzione civile assegnata alla poesia, il valore politico attribuito all’arte. Nello stesso tempo, si apprezzarono le sue audaci e rivoluzionarie sperimentazioni del verso libero, le originali interpretazioni delle tendenze simboliste, il suo gusto dissacratorio nei confronti dei valori e delle credenze ufficiali, la consapevolezza della crisi delle ideologie e della necessità del loro superamento attraverso una modalità attivistica, vitalistica, volontaristica di chiara origine soreliana. Grande fascino esercitò anche Corrado Govoni, scelto come secondo Nume Tutelare della rivista per la sua genuinità, la duttilità intellettuale e la libertà assoluta da ogni condizionamento, pur rispettando i supremi ed eterni valori letterari.

I giovani scrittori riuniti attorno a Tommei desideravano riportare la parola scritta alle sue funzioni peculiari, liberandola da contaminazioni e riconducendola al suo rigore tipografico. Da questo punto di vista è significativo il fatto che la rivista non conceda spazio alla grafica, alle illustrazioni, alle riproduzioni, diversamente da altri fogli contemporanei proiettati verso la modernità. Eccezione a questa “regola” fu fatta soltanto negli ultimi due numeri, in cui l’intitolazione acquistò più spazio e i caratteri si fecero più flessuosi. L’idea complessiva che accomunò tutti i collaboratori di “Quartiere latino” fu quella di accogliere le sollecitazioni allo svecchiamento del futurismo, ma senza sbilanciarsi troppo in avanti e prendendo le distanze dalle posizioni più estreme. La rivista volle essere moderna nell’attualità dei linguaggi e delle analisi, “fondandosi sulla concretezza e sulla specificità delle situazioni culturali e storiche presenti, ma non staticamente ferme”. Quest’idea, però, nella Firenze di quegli anni, dovette necessariamente fare i conti col papinianesimo, che esercitò un’intransigente egemonia sull’area futurista toscana. E infatti, per non restare tagliati fuori, Tommei, Di Staso, Titta Rosa si arruolarono come lacerbiani e futuristi, abbandonando tutte le riserve e le ambiguità precedentemente espresse in proposito e sospendendo le pubblicazioni di Quartiere latino col n. 8 del 28 febbraio 1914, ma garantendo in cambio agli abbonati la possibilità di ricevere i fascicoli di “Lacerba”, la rivista fondata e animata da Giovanni Papini tra il 1913 e il 1915, così importante nella storia letteraria italiana di cui Ugo Tommei divenne collaboratore piuttosto attivo.

Nelle prime settimane del 1915, Ugo Tommei, già impegnato nella propaganda “guerraiola”, scriveva a Giovanni Papini, rimasto l’unico direttore di Lacerba dopo il disimpegno di Ardengo Soffici all’inizio dell’anno, questa lettera:

“Caro Papini, come sta? Non le ho mai scritto sperando di vederla da un momento all’altro a Firenze, dove io dirigevo fino a pochi mesi fa il mio Quartiere Latino. Come correrei, se potessi, fra i francesi! Che brutta cosa è la famiglia! Mai come ora n’ho sentito il peso. Ma se non c’è dato di muoverci, perché non si fa qualcosa in altro campo? Perché tocca bene a noialtri giovani a scuotere i restii e a propugnare la guerra ai barbari. Ho visto Lacerba rossa: non le pare che dovrebbe essere il vero giornale della guerra? Dopo il suo bell’articolo sui fatti di Giugno tutti aspettano da lei un’esplicazione di gran genio – scusi l’espressione – al minuto. Un’indelebilità, un’opera duratura, resistente al tempo, ottenuta colla trattazione dell’attualità. Lei, poi, che sente così fortemente l’anima francese moderna, sono convinto che farebbe grandi cose. Se potessi persuaderlo! Lacerba dovrebbe diventare l’organo dei giovani intelligenti, svegli, ragionatori come sognatori – e liberi, soprattutto. La redazione dovrebbe essere un ufficio arruolamenti, la sua tipografia dovrebbe comporre da mattina a sera manifesti uso ’48! Tutti i quotidiani danno notizie incerte, stupide, tagliate; articoli balordi, gravi danze di regime, matrimoni degli Ulivi. Se no ci sono le cronachine illustrate da due soldi l’una. Occorrerebbe un vero diario-notizie importanti sintetiche, impressioni di amici partecipanti, inchieste, rivelazioni di dessous politici sporchi-articoletti personali e violenti. Lacerba dovrebbe essere il suo pamphlet. Un grande scrittore trova sempre la vita nell’attualità. Il giornalismo è un sudiciume perché i giornalisti italiani non costano un cazzo e c’entrano come in un rifugio. Ma lei m’insegna che proprio i francesi eccellono in questa letteratura del momento. Bisogna dare delle opinioni al pubblico. Non fare gli spettatori. Questa guerra è stata una rovina, è vero. Ma chi l’ha voluta? I tedeschi. E ormai addietro non si torna. Se tutti si fermassero sarebbe la vera rovina. Dunque buttiamoci anche noi. Non abbiamo mica paura. Del resto nessuno c’impedirebbe di dire le parole della nostra verità. Lacerba dovrebbe uscire anche straordinariamente ad ogni avvenimento straordinario. Come un quotidiano. Sarebbe un’anticipazione insperata del progetto cui stavamo dietro per l’anno nuovo. Si farebbero grandi tirature, da scaraventare fin dove la posta arriva. All’uscita si farebbero varare da una squadra di giovanotti strilloni: Lacerba! Lacerba! Lacerba! Papini capitano dei giovanotti coraggiosi! Papini non invecchia mai! Il suo amore per l’Italia e per l’Anarchia non è una bella frase da quindicinale artistico! È anche un pugno di ferro contro chi non vi acconsente! Viva la guerra: solo questo le dico io che pure non mi son sentito mai tanto anarchico come ora. Quella rivoluzione che da tanto si sollecita e si vitupera dovrebbe scoppiare proprio ora integrata ad una difesa dai nemici stranieri. Morte ai tiranni di dentro e a quelli di fuori. Lei crede che non ci sarebbero abbastanza persone da dedicare tempo a questo Rinnovamento Lacerbiano? Io mi offro fin d’ora a tutto quello che possa occorrere: articoli, correzioni di bozze, tazze di caffè, fatiche amministrative, sgobbamenti di tutti i generi; corse da una parte all’altra della città, riscossioni. Tutto purché non si restasse fermi a guardare in un momento così eroico. E quando ci fosse la necessità piglierei anche il fucile, benché ci veda poco e benché uno sparo mi rintontisca. E quando Lacerba fosse diventata davvero la parola vera del popolo italiano, dopo, alla fine della guerra, non se l’immagina lei la grande autorità e la grande importanza e considerazione delle nostre teorie artistiche? Se no questa Lacerba può morire. Pochi la comprano, nessuno ci si interessa. I vecchi piglieranno l’occasione per osservare che è morta per pacatezza d’idee. Porco giuda, non ci mancherebbe altro! Mi scriva, se non le dispiace, e faccia, faccia, faccia. Se dorme è un parricida. La saluto caramente”.

La lettera va datata con certezza al principio del 1915 sulla base dell’inequivocabile “ho visto Lacerba rossa”: e Lacerba cominciò infatti ad uscire col titolo in rosso il 3 gennaio di quell’anno. Questa era la fase più aspra della battaglia per l’intervento italiano, che vedeva impegnata la quasi totalità delle giovani avanguardie italiche. Ugo Tommei aveva dunque accolto il futurismo ma nella sua singolare accezione papiniana, in parte ostile al marinettismo. Affascinato dalla mistura antiborghese e antidemocratica lacerbiana, egli era il consapevole esponente di quella giovane generazione per cui inclinazione interventista e disposizione rivoluzionaria non furono affatto inconciliabili, ed anzi invocò proprio l’integrazione rivoluzione/guerra, anarchismo/interventismo: “morte ai tiranni di dentro e a quelli di fuori”, insomma.

Uno degli aspetti più rilevanti della lettera va individuato nella convinzione che Giovanni Papini potesse e dovesse assumere la leadership dell’intellettualità interventista e fare di Lacerba l’organo di una tale operazione politico-ideologica. Per Tommei, il carisma interventistico di Papini derivava direttamente dal suo carisma ribellistico. Il papinianesimo nel primo quindicennio del Ventesimo Secolo aveva fatto grazie ad esso numerosi proseliti nelle file anarchiche individualiste e questa realtà era confermata dalle abbondanti polemiche del “revisionista anarchico” Camillo Berneri contro l’individualismo libertario in rapporto a siffatto argomento. Carlo Molaschi parlò polemicamente di “lue futurista”; sempre quest’ultimo “per richiamare alla ragione gli sragionanti”, nel 1919 si scagliava retrospettivamente contro coloro che correvano “sulle orme di Papini per accettare i suoi scritti come Vangelo d’anarchismo”. Ma il sovversivismo individualista e antiborghese di “Lacerba”, a dispetto degli attacchi dei Sommi Pontefici dell’Anarchismo di scuola gradualista, era sincero: la rivista papiniana era giunta, ad esempio, al punto di offrire in omaggio ai suoi lettori i libri Cardi selvaggi e Aristocrazia operaia di Lorenzo Cenni, libertario, già direttore de La Blouse, singolare rivista di “letteratura operaia, compilata esclusivamente con scritti originali di autentici lavoratori del braccio” e stampata a Firenze, in pieno vocianesimo, tra il 1906 e il 1910.

L’anarchico interventista Ugo Tommei aveva già dimostrato quanto la sua ideologia fosse omologa a quella papiniana fin dai discorsi di quel personaggio-filo conduttore del “Quartiere Latino”, emblematico persino nel nome di “Maso il contadino”, cui Tommei stesso aveva affidato e delegato l’esposizione di talune proprie idee politiche e sociali. Maso – alter ego tommeiano – è infatti “contadino e poeta” e “nega partiti e padroni”, cosicché,  Antidemocratico, antiegualitario e panegotista, Maso il contadino detesta la borghesia ma anche le masse urbane – “il canagliume sbuccione” – pur amando vigorosamente il popolo, “che è ignorante, sì, crudo, testardo”: un amore per il popolo-campagna e un disprezzo per il popolo-città, dal sapore strapaesano, nel quale la borghesia e le masse operaie sono viste come componenti complementari, non conflittuali, della medesima civiltà produttiva. Né Maso-Tommei sopporta di venir classificato entro una linea politica determinata: anarchismo, per Tommei, vale rifiuto della Politica, anche se non nel senso dell’antipoliticità e del qualunquismo, quanto piuttosto in quello del superamento stesso della politica a vantaggio di una concezione artistico-totalizzante, una sorta di anarchismo radicale, socialista e patriottico. “Contadinità-arte-anarchismo” costituiscono insomma il tentativo di esplicarsi di una personalità contraddittoria ed ambivalente, naturale espressione di tutto un milieu minoritario ma ben visibile nei primi due decenni del Novecento Italiano.

Amico, come detto, di Ottone Rosai e a sua volta apologeta, come il pittore, del Teppismo, Tommei presenta dunque, in questa lettera a Papini appena riportata, proprio gli stati d’animo, le urgenze e i bisogni suoi, tipici ad un tempo di quella condizione generale esistenziale e di una ben determinata fase: ovvero, da un lato la domanda d’aggregazione, dall’altra la spinta all’eversione. Guerra e Rivoluzione si mescolano e si confondono, “Lacerba” viene trasformata da giornale d’arte in strumento di agglutinazione politica e Papini da scrittore d’assalto a capo ideologico: intervento bellico o Settimana Rossa, per Tommei si trattava sempre di realizzare i modi di una via estetico-politica all’eversione, di fomentare la tendenza allo spirito scissionistico come fenomeno di massa. In piena guerra, poco prima di morire al fronte, Tommei ribadirà sul maggior foglio del futurismo combattente, L’Italia Futurista, queste pulsioni, che avranno il loro culmine nella sua ultima visionaria proposta: quella per l’abolizione della Storia, una provocazione che in tempi ben diversi e più recenti verrà rilanciata da Carmelo Bene. In campo futurista, in seguito alla rottura fra la direzione di Lacerba e il gruppo fedele a Filippo Tommaso Marinetti, la scelta di Tommei per il lacerbismo fu operata senza alcuna remora e condivisa a Firenze da un nucleo di giovani intellettuali noti come “Cerebralisti” e capitanati da Mario Carli, successivo protagonista dell’Impresa di Fiume, ed Emilio Settimelli, che ritroveremo, anch’egli, con D’Annunzio nella Fiume “città di vita”.

Arte come sublimazione della politica, illogicità delle forme come provocazione sociale: il deflagrare bellico tanto auspicato prima, e celebrato poi, diventa per questi giovani rivoluzionari il terreno di prova e di preparazione per un anarchismo “intellettuale” scopertamente connotato dai segnali sovversivi e fiammeggianti della rossa bandiera e del fantastico fuoco. Per settori non indifferenti, soprattutto sul piano qualitativo, del sovversivismo, la Grande Guerra del 1914-1918 o Prima Guerra Mondiale fu l’occasione per esprimere una certa tendenza vitalistica, superomistica, energetica, attivistica, edonistica, estetizzante che si contrapponeva ad ogni Sinedrio, fosse pure rivoluzionario, e rifiutava ogni dogmatismo, giudicandoli come prodromici all’accettazione di un riformismo inerte, funzionale alle esigenze del capitalismo. I militi sovversivi aderirono a questa battaglia con l’impellente desiderio di mettersi alla prova, in discussione, in questione, di attuare nei fatti e non soltanto a parole il precetto nicciano “vivere pericolosamente”. Il caso personale di Tommei fu dunque emblematico di una intera generazione: egli cadde da eroe in guerra, sul Monte Asolone, presso Caporetto, a soli ventiquattro anni, il 18 gennaio 1918, sacrificando così la sua esistenza ai nobili ideali della Patria, del Socialismo e della Rivoluzione, coniugati peraltro in maniera personalissima e paradossale, in assoluta sintonia con i vissuti materialmente lontanissimi e al contempo spiritualmente contigui dei suoi commilitoni di provenienza sovversiva e di fede interventista.

 

Fonte: Ugo Tommei-L’intellettuale dissidente

Ardengo Soffici, frammentista e biografo plurilinguista

Ardengo Soffici (Rignano sull’Arno, 7 aprile 1879 – Vittoria Apuana, 19 agosto 1964) è stato più un pittore che uno scrittore, un pittore paesano che ha trasferito nelle sue opere quella limpidezza e naturale felicità tipiche del suo paesaggio nativo. Lo si potrebbe definire anche uno scrittore di frammenti ariosi e luminosi. Nato in una famiglia di agiati agricoltori, nel 1893 Ardengo Soffici si trasferisce con la famiglia a Firenze dove assiste al tracollo finanziario del padre; si dimostra interessato soprattutto verso l’arte piuttosto che sulla letteratura e infatti nel 1900, dopo la morte dei genitori si reca a Parigi dove comincia a lavorare come illustratore per importanti riviste. Nel 1907 torna in Italia dove stringe amicizia con Papini e Prezzolini con i quali collabora alla <<Voce>> e partecipa alle numerose polemiche che in quegli anni animavano il dibattito culturale allargando le sue conoscenze. Nel 1913 insieme a Palazzeschi e a Papini fonda la rivista futurista <<Lacerba>>.

Se prendiamo in esame il racconto Lemmonio Boreo vediamo emergere in tutta la sua chiarezza lo stile di Ardengo Soffici; il personaggio di Lemmonio ha un temperamento istintivo, dotato a volte di equilibrio che lo porta, per spontaneo sentimento, a difendere le persone più deboli che da soli nulla potrebbero contro sopraffazioni e ingiustizie. Lemmonio propone un compito serio: ricondurre l’ordine rotto dalla prepotenza e dalla malvagità dei forti; si mette dunque a girare per i paesi, si allea con un violento e con un furbo, ma a fin di bene. Insomma, Lemmonio è un don Chisciotte italiano, composta per tre quarti di ingenuità e per una parte di razionalità e se la caverà sempre bene perché in fondo Lemmonio, come tutti gli ottimisti crede nel suo programma e confida nel bene presente nel mondo.

Tuttavia ciò che interessa di più del Lemmonio Boreo non è il dato psicologico, ma quella qualità dello stile di Soffici di disporre dentro un disegno pulito e finito in ogni sua parte, il colore del paesaggio, gli aspetti, le figure che in esso circolano corpose; non a caso Lemmonio si sente appagato e sereno quando contempla solitariamente le campagne, quando ammira il sole mattutino e la pioggia cadere sulla strada. Dell’uomo, egli non sa quasi nulla, gli stessi suoi amici sono nelle sue mani come fantocci che egli muove a suo piacimento. In questo senso, tutto il romanzo è un susseguirsi di macchiette, tipi, e figurine. La campagna toscana è presente in maniera festosa ed è proprio su questo aspetto che Soffici differisce dagli altri scrittori toscani che invece puntano sulla malinconia e sulla nostalgia.

Più che un vero futurista Soffici può essere definito come ha detto il critico Mengaldo, «un Apollinaire italiano in formato ridotto». Egli infatti da Marinetti ha saputo cogliere la retorica e la tecnica dell’analogia, da Apollinaire l’assenza di punteggiatura, dalla pittura futurista gli accostamenti fantastici e dal nuovo cinema lo scorrere continuo delle immagini, avvalendosi con disinvoltura di un efficace plurilinguismo, che va dal toscanismo al francesismo.

Ardengo Soffici è stato anche un acuto ritrattista letterario che ha avuto grande solidità, fermezza e serietà, tipiche qualità del”campagnolo toscano” come dimostrano Ricordi di vita artistica e letteraria e soprattutto Rete mediterranea, in cui l’autore nel primo scritto, dichiara la sua fede letteraria e idee riguardanti il concetto di arte, la mortalità dello scrittore, il senso della storia, nel secondo rievoca e rivive iil suo periodo di giovinezza partendo da una visita allo studio del pittore macchiaiolo Giovanni Fattori. Questi ricordi ci consegnano un Soffici maturo, con il suo raggiunto equilibrio morale che, dal punto di vista letteraria, è tutto improntato di classicismo. A parte alcuni brevi immagini di scrittori italiani come Carducci, Verga e D’Annunzio, l’autore toscano si concentra sui profili dedicati a scrittori amici come Bellini, ancora alle prime armi letterarie ed è bene sottolineare come in quel periodo la letteratura italiana fosse scarsa di quel genere di testimonianze biografiche utili a dare rilievo ad un periodo letterario.

Nella produzione letteraria di Soffici, oltre ad altri scritti di narrativa e di prosa (Ignoto toscano, Arlecchino, Kobilek, La giostra dei sensi, Battaglia fra due vittorie, Ritratto delle cose di Francia), figurano anche poesie (Elegia dell’Ambra, Marsia e Apollo), e saggi anche di natura artistica (Cubismo e futurismo, Giovanni Fattori, Carlo Carrà, Periplo dell’arte, Serra e Croce)

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