Tralasciando le polemiche legate all’assenza del ministro Giuli, alle dichiarazioni di Emanuele Trevi (che ha proposto il libro vincitore del Premio Strega 2025), all’immancabile grido di “Palestina libera!”, è sempre bene ribadire che il premio Strega è quasi sempre il risultato di una solida lottizzazione fra case editrici. Quest’anno era il 70esimo anniversario della Feltrinelli e quindi doveva vincere un libro Feltrinelli. Dopo la vittoria dell’opera L’anniversario, Bajaniha dichiarato: “Mi hanno insegnato che la letteratura deve contestare la versione ufficiale e troppo spesso questa versione è quella patriarcale. Con L’anniversario ho avuto la necessità di contestarlo dal punto di vista di un maschio”. Naturalmente. Peccato la sua non sia letteratura.
L’anniversario, infatti, è una storia rarefatta e ripetitiva su un uomo che rievoca una relazione finita tornando ogni anno nello stesso hotel. Lo stile di Bajani è asciutto, come la storia. La cifra stilistica non è pervenuta: l’autore si avvale di un linguaggio scolastico e astratto per mostrare quanto lui, maschio italiano, lotti contro il patriarcato.
L’anniversario sembra un libro scritto come esercizio per autoterapia, uno sfogo furbissimo che celebra il trionfo della salvezza individuale a scapito delle relazioni umane, persino della propria madre. Perfetto per questa epoca di superficialità.
Tra romanzo e autofiction, Bajani, strizzando l’occhiolino all’inarrivabile Roth, tenta di fare luce (inutilmente) i micidiali intrecci di una famiglia opprimente e disfunzionale con un doppio passo: da un lato il racconto dell’inferno domestico, dall’altro il distacco di chi pensa di poter dire la sua, magari la verità, portandosi dietro il senso di colpa di essere uomo e la convinzione che la famiglia non conti più nulla.
Non si capisce quali siano i reali e gravi motivi della rottura definita del protagonista con la sua famiglia, se non la voglia dell’autore di far prevalere il tema di attualità sulla narrazione e sullo stile, con spietatezza, usufruendo della sponsorizzazione di Emanuel Carrèrenella fascia in copertina. Un memoir irritante che demolisce padre e madre senza un minimo di “pietas”. Due figure, quella del padre – padrone – fascista (ovviamente) e della madre casalinga succube (ovviamente), tratteggiate a tinte fosche.
Un romanzo che non decolla mai ma che si stagna nella palude del risentimento. Marginali anche la figura della sorella e delle due compagne, accompagnate da riferimenti a malattie oncologiche. Bajani ha dichiarato di aver superato il suo problema dopo aver chiuso per 10 anni i rapporti con i genitori, confermando che il suo è più un resoconto psicoanalitico ruffiano che un’opera letteraria.
Sicuramente L’anniversario non aggiunge nulla al tema dei rapporti tra genitori e figli (vedesi ad esempio Padri e figli di Turgenev), né rappresenta un’opera di narrativa di livello, sebbene molte recensioni si sono lanciate in elogi sperticati.
Dietro Bajani, Elisabetta Rasy con “Perduto è questo mare” (Rizzoli), con 133 voti, e Nadia Terranova con “Quello che so di te” (Guanda) con 117 voti. Chiudono la cinquina dei finalisti Paolo Nori con “Chiudo la porta e urlo” (Mondadori) con 103 voti e Michele Ruol con “Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia” (TerraRossa) con 99 voti.
Edito Blitos Edizioni, Le donne di Maddalena di Giuseppina Mormandi esplora un recente passato, fatto di dolore, segreti e donne che erano costrette a tacere. L’autrice affronta il tema della questione femminile nei primi anni del ‘900, quando la donna era un oggetto inattivo all’interno di una società patriarcale il cui utilizzo era solo al fine della procreazione. La maestria con cui Mormandi descrive le atmosfere rurali e semplici, tipiche di un piccolo paese in quell’epoca storica, trascina il lettore in un avvicendarsi di diapositive in bianco e nero, nel corso della lettura, in cui non si può fare a meno di sentirsi parte del racconto e di quel tempo non troppo lontano. Il romanzo è ambientato nell’immaginario paesino di Pietraia, intorno ai primi anni del ‘900; quando la storica levatrice viene a mancare sopraggiunge in quella piccola realtà contadina e semplice, come quasi tutti i paesi dopo la Grande Guerra, Maddalena: una ragazza bellissima discendente da una generazione di donne che aiutano a mettere al mondo bambini. La sua è un’entrata particolare: arriva a Pietraia a dorso di un asino con pochi averi ma con una sedia pulitissima.
Maddalena è la nuova Mammana: la donna che aiutava le altre donne a partorire, a celare una gravidanza indesiderata, o dava il suo sostegno a partorienti che avevano vergogna o timore del loro stato. Nonostante, all’inizio, il Paese la accolga con glacialità e indifferenza pian piano Maddalena diventa punto di riferimento per le donne di Pietraia. Confidente, amica e guida la sua figura appare essenziale per quelle donne abbandonate a una piccola e tacita realtà. Attraverso il personaggio di Maddalena ci si interfaccia con un’epoca storica che mette di fronte alle rapide trasformazioni della vita quotidiana e a quanto la donna fosse costretta ad affrontare sfide giornaliere al limite della sopravvivenza. Ma la protagonista del libro di Giuseppina Mormandi non è solo una Mammana, ma è anche una bellissima donna; alta, slanciata e con lunghi capelli neri acconciati per mezzo di lunghe trecce, la sua bellezza diventa fonte di fastidio per gli uomini di Petraia.
‘’Era nata verso la fine dell’Ottocento, di bella presenza, trecce nerissime che portava attorcigliate sulla testa a forma di corona. Di carnagione delicata, con occhi azzurri che contrastavano con la capigliatura corvina; sulle orecchie spiccavano un paio di orecchini d’oro molto particolari, raffiguranti un’ape con incisa sopra la lettera emme stilizzata’’.
Se da un lato don Alessandro, farmacista del paese, anela alla giovane quasi come fosse un sogno proibito e irraggiungibile, il parroco Don Luigi si accosta alla figura di Maddalena con aria supponente e superiore: il mestiere di Maddalena è un’ etichetta, a prescindere, e per via della sua professione, automaticamente, il parroco la considera priva di vergogna, impudente e spudorata.
Nonostante la trama segua le vicende di Maddalena, quello che colpisce del romanzo – oltre alla dovizia di particolari e all’estrema abilità descrittiva di momenti, luoghi, emozioni e atmosfere – è l’intersecarsi di varie storie nell’intero filone narrativo. La questione femminile si snoda attraverso vicende variegate che raccontano il dispiacere e il dolore di tante donne. Maddalena è ormai punto di riferimento per la popolazione femminile di Petraia: la chiamano non solo per i parti ma per qualsiasi altro problema. La sua, però, è una missione delicata che non lascia spazio a questioni personali; spesso il suo lavoro significa anche raccogliere un fagottino, ben celato agli occhi altrui, e lasciarlo alla ruota del convento delle monache.
La grazia di Maddalena nella sua professione, fatta con discrezione, scoperchia un altro doloroso punto per le donne del passato: le ruote dell’abbandono, note come ruota degli esposti, sinonimo di dolore, gravidanze indesiderate, povertà, violenza, miseria. L’autrice fa luce su un passato patimento che ha investito e travolto tante, troppe donne: la vergogna e la paura di una gestazione, le violenze subite da uomini di potere, un modo di vedere l’attività sessuale solo come dovere coniugale, la copulazione atta esclusivamente a scopo procreativo. L’imbarazzo di un argomento tabù come il sesso in un ambiente dominato dagli uomini; una società che marginalizzava il sesso femminile, relegandolo a una condizione di passività che le voleva come incubatrici per la procreazione in un contesto di povertà e di eterna vergogna cucita addosso, solo per il semplice motivo di esser nata donna o di mettere al mondo altre figlie, donne, convivendo con un bruciante senso di mortificazione.
Il fulcro della trama è, però, legato alla sparizione di Maddalena; la sua scomparsa getterà l’intero Paese nella desolazione completa e nel senso di smarrimento. Sarà proprio la sparizione della protagonista a recare un intenso colpo di scena all’interno della trama. La sua assenza segnerà la vita delle donne di Paese, facendo comprendere quanto invece la sua presenza fosse essenziale per la comunità intera. Le ipotesi sulla sparizione si avvicenderanno nei discorsi dei paesani che, attoniti, non sapranno cosa pensare di questo improvviso allontanamento. Fino a quando Maddalena farà ritorno, con un finale non scontato e sorprendente.
La trama complessa e avvincente induce il lettore a numerose riflessioni grazie anche alla narrazione in cui si intersecano diverse storie, quasi come fosse un romanzo corale. L’autrice evoca atmosfere di un passato che si intreccia a tematiche di sofferenza femminile attraverso una delicatezza narrativa ed elegante capace di cogliere sfumature di afflizione, resilienza e forza esplorando temi universali come le trasformazioni di una società, il supplizio consunto di anime mute, il potere della solidarietà femminile.
Le donne di Maddalena racconta la dura condizione femminile, l’epidemia di spagnola, l’ombra aleggiante delle ‘’ gestazioni del disonore’’, la mancanza di cultura e la povertà di ambienti rurali e semplici, i sogni infranti di quelle donne del passato che parevano vivere solo attraverso la vita che davano ai figli. In alcuni tratti della lettura sopraggiunge, quasi involontariamente, un parallelismo con L’Amica Geniale: in Elena Ferrante La maternità è presentata in tutta la sua complessità, non priva sentimenti negativi, angoscia e sofferenza. Le donne non hanno desiderio sessuale, ma devono subire quello degli uomini, il sesso è un dovere nei confronti dei mariti che non può mai essere negato e anche la procreazione, come nel romanzo di Mormandi, diventa l’unico appiglio alla vita.
Leggendo Le donne di Maddalena di Giuseppina Mormandi si ha come l’impressione di leggere un capolavoro tipico della poetica neorealista; riportando alla memoria antiche consuetudini dei piccoli paesi rurali, l’autrice fa luce su un mondo dimenticato fatto di lacrime silenti e di donne che hanno combattuto portando nel loro intimo un tormento muto ma pulsante.
Tommaso Cerno è un giornalista diretto e appassionato, provocatorio, sano portatore del dissenso ragionato che ha fatto propria la lezione sul principio di realtà di Pier Paolo Pasolini. Friulano, nato ad Udine, Cerno ha iniziato ad avvicinarsi al giornalismo giovanissimo, è entrato nella redazione del Gazzettino diretto da Giorgio Lago per poi diventare direttore del Messaggero Veneto, de L’Espresso e vice a La Repubblica, fino a passare poi alla politica attiva prima in AN e poi come senatore nel PD di Matteo Renzi. Fortemente critico verso il DDL Zan, Cerno ha lasciato la politica per ritornare ad essere giornalista, o per meglio dire, ha deciso di farla in modo diverso, dato che come giustamente afferma lui stesso, “i giornali fanno politica, ma fanno finta di non farla”.
Trionfa al Premio Campiello 2023Benedetta Tobagi, figlia del giornalista Walter Tobagi, assassinato dalle Brigate rosse nel 1980, con la Resistenza delle donne. Ieri 16 settembre 2023, al Gran Teatro La Fenice, è stato annunciato e premiato il vincitore della 61esima edizione del Premio Campiello.
Un podio tutto al femminile per questo Gran Galà della Letteratura, organizzato dalla Fondazione Il Campiello – Confindustria Veneto. La Giura dei Trecento Lettori ha così votato: sul gradino più alto La Resistenza delle donne (Einaudi) di Benedetta Tobagi, con 90 preferenze.
Al secondo posto La Sibilla (Laterza) di Silvia Ballestra, con 80 voti; medaglia di bronzo per Centomilioni (Einaudi) di Marta Cai; a seguire al quarto posto Diario di un’estate marziana (Giulio Perrone editore) di Tommaso Pincio e quinta posizione In cerca di Pan (nottetempo) di Filippo Tuena.
Durante la cerimonia condotta da Francesca Fialdini e Lolo Guenzi, sono stati assegnati anche gli altri riconoscimenti legati al Premio: Nicola Cinquetti e Davide Rigiani sono i vincitori delle due categorie in gara del Campiello Junior; Emiliano Morreale con L’ultima innocenza (Sellerio)si è aggiudicato il Campiello Opera prima; Il Campiello Giovani è andato invece a Elisabetta Fontana con il racconto Sotto la Pelle. il Premio Fondazione Campiello alla Carriera, invece, è stato assegnato a Edith Bruck, scrittrice, poetessa e regista ungherese sopravvissuta alla Shoah.
Una menzione speciale postuma alla scrittrice Ada D’Adamo, autrice di Come d’aria (Elliot), vincitrice del Premio Strega 2023, scomparsa prematuramente lo scorso marzo. Ricordata anche la scrittrice Michela Murgia, mancata anch’ella prematuramente, autrice tra i tanti, del libro Accapadora, con cui si era aggiudicata il Premio Campiello nel 2010.
La Resistenza delle donne conquista il Premio Campiello: Sinossi
La storia delle donne italiane ha nella Resistenza e nell’esperienza della guerra partigiana uno dei suoi punti nodali, forse il piú importante.
Benedetta Tobagi la ricostruisce facendo ricorso a tutti i suoi talenti: quello di storica, di intellettuale civile, di scrittrice. La Resistenza delle donne è prima di tutto un libro di storie, di traiettorie esistenziali, di tragedie, di speranze e rinascite, di vite. Da quella della «brava moglie» che decide di imbracciare le armi per affermare un’identità che vada oltre le etichette, alla ragazza che cerca (e trova) il riscatto da un’esistenza di miseria e violenza, da chi nell’aiuto ai combattenti vive una sorta di inedita maternità, a chi nella guerra cerca vendetta e chi invece si sente impegnata in una «guerra alla guerra», dalle studentesse che si imbarcano in una grande avventura (inclusa un’inedita libertà nel vivere il proprio corpo e a volte persino il sesso), alle lavoratrici per cui la lotta al fascismo è la naturale prosecuzione della lotta di classe.
Tobagi racconta queste storie facendo parlare le fotografie che ha incontrato in decine di archivi storici. Ne viene fuori quasi un album di famiglia della Repubblica, ma in cui sono rimesse al loro posto le pagine strappate, o sminuite: le pagine che vedono protagoniste le donne.
Un libro che possiede il rigore della ricostruzione storica, ma anche una straordinaria passione civile che fa muovere le vicende raccontate sullo sfondo dei problemi di oggi: qual è il ruolo delle donne, come affermare la propria identità in una società patriarcale, qual è l’intersezione tra libertà politiche, di classe e di genere, qual è il rapporto tra resistenza civile e armata, tra la scelta, o la necessità, di combattere e il desiderio di pace?
Le donne furono protagoniste della Resistenza: prestando assistenza, combattendo in prima persona, rischiando la vita. Una «metà della Storia» a lungo silenziata a cui Benedetta Tobagi ridà voce e volto, a partire dalle fotografie raccolte in decine di archivi. Ne viene fuori un inedito album di famiglia della Repubblica, in cui sono rimesse al loro posto le pagine strappate, o sminuite: le pagine che vedono protagoniste le donne.
L’universo femminile delle Partigiane, quello variegato fatto di donne di ogni classe e ceto sociale, provenienti da svariati luoghi geografici che hanno preso parte alla lotta dei patrioti italiani per la liberazione dal fascismo. Ma allo stesso tempo anche, le collaborazioniste, le indifferenti, le borsaneriste. Due facce della stessa medaglia: donne capaci di protagonismo collettivo ma anche di individualismi cinici.
Quella di Benedetta Tobagi porta alla luce un racconto inedito di emancipazione femminile: donne che, che nel bene e nel male, rompono gli schemi e le convenzioni, combattendo gli stereotipi, per inseguire la propria libertà, talvolta non senza soffrire. Non mancano infatti nel libro anche episodi dolorosi come le torture, gli stupri da parte dei soldati fascisti e nazisti e i racconti di morte.
La Resistenza delle donne è dedicato «A tutte le antenate»: se fosse una mappa, alla fine ci sarebbe un grosso «Voi siete qui». Insieme alle domande: E tu, ora, cosa farai? Come raccoglierai questa eredità? Chiede l’autrice. Insomma nulla di nuovo dal fronte premi letterari: fascismo, resistenza, donne, temi da premiare per contratto e autori che partono da presupposti di comodo per dimostrare l’indimostrabile, ovvero l’esistenza del patriarcato nel nord Italia, in un periodo storico in cui gli uomini erano in guerra o deportati.
Il legame di sangue come unico vincolo per la formazione e la preparazione alla vita adulta, la legge del patriarcato che rende un figlio schiavo, l’asprezza della natura sarda dal sapore deleddiano, la ribellione che cova, la voglia di affrancarsi e di essere libero, la lotta, la meravigliosa scoperta di quanto possa essere rigenerante per l’uomo la cultura; è questa la storia autobiografica di “Padre padrone”, bellissimo e crudo romanzo del 1975, la storia del suo autore, Gavino Ledda, il pastore-scrittore che funge da narratore interno.
“Padre-padrone” è un libro di successo entrato a pieno diritto nell’olimpo letterario soprattutto perché è riuscito a raccontate con estrema intelligenza e profondità il rifiuto della “sacralità” del passaggio di testimone da padre a figlio, di quella perversa e malsana giustificazione delle imposizioni e delle sopraffazioni in nome del sangue e dalla tradizione da custodire a tutti i costi.
Baddevrustana (Siligo,Sassari): Gavino ha solo cinque anni (siamo nel 1943) quando viene strappato alla scuola dal padre Abramo, perché il figlioletto deve essere avviato al lavoro di pastore, è suo, gli serve” per governare le pecore mentre lui pensa ai campi. Il bambino, lasciato solo nell’ovile a giornate intere, custodisce il gregge mentre apprende giorno per giorno la violenza educativa del padre-padrone che impedisce a Gavino di lasciarsi avvolgere dai colori, dagli odori e dai suoni (questi sono per lui gli unici insegnamenti che riesce a recepire) di madre natura che funge da confidente per il bambino. Gavino desidera andare alla ricerca di nuovi spazi, vuole conoscere, imparare, con urgenza. Il padre lo ostacola, ma lui non molla; nonostante la povertà che lo circonda, vuole emanciparsi, sottrarsi ad un destino imposto.
Parte per la leva militare, inizia a studiare, si lascia conquistare dal latino e dalla cultura, sente che è questa la sua strada, lontano da un lavoro senza tutele, minacciato dal banditismo e dalle pessime condizioni igieniche. Ma nemmeno la vita da soldato è semplice, il problema principale è la lingua, dirà infatti Ledda: <<I calabresi, i siciliani, i napoletani, a parità di cultura si esprimevano nel loro dialetto e facevano più figura di noi. La lingua nazionale era sempre più lontana dal sardo che da qualsiasi altro dialetto. Tra di noi, però, potevamo esprimerci in sardo a patto che non fossimo di servizio e che non ci fossero ‘superiori’ presenti […]. E questo era un fatto che costringeva noi sardi a stare sempre insieme: un branco di ‘animali diversi’. La divisa ci accomunava solo per i superiori, ma nella realtà tra noi sardi e gli altri soldati c’era di mezzo la separazione della lingua>>. Gavino (che diverrà anche uno studioso della lingua italiana e di quella sarda) prende coscienza anche di questa particolare diversità anche se l’unico suo pensiero, quasi fosse un tormento è affrancarsi, studiare, e con grande umiltà, sacrificio e libertà conquista pian piano il suo futuro. Lo scontro finale con il padre,una vera e propria lotta, sarà inevitabile.
La parte più suggestiva e poetica della storia è senza dubbio la scoperta da parte di Gavino della musica classica che ormai ha preso il posto nel suo cuore e nei suoi sensi della natura, ora che ha imparato un nuovo linguaggio: <<E sotto le querce, quando la natura si scatenava e il gregge si metteva al riparo, ora non ascoltavo più il suo linguaggio che un tempo mi aveva parlato a lungo. Ora, la natura, la lasciavo parlare per conto suo. Non rispondevo più ai suoi dialetti. E tutto preso da quella dolce ansia che la musica aveva acceso dentro di me, mi mettevo a solfeggiare. Il gelo non lo sentivo più preso dalla mia passione, ceppo acceso che scoppiettava e scintillava sotto l’acqua>>.
Evocativo e palpitante “Padre padrone” (Ledda non trascura l’aspetto psicologico) soprattutto quello del protagonista), né quello sociale ( una Sardegna arcaica), che lo rende un romanzo storico di estrema fattura. Nel 1977 Ledda ha preso parte alla lucida ed enigmatica trasposizione cinematografica (Palma d’oro a Cannes) del suo libro realizzata dai fratelliTaviani, interpretando se stesso.
Il riscatto di Gavino Ledda passa anche attraverso la pubblicazione stessa del suo libro, l’essere riuscito a far conoscere la propria storia, compiendo un atto di pacificazione con sè stesso che sembra dire: << Ce l’ho fatta, il destino si può cambiare, con perseveranza, coraggio, talento e fatica>>.