No al Cristo pupazzo dei Pride!

Mentre aspettiamo il consueto svilimento del Natale e dei suoi simboli, del suo spirito sacro, vengono in mente quei tre giovani vestiti da Cristo che mimano un atto sessuale con la croce, come a Bologna nel 2015 in un circolo Arcigay, il Cristo satirico e gay del collettivo Porta Dos Fundos, su Netflix, o quello “effeminato” – come titolava il Corsera – della Settimana Santa di Siviglia apparso poco tempo fa. E così via in una via crucis. Oplà!

Sarebbe ora di dire basta al Cristo pupazzo. Il Cristo pupazzo è la sofferenza dello spirito in una carne arlecchina che nulla ha a che spartire con quella mistica e sofferta di Giovanni Testori, grande drammaturgo, tra i più potenti scrittori del Novecento, cattolico e omosessuale illuminato: “Credo di poter dire che non riuscissi mai a fare a meno di Dio, a fare a meno di Cristo. Anzi, tanto più cercavo di allontanarlo, tanto più me lo sentivo ricadere addosso”. Ecco, che il Dio di un tempo sciatto possa cadergli addosso a coloro che lo rendono un inservibile pupazzo, e che possa pesargli nella coscienza. Poiché, in questo processo di svilimento, non si riesce proprio a intravedere un’estensione dell’arte.

Ma che si fotta il moralismo, però. Qui non si vuole sovrapporre leggi interiori un tanto al chilo, ma solo una riflessione oltre la presa per il culo. Si è persa la grazia, la grazia di un mondo intimo, che oggi vorrebbero privato e di cui vorrebbero privare: quello della convivenza con Dio. Si è persa la grazia del rispetto. L’estensione all’Assoluto, del resto, non si è mai interrotta nel tempo ed è costatazione tangibile del valore e della sanità degli uomini – di quegli uomini non ridotti a sterili replicanti bidimensionali e trinariciuti, ma ancora capaci di estendere la Bellezza del creato e di amplificarsi verso la profondità delle proprie dimensioni – prima ancora che atto di fede.

Uomini d’arte d’ogni tempo, così Franco Zeffirelli, col suo Gesù di Nazareth umanissimo, o pittori come Giovanni Antonio Bazzi, il Sodoma, che hanno vissuto la propria omosessualità, platonica, sfuggente o consistente, come dignitosa dimensione privata e non ostacolante il mondo, totalizzante o castrante, hanno innalzato la propria riflessione a Dio, rappresentando l’Assoluto, lasciando arte come eredità riflettente la qualità del tempo: kairos. L’omosessualità non può essere impedimento all’indagine su Dio, finanche all’amore di Dio, universale per sua natura. Tutto ciò che esula violentemente da questo è oltraggio e sciatteria, è miseria umana che rappresenta il Cristo pupazzo.

Kairos, eccoci qui, infine, a misurare la qualità del (nostro) tempo. Fa bene lo scultore degli angeli, Ernesto Lamagna, a rappresentare il tempo presente come un uomo che al suo momento opportuno, kairos, si presenta triste, pagliaccio felliniano, sconsolato, prossimo al pianto per una devastazione che comincia, anzitutto, dentro di sé.

Ma nel ka(ir)os, non frega nulla ai nuovi profeti della speculazione ideologica dei sessi, dell’insegnamento di Testori, di Pasolini e di altri come loro, tra i tanti, che ci testimoniano che si può indagare il rapporto tra Cristo e l’omosessualità mantenendo la carne e lo spirito separati e fusi insieme, in un canto di voci che si rincorrono, si sfuggono e s’abbracciano.

L’Eucaristia omosessuale è possibile, è possibile il peccato e la redenzione: già vi è la norma della natura, non occorre umiliare il sistema con leggi “da regime” o piume all’aria, ed è proprio Zeffirelli a ricordarcelo: il peccato della carne è tale se compiuto con un uomo o con una donna. Impossibile, oggigiorno, è la decenza, l’intelligenza e il rispetto. Testori, testa ormai inarrivabile, Penna, Pasolini, che insegue le tracce del sacro vivendo la sua carnale passione – ben manifestata anche da Dino Pedriali che lo ritrae nudo a leggere Sant’Agostino negli ultimi giorni di vita, nella immediata consapevolezza “che il suo compito era salvare il corpo di Pier Paolo Pasolini, il corpo intatto prima che fosse sfigurato da una terribile violenza”, come scrive Vittorio Sgarbi – e altri come loro, ci suggeriscono che la qualità degli uomini non si misura con la repressione, né con il rapporto privato con la Natura.

Dunque, io non offro il fianco alla discriminazione burina, così non voglio che il mio Dio venga burinamente discriminato. E me ne frego delle leggi, del progresso, della Civiltà, della rispettabilità, perché talvolta la rispettabilità, in questo mondino di fragilino cristallino alla Ned Flanders, va difesa dalla sordità e dalla cecità. Provocazione per provocazione: criticare la foto di Cristo oltraggiato potrebbe rischiare di diventare un reato? Bene, se ancora questa miseria presente è sottoposta alle leggi della democrazia, sia oltraggio punibile in maniera altrettanto ferrea chi  discrimina il Credo altrui in maniera palese, chi lede l’immagine sacra in tal modo. Non è questa la società dei diritti per tutti? Dell’elevazione dei capricci in diritti e della loro santificazione a norma di legge? Ebbene, frigno anche io.

“Essere omosessuale – ci ricorda Zeffirelli nel 2013 – è un impegno molto serio con noi stessi e con la società. Una tradizione antica e spesso di alto livello intellettuale”. Ecco, chissà quanti riusciranno a comprendere le parole del regista toscano, omosessuale e cattolico, che trasudano responsabilità. Chissà. Ai diversi della non diversità, intanto, chiediamo uno scatto di responsabilità e di stacco intellettuale da tanta miseria umana, capace di squarciare la pigrizia della paura che fa massa silenziosa e ideologizzazione istupidita, riflettendo con Sandro Penna, poeta omosessuale: “Beato chi è diverso, essendo egli diverso, ma guai a chi è diverso essendo egli comune”. Se si afferma un’istituzione culturalmente sorda, che costituisce la manifestazione di un mondo irrispettoso, si faccia avanti il suo contrario, che sappiamo esistere in maniera intelligente, ovvero i tanti che vivono la propria (omo)sessualità come la immaginava e la viveva Franco Zeffirelli, così molti altri.

Non si chiede il rosario di riparazione, ma una “legge di riparazione democratica”, un atto che incarni veramente il rispetto come maturazione nel progredire.

Arte, cinema letteratura: storia e identità nazionale in Pier Paolo Pasolini. Giovedì 20 Ottobre alla Suor Orsola Benincasa

“Nella travolgente parabola intellettuale, artistica e umana di Pier Paolo Pasolini l’amore appassionato per l’Italia, la sua storia, la sua unicità rappresenta una stella polare costante”. Così lo storico Eugenio Capozzi, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università Suor Orsola Benincasa, presenta la giornata di studi che l’Ateneo napoletano ha scelto di dedicare giovedì 20 Ottobre a partire dalle 10 a Pier Paolo Pasolini (1922-1975) nell’anno del centenario della sua nascita.

Per celebrare lo straordinario eclettismo culturale di uno dei più apprezzati intellettuali del Novecento l’Università Suor Orsola Benincasa, con il patrocino del Comitato Nazionale per il Centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, ha pensato ad una giornata di studi multidisciplinare che proverà a ricostruire il sentimento identitario nazionale di Pasolini dalle diverse angolazioni in cui si è dispiegata la sua enorme produzione artistica e culturale.

In ogni aspetto naturale, sociale, artistico, letterario dell’Italia – evidenzia Capozzi – Pasolini ha cercato avidamente l’eredità di quella cultura contadina e popolare che voleva salvare dalla distruzione ad opera della società di massa e ritrovava nei borghi diroccati così come nelle borgate e periferie delle metropoli. Ecco che allora la giornata di studi organizzata dall’Università Suor Orsola in occasione del centenario della sua nascita, riprendendo la storica citazione (“questa è l’Italia e non è questa l’Italia”) della sua poesia “L’umile Italia”, punta ad evidenziare alcuni nuclei fondamentali in cui quella passione prende forma nell’opera pasoliniana, tra poesia, narrativa, cinema, teatro, scritti critici e politici”.

Giovedì 20 ottobre alle ore 10 nella Biblioteca Pagliara dell’Università Suor Orsola Benincasa (ed in diretta streaming su www.facebook.com/unisob) per discutere di “Storia e identità nazionale in Pier Paolo Pasolini” si confronteranno, quindi, studiosi di varie discipline con relazioni che spazieranno dalla storia (L’abisso tra corpo e storia. Croce, Gramsci e i conti con l’ideologia) alla letteratura (L’anti-grand tour pasoliniano), dalla storia dell’arte (Roberto Longhi e Pasolini: Masaccio, i manieristi, Caravaggio e un’idea dell’Italia) al cinema (L’Italia ‘profonda’ al cinema: da Accattone a La ricotta).

Al tavolo dei relatori, coordinato da Alfonso Amendola, docente di Sociologia dei processi culturali all’Università di Salerno, dopo l’introduzione del Rettore del Suor Orsola, Lucio d’Alessandro, si alterneranno dalle 10 alle 17 lo storico dell’arte Stefano Causa, lo storico del cinema Augusto Sainati, gli italianisti Guido Cappelli, Nunzio Ruggiero, Carlo Vecce e Paola Villani e i giornalisti Alessandro Gnocchi ed Antonio Tricomi. Programma completo degli interventi (www.unisob.na.it/eventi).

Alle 17.30 la giornata dedicata a Pasolini dall’Università Suor Orsola Benincasa proseguirà con la proiezione di uno dei suoi film più noti, Il Decameron, nel Salotto culturale “Le Zifere”, fondato dallo storico dell’arte, Roberto Nicolucci, all’interno di uno dei palazzo storici più prestigiosi della città di Napoli: il Palazzo De Sangro di Vietri in piazzetta Nilo.

Franco Fortini e la letteratura industriale

Franco Fortini (Franco Lattes 1917-1994) nasce a Firenze da una famiglia ebraica e in giovane età si converte alla chiesa valdese. Arruolato tra le file dell’esercito, dopo l’8 settembre scappa in Svizzera dove frequenta Adriano Olivetti, conosciuto precedentemente a Firenze nel 1938.

Fortini è stato uno dei più acuti collaboratori del «Politecnico» di Vittorini, ma le necessità economiche lo spingono ad accettare l’offerta di lavoro arrivatagli dalla Olivetti. Il primo settembre 1947 si trasferisce a Ivrea e si occupa delle iniziative culturali di fabbrica collaborando con la rivista «Comunità».

L’intellettuale genovese è anche un abile pubblicitario e alla Olivetti viene riconosciuto questo suo talento, è lui infatti a dare il nome alle macchine da scrivere Lexicon, Lettera 22 e Lettera 32. Fortini, di credo marxista, rinnova per molti anni la tessera del PSI e rappresenta in veste sindacale gli operai nelle trattative con la proprietà.

Per questo motivo si ritrova spesso in disaccordo con Adriano Olivetti e si generano conflitti anche molto aspri ma costruttivi. Egli infatti ricorda con una nota d’affetto: «[…] qualsiasi altro industriale mi avrebbe cacciato su due piedi, per le noie che gli stavo procurando, e invece dopo una intemerata telefonica piuttosto aspra Olivetti mi condannò – mi condannò sì, ma facendomi un regalo straordinario, cioè trasferendomi a Milano alla pubblicità».

Il caso di Fortini (e anche quello di Ottieri, Donnarumma all’assalto) è esempio e dimostrazione dell’assenza di influenze esterne sulla
produzione letteraria. Gli intellettuali al servizio della Olivetti hanno più spesso assunto posizioni critiche che di elogio nei confronti della fabbrica e dell’industria in generale.

Per le Edizioni di comunità traduce nel 1952 La condizione operaia e nel 1954 La prima radice di Simone Weil. Il suo lavoro come pubblicitario, spesso al fianco di Giovanni Pintori, è apprezzato da tutti. In una lettera del 1958 Riccardo Musatti scrive ad Adriano Olivetti:

«Il Dr. Fortini ha dato negli anni scorsi una collaborazione qualitativamente eccellente e quantitativamente notevole, contribuendo in non piccola misura all’affermazione della pubblicità Olivetti» .

Musatti avanza poi la proposta di liberare Fortini da qualsiasi obbligo rappresentativo per far sì che gli fosse data libertà e carta bianca sul piano creativo. Alla morte di Olivetti Fortini scrive un breve articolo per «L’Avanti» e tre anni dopo lascia l’azienda continuando a collaborare saltuariamente.

Per Franco Fortini l’industria non produce solo oggetti, ma anche rapporti umani e soprattutto idee. Tra queste quella fondamentale è che gli oggetti non vengono adoperati perché utili ad uno scopo (l’auto mi serve per spostarmi), ma diventano importanti di per sé. Conseguenza di questo è l’acquisto delle merci da parte dei consumatori anche senza che questo sia motivato da un reale bisogno. Nessuna definizione sembra più adatta al consumismo.

Il soggetto, che da pensatore è divenuto consumatore, desidera possedere le merci non perché gli sono utili o necessarie, ma per
impadronirsi metaforicamente della loro forza e potenza figurativa. Ecco che si crea il “feticcio delle merci” e il frustrante perseguimento dello “status symbol” a tutti i costi.

Per Fortini è errato discutere di letteratura e industria se limitiamo il campo semantico dell’industriale alle mura della fabbrica. La tesi di fondo è che le idee e le forme dell’industria sono le idee e le forme della vita sociale. In altre parole l’industria non è un tema, ma la manifestazione di un tema che si chiama capitalismo; l’individuo non può scindere il mondo della produzione dai meccanismi della vita sociale poiché questo è entrato con prepotenza (e senza trovare particolari opposizioni) nelle nostre vite, deformando e plasmando anche il nostro inconscio.

Fortini non usa toni apocalittici e un approccio iperbolico ai fenomeni, al contrario sostiene un concetto semplice e altamente condivisibile: il nostro agire (in ambito sociale, privato, lavorativo…) è influenzato dall’impulso dell’industria intesa pasolinianamente come «nuovo modo di produzione».

Se l’industria penetra così a fondo nelle nostre vite allora si può parlare di industria e letteratura anche senza essere operai. L’interesse di Adriano Olivetti per la vita degli operai al di fuori delle  ore lavorative era dovuto alla sua comprensione del meccanismo di estensione tentacolare del nuovo modo di produzione e delle conseguenze di questo sul piano sociale.

Il capitalismo, che è la concentrazione delle forze di produzione e dei beni economici nelle mani di pochi gestori della totalità, ha previsto sin dal suo nascere un opposizione ad esso stesso. Pasolini ha infatti denunciato il paradossale pericolo di conformarsi all’anticonformismo e inserirsi tra le fila degli oppositori previsti e anzi necessari.

Fortini, pienamente conscio di questo meccanismo, adotta altre contromisure. Il linguaggio diventa molto più articolato e quasi oscuro, la sintassi complessa, il lessico a tratti arcaico. Se la realtà dell’industria e dei consumi vuole un linguaggio semplice e una comunicazione immediata, Fortini ricorre al classicismo stilistico, e talvolta anche alle sestine, per generare straniamento e quindi un cambio di passo nella comprensione del lettore.

 

Bibliografia
F. Fortini, Verifica dei poteri, Il Saggiatore, Milano, 1965.
F. Fortini, Astuti come le colombe, «Il Menabò», 5, 1962.
A. Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, v. III, Einaudi, Torino, 2009.
A. Saibene, L’Italia di Adriano Olivetti, Edizioni di comunità, Milano, 2017.
A. Olivetti, Città dell’uomo, Edizioni di Comunità, Milano, 2015.
V. Ochetto, Adriano Olivetti. La biografia, Edizioni di Comunità, Milano, 2013.
P. Pasolini, Lettere Luterane, Garzanti, 2015

 

Salvatore Schiano

Il neorealismo di Pasolini, tra letteratura e cinema

Il Neorealismo è una corrente letteraria di particolare spessore che ha creato nel corso degli anni un vero e proprio “filone” critico o semplicemente di analisi, da parte di studiosi, letterati, linguistici ma anche storici.

Attraverso la letteratura neorealista si mette in scena la quotidianità, con una serie di elementi negativi o positivi che siano e che indiscutibilmente la caratterizzano. Una rappresentazione oggettiva, che può scuotere gli animi. In questa situazione la più evidente testimonianza dei tempi, proprio per le sue contraddizioni, è offerta da Pier Paolo Pasolini1.

Il Neorealismo in Italia fu contraddistinto da una serie di “voci” impastate nella lingua letteraria ma anche artistica. La visione ed il modo critico-razionale di intervenire sulla quotidianità, propri di Pier Paolo Pasolini, si oppongono al cosiddetto sistema borghese, ma anche al capitalismo.

Quella di Pasolini è una forma di opposizione che sfocia in un vero e proprio dissenso ideologico ed oggettivo; lo scrittore bolognese prende le distanze, grazie al Neorealismo dalla tradizione lirica del Novecento, promuovendo un filone sperimentale diverso, lontano dai canoni della tradizione, vero, in cui chiunque avrebbe potuto riflettersi e riconoscersi. Da tutto ciò nasce quella che è stata definita la demistificazione che lo scrittore fa del non-civile neocapitalismo, l’ipotesi sempre più ostinata di rapporti umani nel quadro di una natura immutabile, la ricerca delle ragioni essenziali di vita al di fuori dell’ambito letterario, la negazione attiva come vitalità, l’impossibilità di mutare il sistema, una sorta di fatalismo astorico, le regressioni e il ritorno alle mitologie.

In questo modo, il Neorealismo di Pasolini diventa la forma più alta di comunicazione con quel mondo fatto di una propria psicologia e cultura due identità strettamente collegate tra loro e spesso dimenticate. Non solo in ambito prettamente letterario, ma anche dal punto di vista cinematografico, gli attori scelti da Pasolini si discostano dal ruolo reale di attori professionisti, sono persone scelte a caso, prese dalla strada, nei quartieri malfamati, casalinghe, padri di famiglia, bambini. I corpi, i volti, le posture di chi ha interpretato i personaggi dei film di Pasolini non sono prodotti di un artificio illusionistico che fa capo al sistema-cinema, poiché gli “attori” riportavano sulla pellicola ciò che erano nella vita reale, senza dover fingere in nulla.

Probabilmente è in questo che risiede la chiave di lettura del Neorealismo inteso come strumento di rappresentazione della verità. Rappresentare tutto ciò che circonda l’uomo ma senza artefatti, in modo naturale e spontaneo.

Una visione che si oppone al Capitalismo, dunque al quale prima si faceva menzione e che presuppone l’abolizione delle classi sociali a favore di un’identità che sappia far parlare di sé per ciò che si è.

L’orda capitalistica che ha invaso la società italiana era stata scorta nella sua più cruda totalità. Era scomparso quel sottoproletariato incontaminato, che trovava come alternativa alla cultura borghese la propria cultura, vera e autentica, basata su una scala di valori “altra”, come sosteneva lo stesso autore. Quella di Pier Paolo Pasolini è stata infatti definita una lotta contro l’universo consumistico.

Ci prova l’autore e regista friulano, con tutte le sue forze. Nonostante spesso non riesca ad arrivare dove vuole. Nonostante a volte proprio quella realtà dove prova ad agire, si opponga ad ogni cambiamento. Infondo è risaputo che il cambiamento è una costante ed in quanto tale non può essere forzato o richiesto, ma Pasolini, pur essendone consapevole ci prova.

Di conseguenza, Pier Paolo Pasolini problematizza il rapporto tra interiorità singola e oggettività sociale e vede come via d’uscita lo sperimentalismo «sprofondato in un’esperienza interiore» come «lotta innovatrice non nello stile ma nella cultura».

L’arte che ha portato avanti Pasolini, dunque, sposa in maniera precisa la sua intenzione di dare uno ampio scorcio di una dimensione sociale forzatamente messa da parte. Se precedentemente il Neorealismo di De Sica e Rossellini aveva il compito di porre in evidenza la disperazione mortale e totalizzante dell’uomo del dopo-guerra, quello di Pasolini invece di dare a quei ragazzi di vita la voce che gli era stata tolta e mettere in risalto lo spirito del tempo, veicolato dall’egemonia culturale di una borghesia cattolica e selettiva.

Quel genocidio culturale – a cui si è sempre appellato l’autore – che ha generato quella mutazione antropologica del popolo italiano –  ha visto una variazione dello spirito del tempo che ha invaso anche il sottoproletariato. Il cambiamento generato da una società che stava basando le proprie fondamenta sulla circolazione e sull’accumulo di denaro, ha causato una variazione di ogni relazione sociale.

 

“ […] Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione. E si tratta precisamente di uno di quei genocidi culturali che avevano preceduto i genocidi fisici di Hitler.

[…] Se io oggi volessi rigirare Accattone, non potrei più farlo. Non troverei più un solo giovane che fosse nel suo “corpo” neanche lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentato sé stessi in Accattone. Non troverei più un solo giovane che sapesse dire con quella voce, quelle battute. Non soltanto egli non avrebbe lo spirito e la mentalità per dirle: ma addirittura non le capirebbe nemmeno […]”.  

Lettere Luterane 

Silenzio, dettaglio e utopia nell’opera di Paolo Volponi, tra Adriano Olivetti e Pasolini

Nonostante intorno all’opera di Volponi si registri ormai un notevole risveglio di interesse, confermato dalla pubblicazione di due raccolte di letture critiche e di alcuni scritti inediti, permangono delle zone d’ombra su questioni teorico-letterarie di indubbia importanza, nonché su alcuni aspetti, e non quelli meno significativi, inerenti alla precisazione della sua poetica, soprattutto correlati all’apporto degli intellettuali con i quali lo scrittore urbinate intratteneva costanti scambi culturali; il riferimento è a Leonetti, Roversi, ma anche a Fortini, Pampaloni e Giudici che lavoravano con lui alla Olivetti di Ivrea e, in particolare, a Pasolini che Volponi ha sempre considerato uno dei suoi maestri: «dico sempre – dichiarava in un’intervista rilasciata nel 1988 e pubblicata dopo la sua morte – che ho avuto due maestri nella vita, uno è Pier Paolo Pasolini, l’altro è Adriano Olivetti».

L’umanesimo industriale di Olivetti nell’Italia del dopoguerra

Breve parentesi storica: nel 1950 Adriano Olivetti lanciò sul mercato la moderna e innovativa macchina da scrivere Lettera 22. Il progetto dell’imprenditore era quello di rendere una simile invenzione alla portata di tutti. Questo traguardo fu ben presto raggiunto e la Lettera 22 entrò nelle case e negli uffici di milioni di italiani, fra cui scrittori e giornalisti come Enzo Biagi, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia e Oriana Fallaci, diventando – al pari della Vespa Piaggio e della Fiat 600 – simbolo dell’Italia della ripresa economica del dopoguerra e della modernizzazione. Un successo del genere fu reso possibile anche grazie a una comunicazione vincente e innovativa, fondata sul rapporto pubblicità-poesia, curata dal poeta Franco Fortini.

Adriano Olivetti era convinto, infatti, che umanisti e intellettuali potessero non solo innovare forme e linguaggi stantii, ma anche offrire risposte concrete a quella domanda (retorica) pronunciata davanti agli operai di Pozzuoli in occasione dell’apertura della nuova fabbrica: “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti?”. Attraverso l’integrazione e la cooperazione fra formazione tecnico-scientifica e umanistica, Olivetti dimostrò come fosse possibile un tipo diverso di fabbrica, attenta oltre che al profitto ai diritti, al benessere e alle emozioni del lavoratore, capace di alimentare la “sua fiamma divina” e di essere uno strumento di “elevazione e riscatto”.

A dimostrazione che l’acuto ingegnere credeva fortemente nella formazione letteraria e nell’importanza dello studio delle materie umanistiche, tanto bistrattate oggi, fu quindi istituita una politica di selezione del personale che, ai livelli più alti, si basava sul “principio delle terne”: per ogni nuovo lavoratore tecnico che entrava a far parte dell’azienda ne veniva assunto uno di formazione economico-legale e uno di formazione umanistica. Inoltre, nacquero una biblioteca aziendale, aperta nella pausa pranzo, e un centro culturale dove venivano organizzate mostre d’arte e conferenze con poeti, storici, registi, psicologi.

La letteratura secondo Paolo Volponi

Fin dalle prime considerazioni di Volponi sulla letteratura si desume che il ruolo di chi scrive non è mai separato da quello complementare del lettore, la cui funzione di ‘accompagnamento’ rimane imprescindibile ancora negli ultimi scritti degli anni Novanta. Il rapporto tra le due entità pragmatiche della comunicazione (testo/lettore) si gioca costantemente sull’asse dinamico azione/reazione senza, però, che i termini dell’endiadi definitoria intrattengano fra di loro una relazione strettamente meccanicistica.

Volponi precisa che il trasferimento di informazioni presuppone una partecipazione attiva e competente da parte di chi deve interpretare il testo che non deve esaurirsi di fronte alle prime difficoltà di comprensione: queste, secondo Volponi, sarebbero riconducibili esclusivamente alla cattiva disposizione del fruitore e sarebbero frutto di un certo tipo di scrittura troppo indulgente nei confronti di un gusto ben diffuso per una letteratura leggera, facile, che immediatamente faccia capire tutto a tutti, negazione in termini del concetto stesso di letteratura.

La poesia come integrazione dei processi logici e creativi

Il romanzo secondo Volponi, dunque, non si deve limitare a registrare gli eventi attraverso modalità di narrazione convenzionali, dolci dice Volponi; deve, al contrario, impegnarsi a rompere gli schemi del reale, andando ansiosamente al di là delle accomodanti regole imposte dalla sfera sociale tradizionale: dalle crepe del conflitto tra realtà e società nascono i romanzi migliori, quelli che si sottraggono a codici rigidi e univoci: l’opera narrativa non può rifarsi a una ricostruzione del reale di stampo positivistico, né ricercare ostinatamente un’esibita e inerte (che etimologicamente equivale a ‘senza arte’) rappresentazione della deviazione da una norma, sia essa formale o no.

Volponi prende così le distanze da una certa avanguardia, quella dei «Novissimi», con Sanguineti in testa, troppo legata a suo avviso ai concetti di crisi e di letteratura come esercizio laboratoriale fine a se stesso e incapace, così condotta, di proporre valori nuovi e diversi. A essa Volponi preferirebbe, allo stesso modo di Pasolini, una forma di sperimentalismo che miri maggiormente al conflitto e alla ricerca.

La poesia di Volponi opera un’integrazione viscerale e biologico-umorale dei normali processi logici e creativi, ferma restando una periodicità
tematica e immaginativa che, in ogni caso, la discosta dalla ‘rivolta assoluta’ propria dei canoni surrealisti. Nel ripetersi delle unità metriche potrebbe scorgersi una qualche coerenza in grado di controllare la descrizione dell’evento insensato. Di fatto, Volponi propone una sorta di frottage del reale con vocazione visionaria. L’iterazione di occorrimenti sia tematici che sintattici, anche attraverso la figura retorica dell’enumeratio, appoggia una ridondanza dell’immagine che ne disturba la percezione e sanziona la vacuità dello sforzo interpretativo.

Il realismo esistenziale di Volponi

Con Le porte dell’Appennino Volponi racconta, dunque, il reale mediante lo stesso realismo esistenziale delle prime raccolte, ma senza i toni ermetici, raffermi di quelle: adesso sviluppa un tema iniziale, primordiale, secondo un passo pienamente diegetico. All’interno della raccolta del Sessanta, valuterò il modo in cui l’inciso che Volponi ha riservato alle cause prime del suo destino d’amore (sostanzialmente la sezione intitolata Le belle Cecilie) è supportato da un lessico e da alcuni concetti di chiara impronta astrologica che si stagliano su uno sfondo verbale medio e su spunti di psicologia elementare.

Una psicologia dotata, però, di una prospettiva ontologica allargata che non è mai – come aveva già notato Pasolini a proposito delle prime
prove del poeta urbinate – «adamantina e frigida»; si riscalda adesso ancor più nella fusione finalmente sensuale, perché ora voracemente rivolta all’oggetto, di Io ed Es. Sempre Pasolini aveva efficacemente sintetizzato la tensione del verso volponiano mediante la duplice endiadi «sesso-campagna»e «eros-stagione» di nuovo efficace per restituire il vigore (quell’accento virile scorto da Fortini) dei versi pubblicati nel Sessanta.

Il pensiero di Volponi è, dunque, sempre segnato dalla sistematicità di una tensione utopica verso la ricostruzione: l’uomo alla fine dell’uomo (o comunque chi vive in un universo senza tempo, ma già sedimentato in esperienza culturale umana) non è più un crocevia di grovigli; è piuttosto uno spazio vuoto senza autocoscienza. Tale soggetto dovrebbe, invece, intrecciarsi con l’oggetto, vi si dovrebbe sovrapporre e insieme resistergli, ponendosi come entità dinamica e incoerente.

La scissione diventerebbe così tanto componente interna del conoscere, forma della conoscenza continuamente superata, quanto condizione strutturale esteriore, ma mai fissa. Nel precisare ciò, Volponi sposta continuamente il discorso dal conflitto reale a quello di un soggetto collettivo disgregato e inconsapevole.

 

Fonte Alessandro Gaudio

‘Una vita violenta’, l’edizione anastatica della Garzanti in occasione del centenario della nascita di Pasolini

Una vita violenta, romanzo del 1959 di Pier Paolo Pasolini, riprende i temi e gli ambienti di Ragazzi di vita e rivela Pasolini al pubblico e alla critica, un libro sentito, soccorso dall’intelligenza e dall’amore da parte dell’autore per i frammenti narrativi, che si rifanno alla tradizione letteraria ottocentesca. Un romanzo, che come avverte lo stesso Pasolini alla fine del libro, in sostanza è una storia realmente accaduta e che avviene ogni giorno.

«La trama di Una vita violenta mi si è fulmineamente delineata una sera del ’53 o ’54… C’era un’aria fradicia e dolente… Camminavo nel fango. E lì, alla fermata dell’autobus che svolta verso Pietralata, ho conosciuto Tommaso. Non si chiamava Tommaso: ma era identico, di faccia, a come poi l’ho dipinto… Come spesso usano fare i giovani romani, prese subito confidenza: e, in pochi minuti mi raccontò tutta la sua storia». (Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere, 1966)

Il romanzo è stato ristampato in occasione dell’anniversario della nascita di Pasolini (il 5 marzo 1922), in copia anastatica dalla casa editrice Garzanti.

La vita di Tommaso e degli altri ragazzi nella Roma del dopoguerra è davvero una vita violenta e spietata. Le emozioni che suscita il protagonista sono davvero forti e il suo tentativo di riscattarsi per avere una vita migliore, ha generato in me emozioni contrastanti viste le sue scelte. Se da una parte si può provare pena e sofferenza per questo “ragazzino”, dall’altra predomina la rabbia.

“Io a bazzicà co’ questi ce guadagno,” pensava tutto paonazzo Tommaso. “Ce guadagno anche de prestiggio! Che, vòi mette annà a pijà un caffè o annà a un cinema co’ questi o cò quei ricottari? Questi, er più disgrazziato sta a panza ar sole, c’ha er padre dottore, avvocato, ingegnere: tutta gente che nun trema!”

Lapalissiana è l’influenza del dialetto romanesco su Pasolini, che domina nei continui e briosi dialoghi ricchi dei tipici intercalare del vernacolo capitolino, di parolacce e di folklore, il quale si riflette anche sulla voce narrante, sporcandone spesso la correttezza dell’italiano ma aumentando sia la veridicità del racconto che l’empatia prodotta nel lettore.

Già per Ragazzi di vita la critica aveva parlato di un superamento del neorealismo, dovuto a una specie di conflagrazione linguistica per cui ogni sentimentalismo e documentarismo residui nel neorealismo erano andati in pezzi. Come si legge nella prefazione all’opera, con Una vita violenta il processo in atto va avanti. L’ambiente con il suo brulicare di episodi e di figure non è più l’oggetto diretto del racconto, ma è in funzione di un unico personaggio centrale, la cui storia, pur nella sua violenza e confusione, è una vera storia, con quanto di epico ma anche di razionale questo significa.

Dato l’ambiente in cui vive-il livello culturale sottoproletario della malavita romana-il giovane protagonista Tommaso non potrà mai giungere a una vera coscienza. Dal tugurio all’appartamento all’INA case, dalle strade di Roma a Regina Coeli, dall’esperienza missina a quella comunista, le contraddizioni attraverso le quali il ragazzo passa non possono che restare puramente esistenziali, se viste dall’interno.

Ma se si giudica oggettivamente, nel nostro momento storico, il loro processo risulterà, nello stesso tempo, dialettico. In qualche modo infatti egli alla fine sarà andato al di là del suo ambiente, avrà superato il mondo della sua fangosa borgata, covo di ogni miseria, vizio e violenza. Rispetto a Ragazzi di vita, inoltre, Una vita violenta appare ancora più libero e complesso: anziché restringersi e semplificarsi dentro i limiti di una storia particolare e tipica, sembra non avere più limiti, nell’atto di impadronirsi mimeticamente dell’enorme sottomondo romano.

Anche per questo romanzo Pier Paolo Pasolini si conferma, come ebbe a dire Emilio Cecchi, un vero pittore dello squallido paesaggio suburbano, dei cantieri sfortunati e in abbandono, dei fiumiciattoli contaminati. Questi motivi conciliano Pasolini ad una calma contemplativa, a un senso di tristezza non più rabbiosa e spasmodica, molto quietamente versata nella cose.

“Non era successo niente: una borgata allagata dalla pioggia, qualche catapecchia sfondata, dove ci stava della gente che, nella vita, ne aveva passate pure di peggio. Ma tutti piangevano, si sentivano spersi, assassinati. Solo in quel pannaccio rosso, tutto zuppo e ingozzito, che Tommaso ributtò lì a un cantone, in mezzo a quella calca di disgraziati, pareva brilluccicare, ancora, un po’ di speranza.”

Sulla poesia del ‘900. Sperimentalismi, neolirismi, ideologie

Nel corso del ‘900, in poesia, si è diffuso il verso libero. Laforgue fu il primo grande poeta ad adoperare tale verso e in merito a ciò scrisse: “Mi dimentico di rimare, mi dimentico il numero delle sillabe, mi dimentico la distribuzione delle strofe”.

Anche Pound fece un uso moderato nelle proprie liriche del verso libero. I poeti dell’imagismo scrivevano tutti in versi liberi. E. Lee Masters nella celeberrima Antologia di Spoon River adoperò spesso nei suoi epitaffi versi liberi e non prestò molta attenzione al rispetto della metrica.

Per quel che riguarda l’Italia i crepuscolari Corazzini, Gozzano, Govoni, pur utilizzando anche forme metriche tradizionali, introdussero il verso libero nella poesia italiana. Anche il poeta simbolista Gian Pietro Lucini scriveva soprattutto versi liberi e dichiarò che al momento della creazione non cercava “misure prestabilite (versi), né sequenze numerate di misure (strofe)”, né il posizionamento di accenti tonici.

I poeti vociani Jahier e Boine scrissero solo prose poetiche, mentre i futuristi utilizzarono solo ed esclusivamente il verso libero. Se in poesia e in letteratura devono essere messe delle regole forse devono riguardare il rapporto tra l’arte e il tentativo di ideologizzazione dell’arte stessa.

Ritornando al verso libero alcuni intellettuali ritengono che la vera libertà si acquisisca nell’ambito delle regole imposte e degli schemi precostituiti o almeno questa è la loro giustificazione alla loro concezione di una poesia, che per essere tale deve adoprare le forme metriche classiche. Altri intellettuali ritengono invece che nell’arte la libertà non esista, per cui devono essere accettate le regole imposte dalla tradizione. Per  il poeta Robert Frostscrivere versi liberi è come giocare a tennis senza rete».

Ma non è detto che chi scriva versi liberi e non rispetti la metrica tradizionale non si imponga altre regole riguardanti altri ambiti. Un tempo erano presenti dei canoni estetici. Oggi forse è più problematico valutare un poeta. Sono rari i casi di coloro che scrivono endecasillabi canonici. I più scrivono in versi liberi.

La crisi della poesia

Comprendere le poesie non sempre è facile. Un testo può essere analizzato per il suo significato psicoanalitico, esistenziale, sociale, letterario, ideologico. Ogni testo può essere studiato valutando il contesto storico, la parafrasi, le figure retoriche, la metrica. Non solo ma va anche detto che ogni lirica può scaturire dal sentimento, dall’osservazione o dalla trasfigurazione.

Inoltre non sempre un poeta si basa sulla realtà oggettiva ma spesso anche sulla vita segreta delle cose e della natura. Nel Novecento tutto diventa ancora più complesso. Basti pensare a Eliot e Pound con le loro citazioni colte e il loro montaggio.

Nel secolo scorso sono stati molti gli ismi letterari. In Italia agli inizi del Novecento l’ermetismo non era affatto di facile comprensione sia perché in esso era presente l’orfismo (connotato dal valore sacrale della poesia e dalla ricerca costante di assoluto e infinito) sia perché i testi erano colmi di simboli, analogie e sinestesie.

Negli anni Sessanta si registra un notevole cambiamento. Erano contro l’ermetismo sia i poeti di Officina (Pasolini, Roversi, Volponi, Fortini, Leonetti) che i Novissimi (gruppo 63), ma anch’essi non erano di facile comprensione.

Da un lato i poeti di Officina avevano buoni intenti: volevano il rinnovamento, erano contro l’intimismo degli ermetici, erano contro i reazionari. Dall’altro lato erano anche contro il neorealismo, uno dei pochi ismi del Novecento (insieme ai crepuscolari) i cui autori si facevano capire da tutti.

Forse nel neosperimentalismo erano presenti troppe premesse teoriche. Anche la neoavanguardia era ammirevole negli intenti perché contro il neocapitalismo, contro l’egemonia culturale e l’estetica dominante, contro la mercificazione dell’arte. Tuttavia spesso spiazzava i lettori per i suoi non sensi, il suo linguaggio multidisciplinare, i suoi shock verbali, la ricerca di essere originali a tutti i costi.

Infine la poesia degli anni Settanta con il neo-orfismo cambia di nuovo le carte in tavola perché prende le distanze sia dalla neoavanguardia che dal neosperimentalismo, ma il linguaggio poetico è sempre oscuro e di non facile decifrazione. Per capirne di più basta leggere due antologie poetiche: “La parola innamorata” e “Il pubblico della poesia”.

Il poeta comunque da decenni non ha più alcun status e la poesia contemporanea è divenuta marginale. Molti scrivono. Pochi leggono. C’è perfino troppa creazione ma è scarsa la fruizione. La poesia contemporanea è determinata talvolta dall’egocentrismo, dal narcisismo, dall’autobiografismo. È una poesia talvolta  autoreferenziale e non comunicativa. I poeti sono sempre più appartati. Il loro messaggio talvolta non è chiaro e il gradimento del pubblico è scarso.

I giornali raramente recensiscono libri di poesia. Nelle Facoltà di Lettere i poeti contemporanei non trovano spazio. Il fatturato dei libri di poesia in Italia è inferiore all’1% del fatturato globale. I poeti sono stati sostituiti e rimpiazzati socialmente da cantanti e cantautori.

Poesia e moralità

È sempre difficile giudicare la qualità delle poesie. È vero che è improponibile il paragone tra la poesia di un bambino di prima elementare e una di Montale. Ma spesso le differenze non sono così marcate. Un tempo si consideravano la metrica e l’eufonia. Oggi non più. Decenni fa in Italia si considerava anche la persona del poeta, che doveva essere assennato e ponderato. Al poeta si richiedevano delle virtù come una certa moralità e la saggezza.

Se il poeta era sregolato allora era solo un erudito e/o un immaturo. Non poteva considerarsi persona di cultura. Si considerava soprattutto l’etica. Si giudicava la condotta. D’altronde anche la neoavanguardia valutava la persona (che doveva essere schierata ideologicamente). Loro erano gli unici puri e onesti.

Il contenuto veniva giudicato in modo fazioso perché secondo loro il linguaggio era “ideologia”. Insomma si doveva combattere. Erano in trincea. Bisognava condannare la borghesia. È chiaro che la neoavanguardia ha avuto anche dei meriti come quello di rinnovare il linguaggio, inventare il pluristilismo, etc etc.  Le due “chiese” comunque si sono appropriate della cultura nella seconda metà del Novecento.

Negli anni Settanta le nuove generazioni erano perse nella droga o nella politica. La letteratura era ritenuta cosa di poco conto e non incisiva. una pura evasione. Molti giovani di allora pensavano ad altro e si rovinavano con altro: l’eroina o il terrorismo. La stessa poesia da allora è stata relegata ai margini e non si è più ripresa.

Poesia e ideologia

Quali qualità deve possedere un artista per essere tale?  Un poeta deve avere una visione del mondo. Successivamente avrebbe una poetica (ovvero una dichiarazione di intenti) e uno stile. Un artista di conseguenza secondo tale concezione deve anche essere un intellettuale, che riflette sul mondo e che rappresenta una coscienza critica per gli altri.

Secondo alcuni l’artista è tale innanzitutto per il proprio pensiero (che deve contraddistinguersi per una certa originalità) e questo è valido sia per chi appartiene alla tradizione che per chi appartiene ad una avanguardia. Secondo altri si può scrivere anche senza una piena consapevolezza di sé stessi e del mondo, ma in fondo sono un’esigua minoranza.

Importante oltre al pensiero è quella che alcuni chiamano la posizione intellettuale. Un artista può esprimere dissenso, consenso o non schierarsi rispetto alla politica e al potere. Per Gramsci ogni artista doveva essere un intellettuale organico. Sartre nella presentazione a “I tempi moderni” proponeva l’engagement.

Lo scrittore dunque era da ritenersi sempre responsabile. Non doveva scrivere per i posteri ma per i contemporanei. Non doveva evadere dalla realtà ma essere sempre testimone. Per Saba invece i poeti dovevano essere “sacerdoti dell’eros”. Anche D’Annunzio faceva dire a Claudio Cantelmo ne “Le vergini delle rocce” che gli artisti dovevano soltanto difendere la bellezza. Lo stesso Dostoevskij scriveva che la bellezza avrebbe salvato il mondo. Chissà cosa avrebbero pensato oggi di questa epoca in cui l’arte è soprattutto ricerca del nuovo a tutti i costi e provocazione fine a sé stessa?

Lo stile può essere giudicato subito dai critici letterari, mentre le scelte politiche devono essere comprese e interpretate almeno dopo qualche decennio. Il rischio infatti è quello di risultare troppo faziosi e di confondere l’estetica con l’ideologia.

In alcuni casi c’è la possibilità di confondere l’estetica con l’etica. Non dimentichiamo che in alcuni autori l’appartenenza politica è più che una presa di posizione politica una scelta dettata da idealismo. Per alcuni artisti il liberalismo, il comunismo, il socialismo, la socialdemocrazia, l’anarchia sono categorie dello spirito.

Non dimentichiamo neanche che furono pochi gli intellettuali a opporsi all’entrata in guerra e al fascismo. Condanniamo pure il loro fascismo ma bisogna anche considerare obiettivamente le loro opere artistiche. Lo stesso dicasi per altre ideologie e altri regimi.

Condanniamoli pure come uomini ma non rimuoviamo totalmente gli artisti che sono stati e neanche quello che hanno rappresentato per gli uomini della loro epoca.

Poeti di ricerca e neolirici

Probabilmente è troppo riduttiva la distinzione tra poesia di ricerca (sperimentatori del verso) e poesia neolirica. Non è detto che tutto lo sperimentalismo porti per forza di cosa sempre al rinnovamento del linguaggio e al rovesciamento di prospettive. In fondo anche alcuni poeti lirici o neo-orfici possono essere originali ed innovativi: non è assolutamente detto che siano sempre dei manieristi o degli epigoni.

Non è detto inoltre che tale distinzione tra i due generi di poesia possa racchiudere tutte le dicotomie concettuali ed espressive (comprensibile/difficile, tradizione/innovazione, impegnato/reazionario, etc. etc.). Per quanto riguarda la comprensibilità dei testi la Dickinson scriveva che si doveva dire la verità in modo criptico, mentre Popper sosteneva che niente è così facile che scrivere in modo difficile e che tutti coloro che scrivono devono porsi come dovere la chiarezza espositiva (però era un filosofo).

La realtà in poesia è che i componimenti dovrebbero in teoria cercare sempre di raggiungere i vertici della significazione.

Pasolini dichiarò che esisteva in poesia un codice classista del linguaggio. Ma non è forse riduttiva questa distinzione tra poesia di ricerca e neolirici? Non potrebbe essere considerata anche una poesia aforistica come quella dell’ultimo Montale, degli Shorts di Auden, dell’ultimo Cesare Viviani?

Non sarebbe originale se questo genere di poesia aiutasse a chiarire i pensieri, portasse talvolta a “pensare contro sé stessi” per dirla alla Cioran (il riferimento è alla sua opera “La tentazione di esistere”)?

Naturalmente una scrittura aforistica rischia sempre di essere troppo didascalica oppure ostensiva. Ma in fondo anche gli sperimentatori o i neolirici rischiano anch’essi di perdersi in virtuosismi, di innamorarsi troppo delle parole. I rischi ci sono per tutti; e la distinzione autentica che dovrebbe essere fatta è tra chi cerca di descrivere/raggiungere/rendere tutta la complessità del reale (il rischio è quello di rendere ancora più complicato e di più difficile comprensione ciò che è già complesso) e tra chi cerca di semplificare la realtà (il rischio è quello di rendere tutto troppo semplicistico, di creare delle smagliature da cui evade il reale).

La distinzione basilare è tra chi cerca di raggiungere la soglia del dicibile e chi cerca la sostanza delle cose, l’essenziale. La soglia del dicibile non è detto che sia estrema sintesi. L’essenziale lo si raggiunge con il levare, peculiarità della scrittura epigrammatica. La soglia del dicibile invece la si raggiunge con il battere, con l’accumulo, ovvero cercare di descrivere in modo esaustivo la realtà, di comprenderla in modo totalizzante.

 

 

 

‘Anatomia del potere. Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs. Pasolini filosofo’ del geniale normalista Georgios Katsantonis

Georgios Katsantonis, nato a Patrasso nel 1987, è studioso di teatro e letteratura. Si è laureato in Studi Teatrali presso l’Università degli Studi di Patrasso (Grecia) portando a termine un percorso completamente strutturato sulla drammaturgia europea, antica, moderna e contemporanea.

Ha conseguito il dottorato di ricerca in Letterature e Filologie Moderne con lode presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha conseguito il Master in Letteratura, Scrittura e Critica teatrale presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

Il suo ultimo lavoro dal titolo Anatomia del potere. Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs. Pasolini filosofo (Metauro, 2021) ha vinto la XXXVII del Premio Pier Paolo Pasolini come tesi di dottorato. Tra le motivazioni si parla di un’opera contrassegnata da un “notevole spessore culturale”, in grado di fare accostamenti non comuni, di collegare le opere di Pasolini al pensiero di Deleuze sul masochismo, alle riflessioni sul potere di Foucault e di Spinoza, alla concezione degli animali di Derrida.

L’analisi condotta studia i seguenti temi:  1) il  corpo  in  preda  al  desiderio  sadomasochistico (Orgia), 2) la  zooerastia  (Porcile),  3) il  corpo recluso  tra  scissione  e  visionarietà (Calderón).

Ma allo stesso tempo c’è anche un’ulteriore analisi: l’erotizzazione del fascismo (Orgia), la fine della polis (Porcile), la  società intesa come un mondo concentrazionario, come il  Lager (Calderón). L’autore riesce a scorgere un “fil rouge” nelle opere pasoliniane Orgia, Porcile, Calderón.

Il saggio è un’eccellente analisi interdisciplinare e comparata in grado di cogliere nessi originali senza mai forzare troppo la mano.  Katsantonis è in grado di fare collegamenti mai rilevati con pertinenza, acutezza, rigore filologico, senso critico assolutamente fuori del comune. Originalissima l’idea di non trattare del potere istituzionale come hanno fatto Weber, Parsons, Machiavelli, Pareto.

Il potere nel saggio di Katsantonis è analizzato anche da un punto di vista antropologico e psicosessuale. È studiato, per dirla alla Foucault, sia il micropotere (le dinamiche psicologiche per esempio) che il macropotere; inoltre l’autore molto intelligentemente fa capire che per Pasolini  l’immaginario collettivo è già omologato totalmente.

Un’altra caratteristica innovativa del saggio è che altri hanno descritto il masochismo morale freudiano o il masochismo politico (come Bruno Moroncini) in Pasolini, ma Katsantonis come nessun altro riesce a scrivere del sadomaschismo pasoliniano come filosofia, come estetismo, infine come vera ragione di vita. Suo cugino Nico Naldini aveva scritto in  “Come non ci si difende dai ricordi”: “

Da tempo Pasolini aveva adottato il sadomasochismo anche con rituali feticistici: le corde per farsi legare e così immobilizzato in una sorta di scena sacrificale farsi percuotere fino allo svenimento. Non ne aveva mai fatto mistero, sia nelle ultime poesie, sia in quelle giovanili dove si era raffigurato come Cristo-giovinetta nel martirio della Croce”.

L’opera è densa, ma mai troppo concettosa; è un lavoro accademico, ma che trascende lo specialismo; inoltre non è mai oracolare ed è provvisto di chiarezza espositiva. Il libro è suddiviso in tre capitoli. Nel primo viene accostata Orgia di Pasolini alla filosofia del boudoir di Sade.

Il boudoir è un luogo situato tra il soggiorno e la camera da letto, per intenderci. In tale contesto viene analizzato il corpo come vittima e la corporeità come assoggettata al potere; vengono considerate la dicotomia dolore/piacere, il passaggio dal culto religioso al culto feticista, la donna seduttrice in Sade, la questione femminile nelle opere pasoliniane.

Viene messo in evidenza che per Sade la vera schiavitù è l’accettazione della morale. Per quanto riguarda la questione femminile, per Pasolini le donne sono “vittime e marionette” nelle mani del sistema, ma a livello autoriale probabilmente l’intellettuale trascendeva i suoi limiti come uomo, che amava solo la madre e vedeva nelle altre donne delle rivali troppo emancipate, che gli rubavano i ragazzi di vita: forse nell’intimità Pasolini, come ebbe a dire Dacia Maraini, era moralista con tutti tranne che con sé stesso.

Il capitalismo viene considerato da Pasolini come nuova religione. Viene citata anche  l’ideologia del consumismo, il cosiddetto edonismo neo-laico. Per Pasolini “il sadomaso è soppressione di ogni limite”, andare oltre i propri limiti, cercare di non porseli.

Anatomia del potere ha una grande forza dialettica ed è in grado di far riflettere qualsiasi lettore, anche quello meno creativo. Se forse c’è un discrimine tra sadomaso come patologia e trasgressivo gioco di ruolo nell’ambito della normalità è la conoscenza dei propri limiti e non superarli. Per Pasolini invece il sadomasochismo forse è una via per il martirio.

Non a caso il titolo della tesi di dottorato di Georgios Katsantonis è “Drammaturgia del corpo patetico” pasoliniano. Viene da chiedersi se è lecita la libertà di opprimere o di essere schiavi. Il sadomasochismo per Pasolini è l’unica valvola di sfogo, l’unico modo di avere piacere in questa società.

Katsantonis ottimamente evidenzia la distinzione tra godimento e piacere, sottolineando il sadomasochismo pasoliniano come impasto di Eros e Thanatos. Per Pasolini soffrire significa uscire da sé per poi ritrovarsi. L’autore dà per scontato naturalmente che sia Pasolini che Sade sono dei nichilisti attivi, cioè vogliono distruggere la morale comune e la borghesia perché poi qualcuno in futuro ricrei una nuova società. Il sadomasochismo pasoliniano, come evidenziato nel saggio, è espressione della volontà di potenza neo-capitalistica.

Pasolini vorrebbe andare contro, ma anche lui deve comunque adattarsi alla società. Se per Karl Kraus “le perversioni sono metafore dell’amore” nelle opere di Pasolini il sadomasochismo è al contempo metafora e metonimia del fascismo.

Le pagine di questo libro generano molti dubbi e questo è naturalmente un merito del saggista. Forse uno dei limiti intrinseci di Sade e Pasolini è stato quello di aver dato sfogo a tutte le loro fantasie, di aver detto l’indicibile, di aver rappresentato l’impresentabile, ma a forza di eccessi si sono discostati troppo dalla realtà umana, in cui invece i sadomasochisti comuni si pongono delle restrizioni per disgusto, per morale, per dolore.

In una delle sue lettere alla moglie, Sade scriveva: «Sì, sono un libertino, lo riconosco: ho concepito tutto ciò che si può concepire in questo ambito, ma non ho certamente fatto tutto ciò che ho concepito e non lo farò certamente mai. Sono un libertino, ma non sono un criminale né un assassino».

In Pasolini e in Sade il sadomaso è anaffettivo, non è mai in funzione dell’amare e dell’essere amati, del soddisfare o dell’essere soddisfatti.  Inoltre in Pasolini e in Sade non viene mai pronunciato alcun “I can’t” dagli schiavi, come di fatto in pratica avviene. Viene da chiedersi se si può davvero liberarsi della morale come in Pasolini e in Sade oppure se restano sempre dei residui atavici, magari sotto forma di sensi di colpa.

Tuttavia bisogna ricordare anche che il  sadomasochismo pasoliniano scaturisce dalle limitazioni delle rappresentazioni del sesso all’epoca.  Come scriveva Pasolini in “Le belle bandiere“: “Io cerco di creare un linguaggio che metta in crisi l’uomo medio, nei suoi rapporti con il linguaggio dei mass media, per esempio”.

Nel secondo capitolo viene studiato Porcile. Vengono messi in relazione il nazifascismo e il nuovo capitalismo. Non è un caso che i vecchi ex nazisti nel dopoguerra in America vennero messi ai vertici dei servizi segreti.

L’autore descrive il carattere di alterità del protagonista Julian. Spinoza discute con Julian della sua Etica, ma alla fine il filosofo abiura la sua opera perché ha prodotto come umanista il padre del protagonista e come tecnocrate il suo socio. Spinoza ammette che la Ragione è sempre ragione del più forte.

L’autore Georgios Katsantonis

Katsantonis sottolinea che per Pasolini la società capitalistica è un macello per uomini e animali. La domanda che sorge spontanea è quale sia il porcile vero? Quello di Julian o quello della società là fuori? Vengono citati anche Derrida, Deleuzee, Guatari, Artaud e il suo corpo senza organi. Quest’ultimo è un concetto filosofico apparso per la prima volta in Logica del senso di Deleuze, opera del 1969, che ha la sua prima espressione in una performance radiofonica di Antonin Artaud, intitolata “Per farla finita con il giudizio di Dio”.

Il corpo senza organi è il rimosso del corpo, una sorta di ambiente dinamico e informale, un campo di forze in cui si contrappongono tensioni diverse che determinano il desiderio. Il corpo senza organi è, in altre parole, un corpo senza organizzazione e di conseguenza assolutamente libero e fluttuante, eversivo, anti-istituzionale.

Nel terzo capitolo vengono paragonati il Calderón di Pasolini, La vita è sogno di Calderón de la Barca, Un sogno di Strindberg. Si analizzano la prima Rosaria e l’incesto, la Rosaria prostituta, quella sottoproletaria, la medioborghese, infine quella prigioniera di un lager. La protagonista è succube del Potere: “obbedisce senza essere obbediente” in un ribellismo confuso ed è al contempo un “vaso semivuoto da riempire con il Bene borghese”.

Compare anche Enrique, studente sessantottino, che chiede asilo a casa dei borghesi. L’autore rimarca ancora una volta che tra il corpo e il potere c’è di mezzo un immaginario omologato. Non solo ma viene descritto “il concentrazionamento del mondo” e Katsantonis dimostra tutta la sua cultura citando l’istituzione totale di Goffman, autore conosciuto dai sociologi in Italia più per il suo rituale dell’interazione e per la perdita di faccia.

Bisogna ricordare che nel 1960 anche Bruno Bettellheim nel Prezzo della vita aveva paragonato la società capitalistica ad un sistema totalitario e nel 1964 Paul Goodman in La gioventù assurda aveva paragonato la civiltà dei suoi tempi a una corsa dei topi in una stanza chiusa.

Ma perché Pasolini vedeva nel neo-capitalismo un inferno terreno? Una coscienza politica non era possibile perché la televisione aveva imposto l’ideologia del consumo. Ciò che preoccupava Pasolini non era il centralismo dello stato né le istituzioni repressive ma il neolaicismo imperante e il nuovo edonismo propinato dai mass media.

Lo scrittore friulano aveva già capito che la televisione era un agente di socializzazione, capace di influenzare con i suoi messaggi le idee delle persone e dunque era anche la causa primaria dell’omologazione, grazie a cui il potere produceva una standardizzazione dell’immaginario. I giovani di borgata avevano iniziato a vestirsi, a comportarsi e a pensare come “i figli di papà”: non era più possibile distinguere un proletario da un borghese oppure un comunista da un fascista.

Tutto questo era frutto della “mutazione antropologica”, termine preso a prestito dalla biologia. La mutazione genetica in biologia è determinata prima dalla variazione e quindi dalla fissazione di alcuni caratteri. Nel caso della “mutazione antropologica” la variazione delle mode e degli stili di vita era decisa nei consigli di amministrazione delle reti televisive e poi fissata con i messaggi subliminali della pubblicità.

Pasolini sapeva perfettamente che i codici imposti dalla televisione diventavano subito comportamenti collettivi. La sottocultura di massa diventava interclassista. Tutti aspiravano agli stessi status symbol. Non si trattava più di appagare semplicemente dei desideri, il nuovo uomo di massa doveva soddisfare dei falsi bisogni. I disvalori del consumismo nel giro di pochi anni impoveriranno l’Italia.

Già allora stavano scomparendo le tradizioni di un tempo e non esistevano più le classi sociali. Tutti ormai erano diventati piccolo-borghesi.  Infine è creativo davvero l’accostamento in Pasolini, Calderón de la Barca e Strindberg nel ritenere la nascita una colpa.

Dopo la lettura di questo eccellente e acuto saggio ci si domanda se Pasolini, il quale considerava il potere come dominatore del corpo e della sessualità, se avesse ragione Marcuse con la sua teoria della desublimazione repressiva: il potere che concede libertà sessuale per ridurre le probabilità di critica e rivoluzione.

Anatomia del potere è una lettura doverosa per pasoliniani e profani, per comprendere meglio anche il nostro tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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