“Band On The Run”: l’apice degli Wings

Dopo lo scioglimento dei Beatles, nell’aprile del 70, la pubblicazione di due album solisti bellissimi ma interlocutori (McCarteney e Ram), la fondazione di un nuovo gruppo, the Wings, con l’ausilio della moglie Linda che scatena inevitabili paragoni con il gruppo precedente, Paul McCartney capisce che è venuto il momento di rilanciare pesantemente. Per trovare la giusta ispirazione prende armi, bagagli, moglie e quello che resta dei Wings, il solo Danny Laine, prende un aereo e parte per la Nigeria dove, negli studios dell’amico Ginger Baker, inizia a lavorare su del materiale inedito che andrà a costituire la spina dorsale di Band On The Run. Nonostante le enormi difficoltà tecniche e personali (attrezzature non all’avanguardia, furti, minacce da parte di Fela Kuti), il buon Paul riesce a trovare la quadratura del cerchio e a produrre un disco meraviglioso.

“Con la possibile eccezione di Plastic Ono Band di John Lennon, è il miglior album mai realizzato da uno dei quattro musicisti che una volta si chiamavano Beatles” (Rolling Stone-1973)

Si tratta di un lavoro essenzialmente rock, potente e vigoroso, che però lascia spazio a malinconiche ballate e sogni traslucidi che rivelano la ritrovata capacità dell’ex Beatle di spaziare con estrema disinvoltura tra le varie pieghe della musica. I sentori dell’Africa e le atmosfere di Abbey Road, la giungla ed il cemento, sono magistralmente mescolati in dieci memorabili brani di una bellezza assoluta. Le accelerazioni ed i cambi di tempo della title track, i possenti ottoni e le distorsioni di Jet, l’onirica delicatezza di Bluebird, l’enorme giro di basso di Mrs. Vandebilt, le tremolanti tastiere e gli attacchi sghembi di Let Me Roll It, danno la misura del grado di ispirazione e qualità compositiva che McCartney ancora possiede. Si prosegue con la delicatissima e quasi acustica Mamunia, forse la più “africana” delle canzoni presenti nel disco, per poi passare alla corale No Words e alla malinconica Picasso’s Last Word (Drink To Me) ispirata alla morte del celebre pittore avvenuta pochi mesi prima, in cui vengono riprese in maniera geniale due brani precedenti, Jet e Mrs. Vandebilt. La salva finale è affidata al rock di Nineteen Hundred and Eighty-Five la cui lunga coda strumentale, riprendendo la melodia di Band On The Run, chiude definitivamente il cerchio. Ovviamente il disco si rivela un trionfo sia dal punto di vista delle vendite che della critica. La celebre copertina in cui figurano, tra gli altri, gli attori Christopher Lee e James Coburn, staziona per mesi nei primi posti delle classifiche contribuendo a fare dei Wings una delle band più celebri e acclamate del pianeta. Persino gli altri ex Beatles inaspettatamente riconoscono la bellezza e la qualità del disco. Certamente rimane uno degli album più importanti degli anni ’70 ed una dimostrazione tangibile che anche dopo lo scioglimento dei Beatles, Sir Paul McCartney conosceva molto bene il significato della parola rock.

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“All Things Must Pass”: Il volo di G. Harrison

Non deve essere stato facile essere un Beatle e soprattutto il “terzo” Beatle. Schiacciato dalle imponenti personalità dei colleghi John Lennon e Paul McCartney, George Harrison ha faticato non poco prima di trovare una propria dimensione artistica. Relegato per anni al semplice ruolo di chitarrista e costantemente sottovalutato dal punto di vista artistico, dal 1965 in poi, Harrison è stato protagonista di una crescita musicale continua che lo ha portato a diventare, forse, il miglior compositore dei Fab Four durante la loro tormentata fase finale. Il suo talento si manifesta in Revolver, in cui firma la caustica Taxman, matura in Sgt. Pepper, sua l’orientaleggiante Within You Without You, si rafforza nel White Album, cui fornisce le meravigliose While My Guitar Gently Weeps, Piggies, Long Long Long ed esplode in Abbey Road a cui regala i capolavori assoluti Something e  Here Comes The Sun. Una lenta maturazione, dunque, un cammino interiore che gli ha permesso di trovare uno stile ed una poetica, molto in linea col suo carattere meditabondo e misticheggiante. Ma di benzina nel serbatoio, Harrison ne aveva ancora parecchia nel 1970, senza contare le numerosissime canzoni scartate in fase di registrazione dagli ex compagni e quindi non incluse nel canone beatlesiano.

 «A volte era frustrante dover far passare milioni di “Maxwell’s Silver Hammer” prima di usarne una delle mie; a pensarci adesso, ce n’erano un paio, delle mie, che erano migliori di quelle che John e Paul scrivevano con la mano sinistra. Ma le cose andavano così, sapete, e non mi dispiace particolarmente: ho solo dovuto aspettare un po’» (George Harrison)

Una volta finita l’esperienza con i Beatles, George decide di rompere gli indugi e di pubblicare tutti quei brani che erano rimasti nell’ombra per tanto, troppo, tempo. Il risultato è un monumentale triplo album intitolato, guarda caso, All Things Must Pass, pieno di ispirazione, splendore e redenzione. Pubblicato nel novembre del 1970, quest’album, a differenza dei progetti solisti degli ex compagni, riscuote immediatamente un clamoroso successo sia di pubblico che di critica, rappresentando la definitiva affermazione dell’autore come musicista eccellente e compositore raffinato. Il materiale in esso contenuto è di altissima qualità. Si va da I’d Have You Anytime (scritta a quattro mani con Bob Dylan) a l’arcinota My Sweet Lord, dalla tiratissima Wha-Wha alla sognante Isn’t It A Pity, fino a What Is Life, It’s Not For You, Apple Scruffs, Beware Of Darkness, All Thing Must Pass, tutte tessere che vanno a comporre il caleidoscopico mosaico musicale del “chitarrista gentile”. Le liriche trasudano amore universale, suggestioni religiose e serenità interiore a differenza dei tormentati versi lennoniani o delle semplici rime di stampo mccartneyano.

 All things must pass è il disco del definitivo affrancamento di Harrison dall’ombra dei Beatles e del superamento del trauma dovuto alla tormentata separazione. Il tutto non senza polemiche, ovviamente. Nella copertina Goerge è seduto in un prato in mezzo a quattro nani da giardino. Le interpretazioni negli anni sono state molteplici, ma aldilà dei dibattiti dovuti ai presunti messaggi cifrati presenti nella cover (McCartney ha fatto la stessa cosa in Ram e Lennon in Imagine), l’opera in questione è di innegabile bellezza. La spiritualità tipica dell’autore si riflette in suoni pacati ed in cantato soffice e rilassante; c’è anche spazio per del rock sanguigno senza sconfinare mai nel rumore e nella rabbia. L’ispirazione è grande (anche se tende un po’ a scemare nella jam session che occupa tutto il terzo LP) anche nei brani risalenti al 1966 o al 1969, a riprova che Harrison era già un ottimo compositore ai tempi della beatlemania. Ma si sa, nessuno avrebbe mai osato mettere in discussione la diarchia più prolifica del rock in grado di zittire qualsiasi altra voce si avvicinasse nei paraggi. Il buon George ha dovuto fare tutto da solo armandosi di pazienza, tenacia e quintali di autostima fino a trovare la sua personale strada per l’Olimpo. Non deve essere stato ne semplice ne indolore ma alla fine il risultato ripaga in pieno la fatica fatta. Chissà quali altre meraviglie avrebbero fatto i Beatles con George Harrison a pieno regime!

“Ram”: McCartney và alla carica

Ram- Apple Records- 1971

Nell’aprile del 1970, a pochi giorni dallo scioglimento dei Beatles, fa la sua comparsa nei negozi un curioso LP con una ciotola e delle ciliegie in copertina, nessun nome. Non appena lo si mette sul piatto si svela l’arcano. La voce e lo stile sono inconfondibili. Si tratta dell’album solista dell’ex bassista dei Fab Four intitolato semplicemente McCartney. Nonostante il successo di vendite si scatena immediatamente una ridda di polemiche. Pur contenendo brani degni di nota, Every Night, That Would Be Something, Junk, Maybe I’m Amazed, si tratta di un lavoro incompleto, rudimentale, approssimativo, indegno di un musicista della sua statura. Scosso dalle critiche e volendo fare di meglio, Paul si rinchiude nella sua fattoria in Scozia ed inizia a comporre nuovo materiale in totale solitudine giovandosi della lontananza, sia fisica che mentale, dallo scompiglio creato dalla fine del gruppo più famoso del mondo. Talmente grande la voglia di fuggire da tutto e da tutti che le sedute di registrazione vengono spostate oltreoceano, a New York e Los Angeles, ed effettuate con l’aiuto di turnisti statunitensi. Il 28 maggio 1971 vede la luce Ram, la cui cover, questa volta, non lascia spazio a dubbi. Anticipato da un singolo dal titolo quanto mai esplicito, Another Day ed accreditato a Paul & Linda McCartney, è il disco della definitiva scissione dai Beatles. In dodici magnifici brani l’autore affronta il dolore della separazione, trova una sua identità musicale e progetta il futuro. Eppure, nonostante arrangiamenti raffinati, sonorità maestose degne del miglior Abbey Road e melodie di grande impatto, quest’album viene inspiegabilmente disprezzato da tutti, in primis dai suoi ex colleghi.

  «Sono deluso dall’album di Paul, credo che sia un grande artista, incredibilmente prolifico e intelligente, ma i suoi dischi mi hanno deluso. Non penso che ci sia una sola canzone degna di questo nome in Ram» (Ringo Starr)

«Il punto più basso della decomposizione del rock degli anni sessanta. Incredibilmente incoerente e completamente inadeguato» (John LandauRolling Stone-1971)

Probabilmente fattori di natura emotiva contribuiscono in maniera decisiva alla sistematica stroncatura di quest’opera da parte degli addetti ai lavori poiché al suo interno sono contenute gemme di indiscutibile bellezza che fanno di Ram uno dei capitoli più felici del McCartney solista. La polemica Too Many People (nella quale John Lennon ha voluto ravvisare un attacco alla sua persona nei versi “Too many people preaching practices” e “You took your lucky break and broke it in two”  cui risponderà per le rime con l’aspra How Do You Sleep? contenuta in Imagine), la blueseggiante 3 Legs, la spassosa Ram On con tanto di ukulele, la barocca Uncle Albert/Admiral Halsey, l’urlatissima Monkberry Moon Delight, la rilassata Heart Of The Country, per arrivare alla stupenda Dear Boy, alle monumentali Long Haired Lady e Back Seat Of My Car fino ai puri divertissement di Eat At Home o Smile Away, mostrano un artista in grandissima forma che ha saputo ritrovare la sua strada metabolizzando gli eventi negativi del recente passato.

John Lennon scimmiotta la copertina di Ram in Imagine

Il pubblico si è mostrato molto meno malevolo facendo volare l’album in vetta alle classifiche. Il fatto di non contenere singoli di successo, la non immediata fruibilità dei brani, la commistione di generi molto diversi tra loro fanno si che Ram non colpisce al primo ascolto, ma già dal secondo se ne resta completamente affascinati. E’ un lavoro pulito, di gran classe, lontano dalle logiche commerciali che porteranno alla formazione degli Wings ed alla produzione di album assolutamente trascurabili fatti solo per necessità di mercato, affascinante, pieno di fantasmi ma anche di grazia, fantasia ed ispirazione. 100% McCartney; un distillato denso e succoso di tutto ciò che l’ex Beatle ha saputo infondere in tutta la sua produzione, sia antecedente che successiva. Proprio per questa sua caratteristica, negli anni a seguire è stato ampiamente rivalutato fino a diventare un million-seller degno di tributi ed elogi a dimostrazione di come, qualche volta, l’orgoglio ed il pregiudizio possano prendere il sopravvento sulla ragione arrivando ad offuscare la bellezza e la qualità di un’opera .

 

“John Lennon/Plastic Ono Band”: L’Inferno di un Beatle

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John Lennon/Plastic Ono Band è un album scarno, spoglio, drammatico e profondamente intimista. Quando, l’11 dicembre del 1970, questo misterioso oggetto fa la sua comparsa nei negozi John Lennon ha un bel po’ di demoni da esorcizzare ed un bel po’ di rospi da sputare fuori. L’infanzia difficile, i genitori  inesistenti, il successo vorticoso, il divorzio da Cynthia, il distacco da Julian, l’eroina, Yoko Ono, il recentissimo e traumatico scioglimento dei Beatles: tutte tematiche profonde ed importanti che necessitavano obbligatoriamente di una valvola di sfogo.

John Lennon/Plastic Ono Band- Apple Records-1970

Dietro una cover assolutamente tranquilla e rasserenante, in cui si vede la coppia distesa all’ombra di un albero sullo sfondo di un pacifico pomeriggio autunnale, si nasconde uno dei dischi più scioccanti e controversi della storia del rock. Complici le sedute di psichiatria con Arthur Janov, il teorico del primal scream (l’urlo primario), Lennon riesce ad affrontare tutti i suoi traumi esistenziali ed a imprigionarli su nastro in una esperienza catartica e liberatoria.

Le canzoni di John uscivano dall’intimo della sua persona. Riguardavano ciò che imparavamo nella terapia primaria. Questo rinnovò la nostra vitalità: dopo John fu una persona diversa. Iniziò ad aprirsi” (Yoko Ono)

Una vera e propria terapia dunque. Ma anche una grandissima prova d’autore. Uno sfoggio di genialità senza precedenti. Solo uno come Lennon poteva trasformare temi così “pesanti” e complessi in tanto splendore musicale. Nel contempo quest’opera rappresenta anche un drastico rifiuto di tutto quello che c’era stato fino a qualche mese prima. Contrariamente allo sfarzo degli ultimi lavori beatlesiani (Sgt. Peppers, Magical Mistery Tour, The White Album, Abbey Road), Plastic Ono Band si presenta volutamente grezzo, deliberatamente semplice e privo di ogni ricercatezza musicale (più o meno la stessa cosa ha fatto Paul McCartney nel suo omonimo e coevo album solista). Inciso ad organico ridotto, “con un piccolo aiuto dei suoi amici”, Klaus Voorman al basso, il fidato Ringo Starr alla batteria, Billy Preston al piano e l’evanescente Phil Spector alla produzione, è un album praticamente unplugged, le cui sonorità si adattano perfettamente all’importanza dei contenuti. Un’angosciante “campana a morto” introduce la disperata Mother, caratterizzata da un testo semplicissimo e dalle urla lancinanti dell’autore in chiusura di brano. L’ipnotica Hold On, la tiratissima I Found Out, la rabbiosa Working Class Hero (con il celebre verso “siete ancora fottuti zotici, a quanto vedo”), la meravigliosa Isolation, la tenerissima Love, fino all’epica ed iconoclasta God ed alla terribile My Mummy’s Dead, questi brani rappresentano un viaggio attraverso le angosce ed i tormenti di uno dei più grandi artisti del novecento, nascosti dietro la facciata dell’imponente rock star; è il disco più autorivelatorio del rock. Mai nessuno, sia prima che dopo, è riuscito, né tantomeno ha osato, mettersi a nudo in maniera così totale, viscerale. E’ stato uno shock, un vero trauma vedere e sentire una delle icone del XX secolo, così squassata e dilaniata da conflitti interiori, traumi infantili e crisi personali come un essere umano qualunque.

John Lennon e Yoko Ono-Amsterdam- 1969

Anche i geni soffrono e piangono a quanto pare, ma mai si sarebbe potuto immaginare cosa realmente si nascondesse dietro l’immagine perfetta di una delle personalità musicali più idolatrate della storia. Tanta sincerità va premiata. Nonostante la sua complessità e durezza, l’album viene immediatamente incensato dalla critica al momento della sua uscita ed immediatamente classificato come un capolavoro assoluto.

«Il cantato di John nell’ultimo verso di “God” può considerarsi il migliore in tutto il rock» (Greil Marcus-critico musicale)

Le vendite ottimali ne certificano il successo presso il grande pubblico nonostante contenga tematiche e sonorità assolutamente contrastanti con quelle adottate da Lennon solo qualche mese prima. Le sedute col dott. Janov e le successive session d’incisione fruttano, per dovere di cronaca, il parallelo Yoko Ono/Plastic Ono Band (dalla grafica di copertina pressoché uguale) che, ovviamente, non possiede né la forza concettuale né l’ispirazione musicale del più celebre gemello. Rabbia, rancore, dolore, disillusione, ma anche liberazione, sollievo, redenzione; in questo lavoro l’ex Beatle si getta alle spalle il passato ed assurge a nuova vita. E con lui milioni di fans ancora storditi dall’improvvisa dissoluzione dei Fab Four.

Revolver dei Beatles: Il sacrario del pop

“Revolver”- Parlophone-1966

Da bambino chiesi a mio padre (beatlesiano ortodosso e presente all’epoca dei fatti): “Papà qual è il disco più bello dei Beatles?”

Lui, senza pensarci un momento, rispose: “Revolver”

Io, li per li, non dissi niente.

Ma come Revolver? E Sgt. Pepper allora? Il White Album? Abbey Road?

A più di vent’anni da quella domanda e dopo innumerevoli ascolti dell’intera produzione beatlesiana, posso dire che aveva ragione. Il disco più bello dei Beatles è Revolver. Meno unitario del precedente Rubber Soul ma più caleidoscopico e sperimentale, quest’album rappresenta il momento esatto in cui i Fab Four prendono la volgare canzonetta e la innalzano ad opera d’arte.

Nel 1965 al gruppo accadono due cose fondamentali: cessano di esibirsi dal vivo ed esplorano tutte potenzialità che offre lo studio di registrazione. Ormai lontani dall’isteria dei fans e dallo stress delle tournèe, i Beatles si chiudono negli studi EMI di Londra e danno sfogo a tutta la loro creatività: il classicismo di Paul McCartney, il misticismo di George Harrison, la psichedelia di John Lennon, l’ironia di Ringo Starr si amalgamano in un coacervo incredibile di stili, tendenze e musicalità diverse. Il risultato è sorprendente.

«Dal giorno in cui uscì, Revolver cambiò per tutti il modo in cui si facevano i dischi. Nessuno aveva mai udito niente di simile.» (Geoff Emerick-tecnico del suono)

 

The Bealtles-1965

L’arguta critica sociale di Taxman, la dolente bellezza di Eleanor Rigby, gli umori acidi di She Said She Said, l’allegria di Yellow Submarine, la sperimentazione pura di Tomorrow Never Knows, elevano Revolver al rango di capolavoro assoluto e manifesto di un’intera generazione. Perfino la copertina (straordinario collage creato dall’amico di vecchia data Klaus Voorman) cessa di essere una mera fotografia per diventare parte integrante del disco. Arte visiva e musicale, oriente ed occidente, pop e musica colta, amore e filosofia, i Beatles alzano il tiro, spingendo “oltre” la loro ambizione e la loro consapevolezza. Ormai fanno terribilmente sul serio. Si sbarazzano dello spettro di Bob Dylan (che aveva caratterizzato gli album precedenti) e dell’etichetta di “phenomenal pop combo” per raggiungere lo status di guru della musica moderna.

Aiutati anche da un crescente consumo di LSD e da possibilità economiche pressoché illimitate, i Favolosi Quattro recepiscono ogni sentore di mutamento, ogni minima vibrazione socio/musicale, ogni tensione rivoluzionaria e li trasformano in splendide melodie realizzando idee assolutamente inconcepibili fino a quel momento. Riescono nell’impresa di diventare il gruppo più innovativo del mondo e, nello stesso tempo, il più commerciale. Revolver, infatti, raggiunge, nel suo anno di pubblicazione, la vetta delle classifiche sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti ed è, successivamente, inserito ai primi posti in quasi tutte le liste dei migliori album mai pubblicati.

Anche dal punto di vista lirico e poetico quest’album rappresenta un punto di svolta. Sono lontane le semplici parole d’amore di Michelle, She Loves You, Love Me Do e You Won’t See Me. Qui trovano spazio la solitudine e la tristezza, la satira politica e la filastrocca, le droghe ed il “Libro Tibetano Dei Morti”. L’impatto sul mondo musicale è enorme. Un terremoto vero e proprio. Le tecniche di registrazione, i testi criptici ed ermetici, i nastri suonati al contrario, il sitar e la tambla, gli archi e gli ottoni, i rumori di fondo, tutto, ma proprio tutto, viene studiato e ripreso da gruppi contemporanei e successivi (inclusi gli stessi Beatles). Pink Floyd, Who, Byrds ma anche U2 e Chemical Brothers hanno fatto un punto d’onore riprendere e cercare di superare Revolver. Si tratta di un disco rivoluzionario sotto ogni punto di vista. Lontano eppure attualissimo tanto da continuare a lasciare tracce visibilissime a quasi cinquant’anni dalla prima pubblicazione. Dopo Revolver, nulla sarà più come prima. La via era stata indicata ed il solco tracciato. Il mondo era ormai pronto per Sgt. Pepper.

 

 

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