‘La ferocia con il pizzo’ di Lisa Di Giovanni. Una nuova edizione per celebrare la poesia e l’amore

La ferocia con il pizzo, uscito per Edizioni Jolly Roger, è la silloge di Lisa di Giovanni. Originaria di Teramo, Di Giovanni non è solo una poetessa e scrittrice, ma anche una giornalista pubblicista iscritta all’ordine dei giornalisti del Lazio. È Direttore del semestrale cartaceo “La finestra sul Gran Sasso” ed è responsabile unico dell’ufficio stampa Pubbliche relazioni & Editoria.

Ideatrice del Concorso Letterario Nazionale FavolosaMente, collabora, con innumerevoli tesate giornalistiche e con diverse reti televisive che si occupano di diffondere libri. Da giugno 2021, fa parte di un “Team di professioniste e imprenditrici” di eccellenze italiane: gruppo coadiuvato dalla Confederazione AEPI (Associazioni Europee di professionisti e Imprese), ed è cofondatrice del marchio “Sinapsi 180” insieme alla prof.ssa Maura Ianni. Dopo il suo ultimo libro di poesia, pubblicato in inglese e italiano, intitolato “Daylight”, ritorna nuovamente sul mercato editoriale ancora una volta con raccolta di poesie. In questa inedita silloge, è l’amore il filo conduttore su cui viene intessuta tutta la narrazione.

La poesia è trasparenza, è intimità e solo accostandosi ad essa con delicatezza e rispetto si potrà fare un viaggio autentico nell’io della scrittrice e nel nostro. Attraverso uno stile semplice, essenziale ma mai banale l’autrice si mette a nudo, invitando anche il più timido lettore a fare lo stesso. Ogni poesia è introdotta da una piccola illustrazione manga in bianco e nero, che funge da preludio ad ogni componimento. In più qua è la all’interno del libro sono sparsi pensieri impulsivi, che arricchiscono ancora di più tutta la narrazione. “Di te” apre la silloge:

Per scrivere di te
devo aspettare la notte
deve calare il silenzio
e devo ascoltare solamente
il mio respiro
non è mai stato così difficile
tingere un foglio bianco
non è mai stato così toccante
sfiorare la tua anima […]

Lisa Di Giovanni, in questa lirica, si affida al silenzio della notte per esplorare le pieghe più profonde della sua anima. È proprio nel silenzio delle ore notturne che i sussulti fremono e impongono di farsi ascoltare. È proprio dalle ultime ore del tramonto alle prime luce dell’alba, compresa la notte, che Lisa Di Giovanni dà consistenza ai suoi versi imprimendoli sulla carta. In particolare è proprio il tramonto, l’ora, che come lei stessa scrive, più le assomiglia. Quella dell’Alba-Tramonto, insieme al buio e alla luce sono, le due ricorrenti dicotomie che attraversano quasi tutta l’opera.

L’autrice con il fascino di un bambino si meraviglia e si lascia meravigliare dall’amore. Un sentimento talvolta dolce ed innocente e talvolta potente. Un amore carnale e feroce, che governa azioni e pensieri, dominando la razionalità, ma al contempo romantico, dolce e prezioso come gli ornamenti di pizzo. Da qui il titolo dell’intera opera. Il lettore, attraverso la sublime penna della scrittrice, è spinto ad ammirare la bellezza del pizzo ma anche ad entrare nelle sue trasparenze. Grazie a queste poesie d’amore all’occorrenza, chi legge può vivere l’amore più delicato ma anche lasciarsi trasportare dalla sua passione bruciante. Grazie ad ogni verso, poeticamente scritto, il lettore si immedesima, scandagliando la propria anima, la propria essenza e i propri sentimenti.

Un indizio che immediatamente suggerisce il tema dei versi che compongono l’opera è proprio il sottotitolo “Poesie d’amore all’occorrenza”. Un dono che la scrittrice regala al lettore: chiunque può servirsi, rispecchiarsi, o trovare sollievo in questi versi, quando si manifesterà in loro il bisogno. Perché l’amore è un sentimento universale che prima o poi sboccia in ognuno di noi. Un amore dolce e romantico come il pizzo ma anche feroce perché travolgente e passionale. La di Giovanni, con il suo stile delicato ma anche potente invita il lettore ad ascoltare il linguaggio della propria anima, e a non aver paura di vivere questo forte sentimento. Che sia davanti al mare, davanti ad un tramonto, o attraverso una finestra, guardando la luna, che dobbiamo imparare a guardarci dentro, a vivere i nostri sentimenti.

L’amore prendilo per mano se non si avvicina

stringilo a te, accarezzalo, bacialo

lasciati andare

è semplicemente amore.

Non ti chiedere cosa sarà domani, non puoi saperlo.

L’amore prendilo per mano

ne sentirai la forza, il calore, l’energia

poi libera la fantasia

è semplicemente amore.

L’amore prendilo per mano

anche se fosse solo per un attimo

è semplicemente amore.

L’amore prendilo per mano quando ti verrà a cercare.

Vale sempre la pena amare e farsi amare, anche se si dovesse trattare di un momento effimero e fugace. Dobbiamo saper godere delle gioie che ci regala ma anche sopportarne i tormenti.  Ad arricchire la bellezza dei versi un corredo di pensieri sparsi dell’autrice stessa ed anche delle illustrazioni manga, disegnate da Diaferia S, che aprono ogni componimento. In questi versi, scritti tra il tramonto e il crepuscolo, momento della giornata, preferito della scrittrice, c’è un invito a sapere governare tutte le sensazioni che l’amore ci procura senza timore: perché non si può vivere senza amore, sarebbe come morire, come scrive Di Giovanni.

 

 

 

 

“La ferocia con il pizzo” di Lisa di Giovanni. Una riedizione patinata

“La ferocia con il pizzo” di Lisa di Giovanni, torna in una nuova edizione negli scaffali delle migliori librerie di tutta Italia e negli store online, arricchita stavolta da splendide illustrazioni in stile manga a cura dalla talentuosa Stefania Diaferia che, dopo aver letto con molta attenzione le poesie, ha voluto rappresentare l’autrice così come la troviamo in copertina. Fresca e genuina ma assolutamente adatta per rappresentare una donna dalla spiccata sensibilità che non ha mai smesso di ascoltare il famoso fanciullino di pascoliana memoria, a lei tanto caro. Una grafica colorata e accattivante ha reso poi il testo ancora più fruibile e convincente anche per un pubblico giovane che oggi fatica ad avvicinarsi al mondo della poesia, che pur fa parte del nostro immenso patrimonio artistico e culturale da sempre. Non per nulla l’Italia è la terra di grandi poeti e del Sommo e Venerato Dante.

Una silloge poetica quella di Lisa Di Giovanni, grande esperta di comunicazione e autrice sopraffina fin da giovane, che parla d’amore e che lo emana, come un profumo ora più dolce, ora più speziato, o ancora muschiato, da tutti i pori, memore però del fatto che ognuno di noi, proprio come ogni sentimento che si rispetti, ne abbia uno che è ben distinguibile e assolutamente originale: ed è per questo che va in qualche maniera custodito e tutelato. Così come viene esemplificato in questo verso: «L’amore è la migliore opera di ingegneria mai realizzata». 

La poesia permette di partecipare alla vita, e questa è una grande consolazione anche secondo Lisa di Giovanni, la quale cerca di sottrarre le cose ad un destino di vanificazione per restituirle alla vita stessa.

L’autrice cerca, senza alcuna forma di presunzione di essere esaustiva nel suo racconto in versi che non stanca che è reso ancora più piacevole dalla presenza di alcuni fugaci pensieri che svolgono la funzione di delicata, ma comunque molto evocativa, di raffinati maggiordomi che ci introducono nelle stanze dell’anima, dell’abile penna di una poetessa che sa – indubbiamente – il fatto suo, ma che non lo fa pesare perché lei è- in realtà- una di noi. «Una donna sensibile, ma non fragile, determinata e bella sia dentro che fuori»: così l’ha definita l’addetto stampa e poetessa Laura Gorini, che ha il privilegio di collaborare da tempo con Di Giovanni.

Commenta La ferocia con il pizzo, in una nota psicoanalitica, anche la dott.ssa Maura Ianni: «Il sentimento è qui ben sintetizzato in ogni sua parte, ma mai e poi mai anestetizzato perché non lo merita. Deve essere vissuto fino in fondo, senza alcuna paura o piccola remora.  Sa essere morbido e avvolgente come un caldo abbraccio e una coperta di lana colorata, ma anche ferire con ferocia, che talora è solo apparente, altre volte con delicatezza, con il pizzo per l’appunto.». È un sentimento che talora ha l’urgenza, persino assai impellente, di farsi vivere, altre volte sa aspettare, mentre altre chiede rispetto e persino privacy. Ma in ogni caso, è profondamente vero e merita pertanto di essere vissuto fino in fondo, dall’alba al tramonto. Non ha paura di esistere e, tra le pagine, c’è un invito – ora più implicito, ora più esplicito – a lasciarsi andare: perché la vita ha in serbo per ognuno di noi tante sorprese. L’importante è che ognuno di noi abbia il proprio mare e la propria rotta ben precisa, stampata non in testa, ma nel cuore e nell’anima.

L’autrice

Lisa Di Giovanni è nata a Teramo e vive a Roma da oltre vent’anni. Laureata in psicologia, lavora per una società di telecomunicazioni come business manager. È il portavoce di A.N.A.S (Associazione Nazionale di Azione Sociale), dove si occupa di pubbliche relazioni e progetti di inclusione sociale, nonché il tesoriere di CardioRes. È giornalista pubblicista e collabora con quotidiano “Paese Roma”, il “Quotidiano sociale”, “Mob Magazine” e del giornale partecipativo “Blasting News”: ed è inoltre il Direttore del semestrale cartaceo “La finestra sul Gran Sasso”, un magazine che parla di: tradizioni, arte, cultura, poesia e attualità. È scrittrice e poetessa, il suo ultimo libro di poesia è stato pubblicato in inglese e italiano, intitolato “Daylight”, contenente poesie, racconti e riflessioni.

Ha pubblicato, in collaborazione con Marco Sciame, la serie di graphic novel “Human’s end” e insieme a Nicola Magnolia, un saggio sul grande fumettista Go Nagai. A gennaio 2021, ha pubblicato un libro di narrativa autobiografica in collaborazione con Salvatore Cafiero, edito da L’Erudita Edizioni di Giulio Perrone, intitolato “Phoenix-Il potere immenso della musica”. È responsabile unico dell’ufficio stampa “P.R. & Editoria”: agenzia di comunicazione e consulenza strategica per scrittori, case editrici e agenzie che opera a livello nazionale e ha sede a Roma, è anche l’ideatrice del Concorso Letterario Nazionale “FavolosaMente”. Collabora, inoltre, con diverse reti televisive che si occupano di diffondere libri. Da giugno 2021, fa parte di un “Team di professioniste e imprenditrici” di eccellenze italiane: gruppo coadiuvato dalla Confederazione AEPI (Associazioni Europee di professionisti e Imprese), ed è cofondatrice del marchio “Sinapsi 180” insieme alla prof.ssa Maura Ianni.

 

 

 

La poetica realistica di Francesco Scarabicchi

Francesco Scarabicchi (Ancona, 10 febbraio 1951 – Ancona, 22 aprile 2021) è il poeta osservatore, cultore della parola intesa come accoglimento di ogni dettaglio. Nativo di Ancona resta orfano di padre a dieci anni: dopo aver conseguito il diploma magistrale si iscrive all’Università di Urbino ma, ben presto, lascia gli studi per lavorare in banca, impiego che mantiene per  trent’anni. L’incontro con il poeta Franco Scataglini determina quella sarà la sua strada: la poesia.

La poetica  di Francesco Scarabicchi nasce dalla consapevolezza: quella presa di coscienza realistica in ogni sua sfumatura, dalla bellezza all’intensa sofferenza. Peculiarità primaria del poeta marchigiano è, senza dubbio, la proiezione di ogni emozione nel reale: Scarabicchi non introietta, ma proietta ogni suo sentire nei versi, nella poesia, nella parole che sceglie con cura per cantare le pieghe delicate della sua anima.

Porto in salvo dal freddo le parole,
curo l’ombra dell’erba, la coltivo
alla luce notturna delle aiuole,
custodisco la casa dove vivo,
dico piano il tuo nome, lo conservo
per l’inverno che viene, come un lume.

 

Così si apre Il prato bianco, la raccolta del poeta ripubblicata da Einaudi nel 2017. La poesia di Scarabicchi sembra muoversi in un continuo flusso di malinconia antica e nuova che non fa sconti alla realtà ma, anzi, la inserisce in ogni locuzione, ogni strofa, ogni semantica possibile. Porzioni di reale si intersecano in un lessico semplice ma curato che richiama un certo stile senza orpelli e, al contempo, ricercato.

Nel fondo

Il poco più di notte
che si attarda
sul manto delle more
non tradisce
quel che di te non dici,
gli anni muti

scivolati nel fondo,
in lontananza.

 

La dimensione naturalistica e analogie con la poetica di Giovanni Pascoli

Nella raccolta Il prato bianco è chiara l’influenza del Pascoli: il modello sembra rimandare agli ingenui stupori del fanciullino, tuttavia appare chiara al lettore anche una certa analogia riguardante il linguaggio stilistico usato dai due autori. In Giovanni Pascoli abbiamo una minuzia nella narrazione che riguarda la descrizione e la menzione del paesaggio naturale. Si pensi a componimenti come  L’assiuolo, L’aquilone o L’ora di Barga;  la silloge Myracae così come i Canti di Castelvecchio, e in generale tutta la poetica pasco liana, è attenta a dare la giusta accezione a ogni soggetto presente in natura. Un  rimando che si nota anche in Scarabicchi quando parla del  manto di more, l’ombra dell’erba, le aiuole, i giardini: la natura è presente anche nei versi del poeta marchigiano, tuttavia il lessico si pone su una linea di comunicabilità con lettore, pur annoverando qualche tecnicismo.  La dimensione naturalistica-paesaggistica e quella famigliare e personale che allude al ricordo e al tempo che scorre, si fonde e plasma la poetica di Scarabicchi: due peculiarità che ricordano la poetica Pascoliana. Un esempio tangibile lo si può constatare nella poesia Luci distanti:

Il muschio è quell’odore che non muta
la sua antica infantile identità,

come se fosse sempre ovunque Ortona,
nel silenzio notturno che qui scende,

camera d’un albergo di provincia,
luci distanti che dai vetri vedo,

se appena un po’ m’accosto dopo cena.
Cadrà sempre la neve in ogni tempo,

sarà bianca com’era, fresca e intatta,
nasceranno bambini dai suoi fiocchi

come piccoli uomini che vanno
al paese incantato inesistente

che ciascuno conosce, se rammenta
l’albero dai bei doni illuminato.

I personaggi galleggiano in una dimensiona naturalistica, trasportati da un’atmosfera che rimanda sempre ai tempi dell’infanzia e, senza voler osare, quasi attingendo alla poetica crepuscolare: i luoghi abbandonati, le strade di provincia, le antiche e mitiche memorie di un tempo che  non tornerà. Stesso topos descritto nei versi di  Biglietto di settembre:


Questa pioggia che senti
giovane lungo i muri

picchia, se fai silenzio,
ai nostri vetri,

bagna inferriate e foglie,
crolla dalle grondaie,

allaga il buio,
cancella ponti e polvere

e scompare.

 

Il pensiero di Scarabicchi, tuttavia, è concreto: il poeta non è un veggente, esiste una sola realtà che è quella sensibile e l’artista non ha accesso a nessun altro tipo di dimensione più alta  e privilegiata. L’esistenza, per Scarabicchi, resta incasellata in un perfetto ‘’Eterno ritorno’’ che ne evidenzia la replicabilità, il grigiore e la sua limitatezza. La poesia, in questo caso, è solo un mezzo che ha il delicato compito di cercare e donare un barlume di ragionevolezza nella realtà delle cose, dei giorni, della vita e del suo fluire. Il poeta, in questo caso, non è un profeta ma uno spettatore che diviene interprete delle circostanze attraverso la poesia; le parole sono quindi l’ unico mezzo per accedere e comprendere la realtà.

Il tema della morte nella raccolta ‘’La figlia che non piange’’ e il valore della parola custode di memorie

La figlia che non piange è la silloge di Scarabicchi pubblicata postuma, da Einaudi, nel 2021. Qui, il poeta scomparso nell’aprile dello stesso anno, riflette sul tema della morta intesa come ultimo traguardo dell’uomo e come parte stessa e imprescindibile della vita di ognuno. Scarabicchi, anche in questa raccolta, affronta di riflesso argomenti come il tempo e il ricordo; la silloge è infatti una lunga riflessione sui momenti ormai passati e sfumati, nell’amara  constatazione che mai più faranno ritorno.

Prologo

Si decida il contabile del tempo
a restituirci gli anni non vissuti,
tutti i sogni, le cose, i persi sguardi,
le idee che vanno, veloci, a scomparire.
Che si decida presto a rimborsare
quanto ognuno ha mancato,
smarrendo dell’amore il caro nome.

 

Scarabicchi procede in un racconto dove la dimensione temporale, il ricordo e la morte si intersecano in versi chiari e delicati. Non è un lamento, il suo, ma la contemplazione di quello che è stato, scompare e permane come si può constatare nel componimento Qui regna il tempo che scompare:

Qui regna il tempo che scompare,
la fuga sua invisibile,
il nome che non resta,
giorno della stagione, breve resa,
limite d’ogni soglia inesistente.

 

E ancora l’istante che si somma agli altri e che ricrea  una dimensione temporale che ammanta emozioni, esistenze, periodi e che prende, parafrasando ancora Scarabicchi, solo per lasciare ancora:

Ah

Ah, il tempo che passa alle mie spalle,
sulle mie scarpe nuove, sulla pelle,
il giovane tempo che non ho incontrato,
il tempo abbandonato a mia insaputa,
quello smarrito lungo vie contrarie,
il tempo solitario d’ogni notte,
il tempo che mi viaggia e non ritorna,
tutto il tempo del tempo che c’è stato,
il tempo immaginato che perdòno,
quello di un’altra estate che scompare,
il tempo innamorato che è lontano,
il tempo che si volta non si ferma,
il tempo muto che si fa guardare,
il tempo intero che non puoi pensare,
quello che prende solo per lasciare.

 

I luoghi e i tempi permangono solo nella poesia, unica dimensione  che accoglie e coglie ogni sottigliezza che nella realtà della vita, e agli uomini, spesso sfugge: ecco, così, che solo la poesia riesce a salvaguardare e far durare in modo sempiterno relazioni e sentimenti in quanto la parola, nella sua insita peculiarità, è sia uno scrigno custode di ricordi che una messaggera di memorie erranti nel tempo senza che la sua essenza venga mai scalfita.

 

 

 

Marino Moretti, la poesia domestica e la letteratura del quotidiano

Marino Moretti, il poeta che affermava ‘’di non aver nulla da dire’’, ma che scrisse più di 70 libri.  Il poeta umile della letteratura domestica, colui che trasferiva la sua estrema modestia anche nella poesia. Celebre la raccolta Poesie scritte col lapis, ovvero, frammenti e versi potenzialmente cancellabili proprio perché non perfetti. Moretti nasce il 18 Luglio 1885 a Cesenatico.

Nel 1902 si trasferisce a Firenze per motivi di studio ma, ben presto, abbandona la vita studentesca per frequentare la scuola di recitazione dove ha modo di conoscere un altro grande nome della letteratura, Aldo Palazzeschi, di cui diviene amico fraterno. Intanto, entra in contatto con altri esponenti del movimento crepuscolare: Govoni, Corazzini, Gozzano. Dichiaratosi, apertamente, contro il fascismo il poeta firma anche il Manifesto antifascista di Benedetto Croce, pur conducendo una vita schiva e solitaria, e non partecipando attivamente alla politica.

La poetica del quotidiano e gli influssi di Giovanni Pascoli

La poesia di Moretti si ispira alle atmosfere proprie del Pascoli; un’evidenza che si concretizza, in particolar modo, nella raccolta Fraternità del 1905 in cui gli affetti domestici sono protagonisti.  Dedicata al fratello scomparso, il centro di questa raccolta è proprio il legame con la madre;  ma soprattutto si evidenzia il tema del nido in quanto casa, immagine ricorrente nella produzione pasco liana, contrapposto al mondo circostante. Seguono i poemetti della raccolta Serenata delle Zanzare, in cui ironicamente il poeta delinea la mentalità piccolo-borghese, con toni sarcastici. Moretti è il precursore della corrente letteraria del crepuscolarismo; quel tipo di letteratura che celebra le nostalgie quotidiane, le periferie, i giardini desolati, la malinconia provinciale; così come l’incedere del tempo nei cicli stagionali, o le figure vicine all’infanzia: le maestre, la scuola, il tempo andato.

Uno dei suoi componimenti legati al mondo scolastico è Le prime tristezze; l’indimenticabile poesia in cui Moretti sottolinea il rapporto fra infanzia e mondo quotidiano. In  Marino Moretti, si ritrovano principalmente versi in cui il rivolgersi al passato è continuo: i ricordi infantili sono spesso legati agli ambienti scolastici, proprio come racconta ne Le prime tristezze , o nei versi de La signora Lalla dedicata a una sua maestra.  La sua produzione letteraria non aspira a nessun lirismo, solo alla mera realtà delle cose che si presentano e sfuggono, insieme al tempo. Il lapis, a tal proposito, è caduco, impalpabile, effimero; così come la sua poetica che nulla ha a che fare con la magnificenza dei versi illustri come quelli di Dante Leopardi, o dello stesso Pascoli da cui Moretti trae principalmente  ispirazione da una sua famosa raccolta: I Canti di Castelvecchio.

Il rapporto fra l’infanzia e la dimensione del quotidiano riflesso nella poesia di Moretti

La poetica di Moretti non ha pretesa, non ha alcuna ambizione né vuole esser ricordata o divenire mitica; narra solo le porzioni di vita vissuta, la giovinezza sbiadita, i personaggi e i luoghi a cui nessuno presta attenzione ma che popolano il quotidiano. Questo tipo di poesia è poi la stessa poetica che si rifletterà in tutto il movimento letterario del Crepuscolarismo, per altro parola coniata dallo stesso Moretti che appare per la prima volta in Poesie scritte col lapis. In questa raccolta è proprio la noia quotidiana a far da protagonista; un tedio rassegnato, venato di insoddisfazioni e repressioni che si rispecchiano nei grigiori degli ambienti di provincia, nelle domeniche lunghe e malinconiche; un altro dei temi dominanti della poesia morettiana è proprio la domenica, emblema del giorno nostalgico, che ricorre spesso in molti componimenti. Nel componimento La domenica delle recluse, Moretti scrive:

Oggi, che noia, che malinconia, 
che desiderio di tornare indietro ! 

Ma il cuore dice con dolente metro, 

come presso all’altare: Così sia.

Il linguaggio è spesso reiterato, uniforme e monotono; l’anima del poeta pare trovare ristoro solo nella regressione al mondo infantile. I banchi di scuola, le maestre e i compagni sono elementi consolatori e tragici, al contempo; se da un lato leniscono l’inquietudine di Moretti, dall’altro gli ricordano momenti svaniti di una spensieratezza perduta.

Tuttavia, le poesie, non sono mai lamentose o insofferenti; spesso, sono pervase da momenti ironici e toni indispettiti e pungenti. Solo nel 1916, nella raccolta Il giardino dei frutti, si intravede un motivo poetico di insofferenza, come la scarsa propensione al Leopardi o l’amore tumultuoso per Carolina Invernizio.

Intanto scoppia la Prima Guerra Mondiale e, pur non essendo ritenuto idoneo al servizio militare, si arruola come infermiere. A questo periodo appartengono i romanzi; una prosa ambientata, per lo più, nel mondo piccolo borghese in cui Moretti non disdegna di sottolinearne i difetti. Dopo aver scritto numerose novelle, ritorna poi alla poesia nel 1969 con quattro raccolte: L’ultima estate (1969), tre anni e un giorno (1971), Le poverazze (1973) e Diario senza le date (1974). Lo stile qui appare più semplice, moderno e immediato intriso da vivida ironia.

Il provincialismo lessicale e delicato nel linguaggio poetico

Il tema della provincia è affrontato da Moretti a diversi livelli di approfondimento; non solo nelle tematiche, anche il lessico si riflette in un linguaggio semplice e immediato. Quello che descrive il poeta di Cesenatico è un provincialismo sonnacchioso, uggioso, fatto di ore vuote e lunghe, di gente che attende treni alla stazione o di signorine appassite che vagano fra i viali silenziosi e i giardini dipinti delle piccole città, ornati in base alle stagioni di riferimento. Emblematica è la poesia Il giardino della stazione:

E noi si va chi sa dove,
poveri illusi, si va
in cerca di felicità,
verso città sempre nuove,

verso l’ignoto e la sera!
Invece lì nel giardino
veduto dal finestrino
c’è tutta la primavera!

Due strofe presenti nella parte centrale della poesia che, tuttavia, sottolineano l’intero universo morettiano; la malinconia, la ricerca di una felicità senza vie da percorrere, mentre nel passato e nelle piccole strade che sono appartenute ai giorni dell’infanzia c’è tutta la felicità che si tenta di rincorrere, per tutta la vita, una volta trascorsa l’età dorata.

Il linguaggio utilizzato è spesso molto simile al parlato: la semplicità del lessico si evince dai termini di uso quotidiano che, il poeta, spesso usa nelle sue opere fino a giungere a una sorta di cantilena quasi infantile composta da ripetizioni. L’usus scribendi del Moretti persiste nell’utilizzo di aggettivi per descrivere la noia del quotidiano, ma anche diminuitivi o termini legati al mondo dell’infanzia,  quindi alla scuola o alla vita familiare che rimandano ancora una volta al Pascoli:

Vanno, vanno col loro
lumino mezzo verde,
come in soffio d’oro…
«Lucciola, lucciola, vien da me! ».
Oh, non aprire il pugno
per afferrarle… Guai!
Esse, bimbo, non sai?
son le fate di giugno…
«Lucciola, lucciola, vien da me! ».
Bimbo, che ne faresti
d’un lumino cosi
lieve? Immagino, si,
che me lo spegneresti…
«Lucciola, lucciola, vien da me! ».
Lucciole! Col lumino
loro, il lumino verde,
a qualcun che si perde
ti insegnano il cammino:
sono le nostre stelle,
le stelle della Terra,
o tu che ami la guerra,
fanciulletto ribelle.
«Lucciola, lucciola, vien da me!

In questa poesia dal titolo Lucciole si riscontra il tipico linguaggio di Moretti: la ripetizione, i diminuitivi, l’abbondanza del sostantivo per descrivere il momento ma, soprattutto, la beltà dell’infanzia. Seppur Moretti sia spesso legato alla antologie di un tempo e relegato al mondo infantile, la sua è una poesia introspettiva, malinconica e, soprattutto, dettaglia: il regredire al mondo dell’infanzia permette di conoscersi e di auto-riconoscersi nel tempo storico della realtà.

Pasqua 2022. ‘Il piccolo Vangelo’ di Giovanni Pascoli e il suo Gesù uomo

Negli anni di passaggio al Novecento, Giovanni Pascoli si dedicò allo studio assiduo della Bibbia. Le sue opere, in prosa e in poesia, sono disseminate di riferimenti alle Scritture. La lettura degli autografi raccolti nel fascicolo Preparativi per il Piccolo Vangelo chiarisce l’eterogeneità e la rilevanza delle fonti consultate. Si tratta delle pubblicazioni e delle ricerche più significative nell’esegesi, nella storia delle religioni e nella cultura popolare. Pascoli traduce paragrafi dalla Vie de Jésus di Renan, legge i Vangeli apocrifi curati da Constantin von Tischendorf, annota le visioni liriche di Matilde Serao davanti ai luoghi della Palestina. Tratteggia la figura, ovvero lo stile, del “suo” Gesù, cuore del non finito Piccolo Vangelo, esempio sommo di umanità, egli stesso poeta, in ricerca della propria divinità perduta: maestro di una felicità che passa attraverso la speranza e lo spirito di non contraddizione, verso una concordia universale la  cui bellezza è già nel suo annuncio.

 

Pascoli indugia sul Cantico dei Cantici. Rielabora gli spunti, talora minimi, offerti dalle sacre leggende popolari raccolte da Giuseppe Pitrè, vi accosta ver-setti dei vangeli, mostrando tutta la peculiarità del suo fare poetico. Il Piccolo Vangelo, anche per questo, si pone tra i casi esemplari delle riscritture bibliche.


I fogli autografi conservati a Castelvecchio nel fascicolo
Preparativi peril Piccolo Vangelo, che riporta nella sua terrena missione Gesù, che il poeta chiama “figlio di Dio”, ma che vede nel suo più realisti­co aspetto; un Gesù uomo, con il suo essere terreno con il qua­le affronta una divina missione, che per gli altri è un profeta, ma la sua è una missione di umanità, carità e di martirio, mostrano la ricchezza, l’attualità e la rilevanza delle fonti che Pascoli consultò e trascrisse, nella redazione del suo «futuro successo».


Assieme alle idee sparse, alle varie ipotesi abbozzate, ai lunghi
elenchi di titoli, vi sono infatti riferimenti ai più aggiornati studi in campo biblico con trascrizioni puntuali o richiami a consultazioni erudite. Questo aspetto, a suo modo sorprendente, tanto più se vi si affianca la coeva produzione dei poemetti cristiani in lingua latina esemplari per lingua e contenuti, invita a indagare più ampiamente i rapporti di Pascoli con il sentire religioso nel trapasso del secolo, per arrivare a suggerire i possibili motivi di una scelta letteraria che ha per protagonista Gesù.
Nel Gesù di Pascoli c’è un’altra figura, cioè è un uomo che pur aven­do in sé il dono divino, è uma­namente fra gli uomini, che va predicando la sua buona novella, che rende sani i cechi, gli osses­si, i lebbrosi, ed è tuttavia anche sconfortato, ed è anche stanco: “A sera stanco il figlio del Dio vivo,/ come lavoratore, era, ma pago;/ e s’assideva al tronco di un ulivo,/ guardando al cielo.”

La fine del secolo fluiva nel Novecento in un clima di generale attesa,
con umili e segrete speranze oppure solenni e rilevate aspettative. Ad amplificare l’annuncio del tempo nuovo, in una visione fortemente suggestiva, venivano tolti i sigilli alla Porta Santa di San Pietro, con l’inaugurazione del primo Giubileo nello Stato Italiano, quando l’autorità temporale del Papa era già sfumata.
Le stesse scansioni temporali del Giubileo, dedicato a Gesù Redentore, trovarono eco in Pascoli nella pubblicazione su «L’Illustrazione italiana» dei futuri. In Oriente ed In Occidente, explicit dei Poemi Conviviali nel 1904, con i titoli originari di La Natività e L’annunzio a Roma, rispettivamente il 24dicembre 1899 ed il 30 dicembre 1900.

In quegli anni di transizione, e di fervore, Giovanni Pascoli s’impegnava
così nello studio assiduo e approfondito della Bibbia con esiti diversi, dalla prosa alla poesia, lungo un medesimo disegno e pensiero. Le indagini dantesche, le riflessioni leopardiane, le prose programmatiche e d’impegno umanitario preparate tra il 1895 ed il 1906, quali L’era nuova, L’avvento, Il settimo giorno, La messa d’oro, sono infatti disseminate di riferimenti biblici con proposito, com’è stato rilevato, non puramente esemplificativo o retorico ben-sì etico-pedagogico.

 

Il Grande Codice offriva le chiavi interpretative del poema divino, illuminava la toccante meditazione sulla vita e sosteneva l’ideale umanitario pascoliano, nel segno di una possibile redenzione universale. La dedizione pascoliana alle pagine della Sacra Scrittura risulta inoltre di grande interesse perché si esprime in un contesto culturale, prossimo a Pascoli, ma di segno contrario, rappresentato in maniera emblematica da Carducci e dall’entourage bolognese.

La riscrittura biblica più palese è però quella riferita al Cantico dei Cantici (2, 11-13), altro luogo poetico di Minocchi [1898] 11, riproposta nell’incipit dell’inedita poesia che chiude le carte degli autografi e che poteva invece aprire il Piccolo Vangelo in un piano narrativo più ampio.
Un caso davvero interessante è tuttavia costituito dalla poesia Il fiore, la cui genesi sembra essere una leggenda raccolta da Pitrè, S. Petru e lu nuciuni. Il racconto è abbastanza noto. Secondo San Pietro l’aver fatto alberi alti con frutti piccoli e alberi bassi con frutti grandi è una contraddizione di cui si lamenta con Gesù. Il Maestro lo soddisfa. Ma durante una sosta sotto un albero di noce, San Pietrone riceve in testa il grosso frutto staccato facilmente dal ramo da una folata divento. Gesù stesso commenta con saggezza la disavventura di Pietro, dolorante e con la testa fasciata:

 

«Caru Petru, iu n’ò munnu fici tutti cosi giusti e prupurziunati» (Pitrè [1888: 171]). Di là dal sapore squisitamente popolare della parabola, Pascoli registra nei sui appunti solo l’immagine degli alberi alti e i frutti piccoli, citando la fonte (A VII, 244). L’apparente dissonanza tra i due termini opposti diviene ne Il fiore rassicurante già dai primi versi, sostituendo alla pesantezza del frutto la levità dei petali e offrendo la certezza di una sicura fioritura, in qualsiasi condizione o stato, nel tempo opportuno:

E seguitò: Nel fiore de la vita. Ché non è pianta, ché non è vermena che non si trovi al tempo suo fiorita;[…]e la quercia che immensa l’ombra spande, piccolo; e il fioraliso ch’ha lo stelo sottile, porta il fiore suo più grande: piccolo il pino, grande il grogo: e il melo
L’aneddotica ed il prodigioso ritornano invece nell’antologia Sul limitare, al capitolo XX, Parabole, Allegorie, Leggende, accanto alle dieci traduzioni delle parabole evangeliche e dai Fioretti di San Francesco.
I numeri di pagine indicati da Pascoli a margine delle trascrizioni, anche in latino, rinvia-no a quest’opera. Cfr. A VI, 13 e ss. Il
Piccolo Vangelo di Giovanni Pascoli l’ha bianco e pure è la fuggevol cosa! e il cardo, eterno e del color di cielo [1914: 200, vv. 1-3; 7-12].

 

Le parole del Gesù di Pascoli rimandano, ancora, ad una giustizia e ad una proporzione rivelate dalla stessa natura che non manca di confortare nella dolce e positiva illusione di una «fuggevol cosa», capace di custodire il miele della vita, libato dalle api, dal poeta e dalla «paziente anima umana» (L’ape,v. 8). L’immagine originaria si estende quindi al rapporto tra il fuggevole e l’eterno, l’asperità di un cespuglio spinoso e la grazia della rosa. E, in modo chiaro, tra lo sguardo comune, schietto e pratico, lo sguardo di San Pietro, e la contemplazione poetica che rinviene o crea destini ulteriori, all’ombra delle stelle d’oro:

[…] e da l’irsuto bronco esce la rosa: e tale è nuda e squallida e soletta a gli occhi nostri, sopra ignave zolle, che a l’ombra de le stelle d’oro aspetta d’aprir l’olezzo de le sue corolle(Il fiore, vv. 15-19). Questi versi da Il fiore, il cui andamento prosegue nella poesia L’ape, tentano la via della speranza o quanto meno l’aspirazione a tale virtù.

 

L’affinità con l’aura morale o conoscitiva della leggenda popolare di riferimento non fa altro che confermarne l’intento, in favore dell’esito poetico. Se San Pietro,«comu li cani vastunati» (Pitrè [1888: 171]), accetta lo stato delle cose entro il registro emotivo della paura, pur nell’accezione caricaturale, «pirchì annuncami pò succediri qualchi mali comu chistu», Pascoli, nelle parole di Gesù, invita ad una condizione interiore esile ma libera, come fa l’ape ovvero il poeta:

[…]
In verità ti dico, anima: ornello o salcio o cardo, ognuno ha sua fiorita; amara o dolce; ma sol dolce è quello che tu ne libi miele de la vita
(L’ape, vv. 16-19).
Le api, compagne simboliche della scrittura pascoliana, quali immagini classiche del poeta così come il miele lo è della poesia, appaiono dunque nel loro valore esemplare, al pari dei gigli dei campi e degli uccelli del cielo. Nel Piccolo Vangelo il magistero dell’ape è affine a quello dell’allodola. Perché l’ape ed il canto traggono dalla vita il miele.
Da menzionare anche la poesia Gesù, di solito lodata come uno dei testi nei quali il Pascoli mostrerebbe «tenerezza e liricità». Tuttavia bisogna nutrire dei dubbi intorno a questi due caratteri, tenerezza e liricità, come appartenenti in generale alla poesia di Pascoli, nonostante tanti bambineggiamenti di lettori e antologizzatori attraverso i quali essa è stata falsata e, una volta falsata, è stata offerta in pasto in particolare agli alunni dei primi gradi scolastici.

E Gesù rivedeva, oltre il Giordano,
campagne sotto il mietitor rimorte:
il suo giorno non molto era lontano.

E stettero le donne in sulle porte
delle case, dicendo: «Ave, Profeta!»
Egli pensava al giorno di sua morte.

Egli si assise all’ombra d’una meta
di grano, e disse: «Se non è chi celi
sotterra il seme, non sarà chi mieta».

Egli parlava di granai ne’ Cieli:
voi fanciulli, intorno lui correste
con nelle teste brune aridi steli.

Egli stringeva al seno quelle teste
brune; e Cefa parlò: «Se costì siedi,
temo per l’inconsutile tua veste».

>Egli abbracciava i suoi piccoli eredi:
«Il figlio – Giuda bisbigliò veloce –
d’un ladro, o Rabbi, t’è costì tra’ piedi:

Barabba ha nome il padre suo, che in croce
morirà». Ma il Profeta, alzando gli occhi,
«No», mormorò con l’ombra nella voce;

e prese il bimbo sopra i suoi ginocchi.

Sulla solitudine, tra sociologia e letteratura del ‘900. Calvino, Pavese, Pasolini, Beckett, Weil, Camus

Siamo animali sociali, ma talvolta abbiamo bisogno di stare da soli. La vita oscilla tra questi due poli: socialità e isolamento. La solitudine come la castità è molto più sopportabile se è una libera scelta e non una costrizione, dovuta a ostracismo, a emarginazione sociale. Anche stare troppo a contatto con gli altri può essere snervante, può esaurire.

Alcuni lavoratori, che svolgono professioni di aiuto, soffrono di burn out, a forza di stare troppo a contatto col pubblico. Il grande poeta Kavafis scriveva: “E se non hai la vita che desideri cerca di non sprecarla nel troppo commercio con la gente”.

Solitudine: tra sociologia e letteratura

Si può essere soli perché si ha un problema, si vive una determinata condizione esistenziale,  si soffre di un certo disagio. Gli altri però possono essere terapeutici così come l’inferno secondo Sartre. Filosoficamente qualcuno potrebbe affermare che stare con gli altri ci dà solo l’illusione di sentirsi meno soli, ma anche questa parvenza di convivialità è necessaria. Secondo uno studio del 2013 della Ohio University chi vive solo ha più probabilità di avere anomalie cardiache, di soffrire di depressione, di avere un sistema immunitario meno efficiente.

Oggi viviamo in una società senza comunità nella maggioranza dei casi. Alcuni si sentono soli e dicono che la città in cui vivono non dà loro niente, ma al mondo di oggi forse una città può offrire solo servizi e non sconfiggere la solitudine dei cittadini.

Durkheim aveva coniato il termine anomia per indicare il disordine morale, la sensazione di anonimato, la mancanza di solidarietà della civiltà moderna e aveva chiamato anomico il suicidio dovuto proprio a questi fattori. Oggi quindi si è più soli probabilmente di un tempo. Nel Mantovano e in provincia di Padova è stato replicato il caso di Villa del Conte per vincere l’isolamento delle persone.

Sono stati creati degli assessorati alla solitudine. Nell’antichità la solitudine era ricercata più spesso. Alcuni poeti antichi avevano un ideale di vita solitaria e bucolica. “Beata solitudo” dicevano i latini. Oggi siamo molto più connessi e più soli di un tempo. Gli psicologi chiamano tutto ciò solitudine digitale. Il caso esemplare sono i  giovanissimi Hikikomori giapponesi che si rinchiudono tutto il giorno nella loro stanza per stare al computer.

Il ritiro sociale è uno dei sintomi della schizofrenia,  ma non è assolutamente detto che sia sempre patologico. La propria psiche è come un contenitore che non si può unicamente riempire del mondo o del proprio io. Probabilmente propendere verso il mondo o l’io dipende anche dalla personalità di base, dalla estroversione o introversione di un individuo. Cosa è che può vincere la solitudine? L’amore innanzitutto,  poi l’amicizia, il senso di appartenenza a una comunità oppure a una generazione.

Amore e solitudine

Tuttavia oggi non esistono più i movimenti studenteschi. Un tempo esisteva una fauna studentesca che apparentemente era lì per il famigerato pezzo di carta da portare ai genitori e poi in realtà reclamava il sacrosanto diritto di divertirsi, acculturarsi al di fuori degli schemi precostituiti, scopare, viaggiare, ballare. Erano stati scritti tre romanzi sulla realtà studentesca rappresentativi delle varie epoche: “Porci con le ali” (anni’70), “Altri libertini” (anni’80)  e “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” (anni’90).

Forse questi romanzi avevano detto tutto sul mondo studentesco italiano. Dopo l’università non era più stata un momento di discussione, che talvolta diventava di scontro ideologico esasperato, ma un vero e proprio esamificio. Dagli anni’ 90 in poi si avvertiva che l’unica cosa che accomunava la generazione era l’autodistruzione. Si intuiva perfettamente ciò con il libro di Isabella SantacroceRimini”, il primo della serie.

Coloro che invece cercano di vincere la solitudine con l’amore possono imbattersi nell’insoddisfazione sessuale, nelle carenze affettive, nella delusione sentimentale. È difficile essere veramente soddisfatti in amore su tutti i fronti. Ci sono amori platonici e rapporti occasionali caratterizzati dall’impersonalità e l’anaffettività.

Come è difficilissimo avere tutto, trovare una perfetta corrispondenza d’amorosi sensi. L’abbraccio è sconosciuto a molti. Una ricerca, condotta da pediatri coordinati da Siavash Beiranvand, docente di anestesiologia, ha coinvolto 120 bambini tra i 2 e i 6 mesi e ha dimostrato che coloro che venivano abbracciati dalla madre piangevano molto di meno dopo un’iniezione.

I grandi mistici e pensatori

C’è chi per ovviare a questa carenze affettive si compra un animale domestico. La solitudine viene però caldamente consigliata dai mistici. I Padri del deserto si ritirarono appunto nel deserto per fuggire dalle tentazioni del mondo e del diavolo, come fece Cristo. Per San Giovanni della Croce bisogna meditare in solitudine, pregare per combattere i tre nemici dell’anima, ovvero il mondo, la carne, il demonio.

Anche per Santa Teresa d’Avila l’auto-perfezionamento passa attraverso la solitudine e la preghiera. Eckhart scriveva che non è necessario essere soli per raccogliersi interiormente e trovare Dio: il vero credente porterà Dio con sé in ogni luogo e con qualsiasi persona, nella chiesa, nella solitudine, perfino in prigione.

Per Simone Weil la solitudine va preservata e cercare di sfuggire a essa è una vigliaccaggine. Il mondo quindi distrae, tenta, fa peccare, sporca l’anima. Per i Sufi il vero essere spirituale sa raccogliersi così tanto da essere solo in mezzo alla folla, da non prestare alcuna attenzione alle voci della folla. Secondo i buddisti non bisogna farsi prendere dallo sconforto della solitudine, che può essere anche ritemprante e rilassante.

Monaci e suore di clausura, nonostante gli inviti della mistica cristiana alla solitudine, vivono però anch’essi in comunità. Gli stessi eremiti moderni accolgono visitatori e curiosi, pubblicano le loro meditazioni in gruppi Facebook. Secondo i mistici cristiani e non, nonostante le debolezze e le pecche umane, l’isolamento sociale conduce a Dio e Dio è tutto il contrario della solitudine: Dio è amore. Il mondo stesso è fondato sull’interdipendenza degli individui.

Calvino, Pasolini, Beckett

In un racconto di Calvino un uomo non si sa allacciare le scarpe e fortunatamente trova un uomo che gli fa questo favore: perfino in Hegel è il padrone ad avere più bisogno del servo perché è quest’ultimo che sa fare delle cose che il padrone non sa fare più. Al di là di questo tutti abbiamo un bisogno psicologico degli altri, di avvertire le loro voci, di udire il rumore del mondo. La camera anecoica degli Orfield Labs di Minneapolis, Stati Uniti, è un luogo insopportabile: nessuno ci resiste per più di un’ora. È insopportabile il silenzio assoluto, scalfito solo dal battito del proprio cuore.

Una differenza fondamentale è quella tra essere soli e sentirsi soli. Ciò che fa veramente male spesso è la percezione soggettiva della solitudine più che il riscontro oggettivo. Ci sono situazioni limite in cui si è malati e ci si trova soli di fronte alla morte: allora si avverte più che mai il bisogno degli altri. Si ha bisogno del conforto. Ci si ricordi dei familiari al capezzale del morente.

C’è anche chi prova la solitudine perché si sente incompreso. Bisogna essere molto forti e godere di buona salute per amare la solitudine,  come scrisse Pasolini in una sua poesia. Per molti il problema è come rompere la solitudine. Alcuni non sanno comunicare la solitudine. Beckett, Ionesco, Michelangelo Antonioni hanno espresso questa inadeguatezza.

La società post-industriale si basa su due opposte polarità: individualismo e conformismo. Molto spesso le persone trovano un compromesso a queste due esigenze sociali accettando un’omologazione dalle varianti minimali, cioè seguono le mode ma si discostano da esse in modo infinitesimale, aggiungendo un piccolo tocco personale. È anch’esso un modo per non sentirsi soli, per identificarsi in qualcosa, per far parte di qualcosa, di essere con gli altri, anche se è un’illusione effimera e momentanea.

Pavese, Bassani, Camus, Pascoli, Lolli

La propria identità sociale si basa sull’appartenenza a dei gruppi, a delle categorie sociali. Non sentirsi pecora nera è anch’esso un modo per non sentirsi soli. Sartre ne “La nausea” ci comunica che il mondo, l’esistenza non hanno alcun senso. La stessa cultura personificata dall’autodidatta è inutile, non soddisfa le aspettative perché anche quest’ultimo è sorpreso a molestare un adolescente e viene mandato via dalla biblioteca per questa ragione.

Thomas Bernhard ne “L’origine” tratta di un collegio, in cui si mischiano sadicamente nazismo e cattolicesimo. L’unico modo per salvarsi dal suicidio, dovuto al disagio per questo microcosmo concentrazionario, è allora suonare il violino. Primo Levi si suicidò perché non seppe convivere con l’orrore inenarrabile e inesprimibile del lager.

Pavese si sentiva padrone da solo al buio a meditare, ma fu proprio “la mania di solitudine”, che aveva spesso tramutato in ozio creativo a ucciderlo. Bassani tratta dell’emarginazione ebraica ai tempi del fascismo e ne “Gli occhiali d’oro” determinata dall’omosessualità.

Ne “Lo straniero” di Camus il protagonista prima non versa una lacrima alla notizia della morte della madre, quindi uccide per futili motivi sulla spiaggia un uomo, infine quando viene condannato a morte è impassibile. Siamo quindi tutti stranieri di fronte all’assurdo, che sfugge alla nostra logica.

Anche Moravia portò tutto alle estreme conseguenze con il romanzo “1934″. Il protagonista, un intellettuale vuole compiere un suicidio a due con una donna. Ma alla fine sarà beffato perché due donne si prenderanno gioco di lui. Come a dire che la disperazione non si può condividere, che si finisce per essere beffati da chi dimostra avere più attitudine alla vita.

Al protagonista non resta che continuare a vivere da solo con la sua disperazione. Giuseppe Ungaretti scrisse sulla tragedia della Prima Guerra Mondiale:

“Di queste case / Non è rimasto / Che qualche / Brandello di muro / Di tanti / Che mi corrispondevano / Non è rimasto / Neppure tanto” in San Martino del Carso e finisce la poesia  con “E’ il mio cuore / Il paese più straziato”.

Pascoli si sentiva abbandonato “come l’aratro in mezzo alla maggese”. Quasimodo scrisse: “Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera”. Per Kenneth Patchen la solitudine è “un coltello sporco puntato alla gola”.  Si possono avere molte amicizie e l’amore ma per molti al cospetto della morte siamo tutti soli. Per altri non bisogna sentirsi soli perché non lo siamo mai: c’è sempre qualcuno a questo mondo che ci capisce e condivide quello che sentiamo e proviamo, basta solo cercarlo.

Claudio Lolli, negli anni Settanta cantava questo brano sul suicidio:

 

“Quanto amore, quanto amore che ho cercato.

Quante ore, quante ore che ho passato,

Accanto a un termosifone per avere un poco di calore.

Quanto amore, quanto amore che ho cercato.

Quanti oggetti, quanti oggetti che ho rubato,

Mentre nessuno vedeva, mentre, nessuno mi guardava.

 

Quanto amore, quanto amore che ho cercato.

Dietro i vetri gialli e sporchi di una stanza,

Che aprono una città di ferro, senza voce, e senza una parola.

Quanto amore, quanto amore ho riversato.

Nelle cose più impensate e più banali,

Facendo collezione di farfalle o di vecchi giornali.

 

Le persone che ho fermato per la strada,

Sinceramente possono testimoniare,

Quanto amore ho cercato, ieri, prima, di essermi impiccato,

Ieri, prima di essermi impiccato.

Quanto amore, quanto amore, quanto amore, che ho cercato …”

 

 

 

Guido Gozzano: il poeta desolato

Guido Gozzano  nasce a Torino da una famiglia borghese benestante: il padre Fausto ingegnere e la madre Diodata Mautino figlia di un patriota mazziniano. Trascorre la sua vita a Torino, dove consegue con scarsi risultati il diploma liceale. Nel 1900 perde il padre e tre anni dopo s’iscrive alla facoltà di giurisprudenza, preferendo però seguire i corsi di letteratura italiana alla facoltà di lettere. All’università conosce molti scrittori tra cui Massimo Bontempelli, Giovanni Cena e Francesco Patonchi e in seguito costituirà il gruppo dei crepuscolari torinesi. Nel 1907 pubblica una raccolta di trenta poesie La via del rifugio grazie alla quale riscuoterà un discreto successo dalla critica. Nello stesso anno gli viene diagnosticata una lesione polmonare all’apice destro che lo costringe a viaggiare nella speranza di ottenere in climi marini e più miti un miglioramento del suo stato di salute.

Nella primavera del 1907 inizia un intenso rapporto d’amore con Amalia Guglielminetti, poetessa che incarna il modello di donna colta e sofisticata, conosciuta l’anno prima presso la Società di Cultura a Torino. Le Lettere d’amore di Guido e di Amalia testimoniano l’amore per la poetessa e rappresentano uno dei documenti più intensi della biografia gozzaniana. Nel 1909 abbandona definitivamente gli studi giuridici per dedicarsi alla poesia e nel 1911 pubblica il suo più importante libro, I colloqui, che rimangono il suo capolavoro. A causa della malattia giunge sino in India, alla ricerca di una miracolosa guarigione che non arriverà mai. L’India gli offre lo spunto per pubblicare un resoconto del suo viaggio, con la Stampa, sotto il nome di Verso la cuna del mondo. Muore a soli 32 anni nell’agosto del 1916.

Gozzano è considerato l’ultimo dei nostri classici, poiché è un autore che ha modellato una materia già esistente in modo del tutto personale. Parte infatti dalla poesia dannunziana per poi distaccarsene, attuando un processo di conversione anche spirituale, tutto volto a Dio. Distaccandosi dall’estetismo e riducendo al minimo le componenti dannunziane, modifica il suo stile, rendendolo sempre meno lirico e più prosaico.

Il verso di Gozzano è quindi narrativo e funzionale, nel senso che, anche, isolandolo o inserendolo in un’altra poesia, non perde la sua funzione, anzi ne dona una nuova. Gozzano è stato un poeta romantico-verista-borghese, che è riusito a narrare con una certa aulicità di cose più quotidiane, definite da egli stesso “buone cose di pessimo gusto”.

Il rifiuto del modello dannunziano influenzerà molti scrittori del ‘900, tanto da creare la corrente letteraria, detta crepuscolarismo.

È utile evidenziare le differenze tra Gozzano e D’Annunzio, non solo sull’aspetto stilistico, ma anche per quanto riguarda la biografia, per inquadrare al meglio la poetica del poeta torinese:

D’Annunzio condusse una vita “inimitabile”, dedita agli eccessi. Ciò si ripercuote nella sua poetica, attraverso la libertà formale e la ricchezza dei temi. D’Annunzio è orgoglioso di essere poeta.

Guido Gozzano, invece, ha avuto una vita breve ed infelice, come si può constatare anche nelle sue poesie: gli schemi metrici sono chiusi, da inquadrare entro strutture fortemente classiche, nei quali introduce dei rinnovamenti stilistici, come l’utilizzo delle rime a orecchio e l’ironia. I temi borghesi e intimistici di Gozzano lo portano a vergognarsi di essere poeta, definendosi “un coso a due gambe”. Egli rifiuta la poesia, ritenendola incapace di affermare un qualsiasi proposito positivo sia nel presente che nel futuro e decide di dedicarsi alla letteratura per scrivere coscientemente della fine della letteratura stessa. Va comunque sottolineato che, ciò nonostante, il modello di D’Annunzio ha influito molto nell’autore: difatti anche il rovesciamento o il rifiuto di un modello ne comporta la presa in considerazione, quanto meno per confutarlo.

Per comprendere al meglio la poetica di Guido Gozzano,e di un qualsiasi poeta, è bene far sempre riferimento alle opere, che risultano essere la testimonianza più limpida e concreta del loro pensiero.

 

Sergio Corazzini: il poeta piangente

“Piccolo libro inutile”

Sergio Corazzini (1886-1907) nasce a Roma da una famiglia poco benestante, tant’è che per ristrettezze economiche dovette abbandonare gli studi e lavorare in una compagnia d’assicurazioni. Colpito da una grave forma di tubercolosi muore nel 1907 a soli 21 anni. Le sue poesie pubblicate tra i 18 anni e la morte mostrano una lucida consapevolezza della malattia e della sua condanna ad una morte precoce: il poeta non nasconde la sua debolezza anzi la esibisce rendendo essa stessa la sua vera poetica.

Il novecento letterario è segnato dal nome di Sergio Corazzini: poeta di una sola stagione, quella crepuscolare, che rappresenta la sua veste più lacrimosa e lamentevole, ma che vive con profonda serietà e autenticità.

Piccolo libro inutile” (1906) è la quarta raccolta che, riassume indistintamente le caratteristiche della poesia di Sergio Corazzini e la sua poetica, infatti, domina uno spirito tragico, religioso, pessimistico e quasi mistico.

Ne “La Desolazione del povero poeta sentimentale”, prima poesia della raccolta “Piccolo libro inutile”, emerge il Sergio Corazzini più flebile che, con accenni vittimistici parla della propria tristezza, del proprio dolore, indulge alle lacrime e al pianto:

Perché tu mi dici: poeta?

Io non sono un poeta.

Io non sono che un piccolo fanciullo che piange

Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.

Perché tu mi dici: poeta?

Già nel titolo della poesia è possibile evincere che Sergio Corazzini contrappone l’idea, allora diffusa, di un poeta che aspira a esercitare un ruolo pubblico, si pensi a Carducci, Pascoli o al recente mito dannunziano, con l’immagine di un poeta “privato” che non ha in nessun modo funzioni di vate.

Sono presenti già nei primi cinque versi tutti i temi tipicamente crepuscolari: il pianto, la tristezza, la malinconia. È bene porre l’accento sulla parola “silenzio”, messa in maiuscolo, che risulta il contrario di parola e quindi di poeta. Tutto il componimento è possibile definirlo come un’unica litote, in cui Gozzano nega di essere un poeta, per affermare, però, la nascita di un nuovo modo di fare poesia.

In soli cinque versi Corazzini capovolge completamente l’idea di poeta e di poesia: non crede che la poesia sia utile, né aspira a manie di grandezza per essere riconosciuto pubblicamente. La sua arte è solo un piccolo libro inutile. Non esiste più il poeta guida o romantico in grado di esprimere sentimenti difficilmente esprimibili per i più. Il poeta ora è consapevole della crisi che vive, è desolato e non sa che dire se non parole sentimentali vane.

II

Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.

Le mie gioie furono semplici,

semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.

Oggi io penso a morire.

 

III

Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;

solamente perché i grandi angioli

su le vetrate delle cattedrali

mi fanno tramare d’amore e d’angoscia;

solamente perché, io sono, oramai,

rassegnato come uno specchio,

come un povero specchio melanconico.

Vedi che io non sono un poeta:

sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

 

IV

Oh, non maravigliarti della mia tristezza!

E non domandarmi;

io non saprei dirti che parole così vane,

Dio mio, così vane,

che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.

Le mie lagrime avrebbero l’aria

di sgranare un rosario di tristezza

davanti alla mia anima sette volte dolente,

ma io non sarei un poeta;

sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo

cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.

 

V

Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.

E i sacerdoti del silenzio sono i romori,

poi che senza di essi io  non avrei cercato e trovato il Dio.

 

VI

Questa notte ho dormito con le mani in croce.

Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo

dimenticato da tutti gli umani,

povera tenera preda del primo venuto;

e desiderai di essere venduto,

di essere battuto

di essere costretto a digiunare

per potermi mettere a piangere tutto solo,

disperatamente triste,

in un angolo oscuro.

 

VII

Io amo la vita semplice delle cose.

Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,

per ogni cosa che se ne andava!

Ma tu non mi comprendi e sorridi.

E pensi che io sia malato.

 

VIII

Oh, io sono, veramente malato!

E muoio, un poco, ogni giorno.

Vedi: come le cose.

Non sono, dunque, un poeta:

io so che per essere detto: poeta, conviene

viver ben altra vita!

Io non so, Dio mio, che morire.

Amen.

Il tono dimesso, lamentoso e incline al pianto esprime una scelta di tipo avanguardistico: rappresenta il rifiuto per la tradizione letteraria aulica e solenne, espresso con una scelta stilistica semplice, priva di aulicismi e metriche tradizionali, con il ricorso a un linguaggio semplice e al verso libero. Attraverso una sorta di litote “io non sono un poeta” e il “rifiuto” dei modelli precedenti è visibile l’auspicio corazziniano della nascita di un nuovo modello poetico.

La sua poesia si scontra fortemente con quella dannunziana: mentre il poeta abruzzese aveva teorizzato la sovrapposizione tra arte e vita intesa come sublime, Corazzini rovescia la sua sovrapposizione. Per il poeta romano la vita è quella reale, non sublime, di un giovane malato. La sua poesia non aspira al sublime ma all’autenticità, sita nella sofferenza. La negazione di essere un poeta, spinge Corazzini a sostenere di essere un piccolo fanciullo che piange. Il fanciullo inevitabilmente ci porta a Pascoli, ma con due realtà e definizioni diverse.” Il fanciullino” pascoliano è di natura letteraria e ha come fine quello di trasmettere il messaggio secondo cui per raggiungere la verità bisogna guardare la vita con occhi da fanciullo. È inteso da Pascoli come “adamo”, il primo uomo che guardando per la prima volta le cose, ne attribuisce un nome. È il fanciullo che gioca con le parole, che in un senso ludico dà voce all’inconscio.

In Corazzini invece il “fanciullo che piange” non è altro che il riflesso di una condizione reale e negativa, non potrebbe essere altrimenti per un uomo che esprime nelle sua poesia “il male di vivere”.

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