Il giovane Holden: la rabbia innocente

Il giovane Holden è un romanzo del 1951 di Salinger, sulla rabbia giovane, sulla frustrazione, sul dubbio.Tutti noi siamo stati arrabbiati con lui e, sempre con lui, abbiamo amato l’immagine della piccola Phoebe sulla giostra che “continuava a girare intorno intorno”.

Sono passati circa cinquant’anni dalla stesura di quello che resta un romanzo da legare alla storia. Ma cinquant’anni non possono e non cancelleranno mai, quella sensazione di essere parte di qualcosa. Perché è quello che siamo stati, parte della sua vita. Lui era ed è rimasto in noi.

É Holden Caufield a parlare con noi. Parole schiette e sincere le sue, vere come forse non le troveremo mai in nessun altro luogo di questo magico mondo che i libri sono stati in grado di costruire nell’arco dei secoli. Con quell’aria sempre un pò infastidita, lontana e ostile a tutto ciò che è conforme alla moda, al mondo che lo circonda. Quel mondo, che si ferma solo accanto alla sua sorellina. Una bambina di dieci anni, che ama suo fratello nonostante le delusioni. Quella dolce bambina che ama e che lo rende “così maledettamente felice che per poco non mi misi a urlare, se proprio volete saperlo.”

 

J. D. Salinger

Già dalle sue prime parole, il nostro protagonista, si avvicina a noi lettori ostile. Sembra quasi ci stia facendo un favore nel raccontarci la sua storia. E, forse, questo rappresenta solo un altro dei mille motivi per cui questo romanzo segna profondamente chi si accosta, anche solo per un attimo, alle sue pagine. Si, perchè lui, Holden Caufield, non ha intenzione di raccontarci la sua vita, la sua “stupida” biografia. Lui vuole parlarci solo le “cose da matti che gli sono capitate sotto Natale“, dal giorno in cui lasciò l’Istituto Pencey con una bocciatura in tasca e nessuna voglia di farlo sapere ai suoi.

La verità è tutta qui. La trama di “tutta questa storia”, è in queste prime parole. Il racconto di un ragazzo arrabbiato. La storia di ciò che un tempo anche noi siamo stati. Infastiditi dal mondo, seccanti da una realtà falsa, fatta solo di parole, pensieri sbagliati. Momenti da dimenticare. E questo non che ottene e portare un unico risultato. Ci immergiamo in ogni parola in ogni immagine. Perchè, J.D. Salinger ci regala immagini, momenti della nostra vita passata o presente, in cui rispecchiarci.

Le parole scorrono veloci. Oltre le persone i luoghi. New York, ma anche l’Istituto Pencey. Tutto della sua vita, della nostra vita, appare troppo piccolo. Una scatola dentro la quale siamo rinchiusi, senza riuscire a vedere alcuna via d’uscita.

Ma poi arriva quell’immagine che rende quella rabbia, quella sfrontatezza, quell’aria di assoluta superbia e superiorità, dolce e con un bisogno d’affetto che sarebbe impossibile descrivere. Un’immagine legata alla sua sorellina, a quella bambina da cui si reca per chiedere consiglio, per sentire calore, amore. Una forza che tutta quella rabbia gli porta via. Il nostro protagonista è arrabbiato. E tutta quella rabbia scorre in ogni minima parola. Scorre in tutto. Negli incontri.

C’è l’incontro con Sally Hayes, una vecchia compagna di scuola di Holden. Una ragazza particolarmente carina ma smorfiosa e snob che offre al giovane “vagabondo”  appoggio e amicizia. Ma, lui, vorrebbe di più; un incontro ravvicinato, più intimo. Il professor Antolini, invece, insegna inglese a New York; è amico del protagonista dai tempi in cui insegnava in un college dal quale Holden è stato cacciato. Persona colta e saggia, disponibile nei confronti del giovane. Lo ascolta e gli offre ospitalità. Antolini tuttavia non riesce a nascondere una certa ambiguità al giovane. È sposato con una donna molto più vecchia di lui con la quale si bacia spesso in pubblico; beve molto e tiene feste. Holden, quando una notte l’uomo gli accarezza la testa mentre dorme, spaventandolo e inducendolo alla fuga, sospetta che sia un pederasta. E lui, D.B. Il fratello maggiore di Holden, scrive per il cinema. Decisione che non viene approvata dal protagonista che odia il cinema. “Se c’è una cosa che odio sono i film. Non me li nominate nemmeno.”

E ancora lei. L’ultima immagine. La più dolce. La sorellina da cui il nostro protagonista va, ogni volta che sente qualcosa che si smuove dentro. Ogni volta che qualcosa fa male. La ama,è la sua famiglia. Quell’unica parte, forse, che non potrebbe mai abbandonare. Perché, lei, è ancora vera, perché è verità, nessuna bugia, nessuna maschera. Come  Huck Finn di Mark Twain, anche Holden rifiuta di lasciarsi educare, divenendo un simbolo generazionale.

Il giovane Holden resterà impresso nella memoria di tutti noi per i suoi ripetuti “vattelapesca”(che avranno infastidito più di un lettore) che identificano insieme ad altre espressioni colorite, il suo essere adolescente e che fanno iscrivere il protagonista ai personaggi “scissi”che irritano spesso il lettore, tipici del romanzo novecentesco, sulla sica di quelli di Joyce, Svevo, Musil, Kafka e Proust, con i loro “monologhi interiori”, con i loro ragionamenti sul mondo, sulle convenzioni sociali e sull’ipocrisia che sempre li caratterizza. La trama corrisponde esattamente al monologo interiore del protagonista, il cui male di vivere ricorda quello provato dai personaggi di Pavese (non è un caso che è stato proprio Pavese ad introdurre l’originale Salinger in Italia).

Le ultime parole in cui Holden ci racconta quello che resta, almeno fino a quel momento, non possono non rimanerci impresse. Non ha voglia di pensare ad altro. Non vuole andare oltre con la mente. Le domande sul futuro sono stupide infondo.

…come fate a sapere quello che farete, finchè non lo fate? La risposta è che non lo sapete“.

‘Il carcere’ di Pavese: un paese come non-luogo dell’anima

Il 17 gennaio 1949, a poco meno di un anno dalla sua morte, Cesare  Pavese ammise che si era a lungo vergognato de Il carcere come una ricaduta nel solipsismo e disse di essersi reso conto che questo problema lo attanagliava ancora, anche quando scriveva “La casa in collina”.

“Il carcere” fu pubblicato solo nel 1948, essendo stato scritto però dieci anni prima: indubbiamente non si può non dare ragione a Pavese riguardo la ricaduta nel solipsismo. Con “Paesi tuoi”, il suo “solipsismo” era definitivamente svanito: ora invece nel 1948 ritorna preponderante con questo romanzo, uscito per altro in coppia con “La casa in collina”.

Tuttavia a una prima lettura può sembrare che “Il carcere” sia solo un esercizio intimo di sviluppo della solitudine, ma forse non è così. E’ la storia di Stefano (alter ego dello scrittore) che viene mandato al confino a Rossano Calabro per aver difeso la sua donna, militante del Pci.
Quella  di Stefano è una storia struggente, e lo capiamo sin dai primi righi: “Per qualche giorno Stefano studiò le siepi di fichidindia e lo scolorito orizzonte marino come strane realtà di cui, che fossero invisibili pareti di una cella, era il lato più naturale”.

Stefano dirà più volte, nel corso della storia, che il confino era libertà rispetto al carcere, ma questa affermazione sarà poi ben smentita dal decorso degli eventi. Sin dal primo momento, sin dal suo arrivo al paese in un pomeriggio assolato di agosto, a bordo di una auto polverosa, Stefano si rende conto che è stato catapultato in un mondo immobile, dove la gente è “costretta a restarci”.
Le descrizioni esterne sono affidate alle lunghe passeggiate che Stefano fa durante il giorno, in solitaria: sono passeggiate durante cui pensa e ripensa alla sua condizione precaria, al suo dipendere da un foglio. Stefano non vive con serenità la sua “libertà”: ogni volta che il maresciallo lo manda a chiamare, pensa sia arrivato il momento di partire, che gli avessero condonato il confino. Come accade nell’episodio in cui viene chiamato dal maresciallo e tutta una angoscia e una trepidazione tremenda lo eccitano: scoprirà poi che invece del tanto agognato foglio di via, si tratterà solo di una notifica giudiziaria.

Il racconto si consuma così, tra le angosce di una situazione precaria e indefinita, in un luogo in cui è costretto a vivere ma che è costretto a considerarlo come un “non luogo”: le lunghe descrizioni dello stato d’animo di Stefano e la profonda solitudine che si respira nel paese, dipingono lo stesso paese come un “non luogo dell’anima”. L’uomo lo vive esattamente così: “La gioia di riavere una porta da chiudere e aprire, degli oggetti da riordinare – che era tutta la gioia della sua libertà- gli era durata a lungo, come una umile convalescenza. Stefano ne sentì presto la precarietà, quando le scoperte ridivennero abitudini; ma vivendo quasi sempre fuori, riservò per la sera e la notta il suo senso d’angoscia” .

Stefano è coinvolto nella vita di paese: gioca a carte all’osteria, va a caccia con Vincenzo, ma sente tutto come estraneo, precario, anche i discorsi con i paesani sono formali e distaccati, e sono sempre e solo loro a prendere l’iniziativa. Ben presto nella storia si fa strada forse una questione  che non ci saremmo aspettata da Pavese, o che per lo meno non la trattasse come la tratta ne Il carcere: il desiderio sessuale.
Per un uomo solo l’astinenza può essere un grande problema: sono molti le parti in cui Stefano sogna i fianchi di Elena, la ragazza che le fa le pulizie in stanza, ripensa alla bellezza di Concia, bella “serva” dell’osteria. Molti paesani, Gaetano, Giannino, Pierino molte volte gli chiederanno se avesse bisogno di una donna, ma Stefano rifuggerà sempre l’argomento: una donna infatti già ce l’ha. O meglio ha una vera e propria storia: Elena si è innamorata di lui. Molte volte i due consumano le gioie della carnalità e Stefano sente che non ne può fare a meno, che in quei momenti si sente meno solo. Gli piace sentirsi dire “ti voglio bene”: la storia con Elena, madre di Vincenzino,  dovrà rimanere segreta, per non destare scalpore in paese, ma  sarà una storia che avrà fine brusca. A lungo andare Stefano si innamora di Concia e quando viene a conoscenza che Gaetano non è interessato a lei, allora gli vengono molti scrupoli sul fatto che dovesse “tentare”.

Proprio con Gaetano Fenoaltea, Stefano si rende conto di essersi sbagliato sui conti del paese. Quel paese non era un eden immacolato: anche qui le persone si abbandonano a torbidi atti e passioni. Ad esempio di Gaetano si diceva di una sua tresca segreta, cosa nessuno avrebbe mai sospettato.
Da lì Stefano inizia a capire che quei paesani non sono diversi da lui: nella solitudine della vita di paese, molti si sono , diciamo cosi, attrezzati . Ci rendiamo conto di questa situazione quando, verso la fine del racconto, Gaetano aveva mantenuto “la promessa”: avevano preso una donna, Annetta, e la tenevano a casa del sarto. Quella donna era a disposizione loro e di altri due: Stefano passerà solo qualche minuto in stanza con Annetta, senza farci niente, solo per non far scontentare Gaetano.  Penserà poi, tra se e se, che il rispetto di quel corpo lo aveva fatto sentire libero davvero.

Anche Giannino, il suo primo nuovo amico in paese, viene arrestato perché anarchico e poi verrà spedito anche lui in un paese lontano, ma al nord. Da quel momento per Stefano inizia una solitudine più armoniosa: quando guarda il cielo dalla sua finestrella, si chiede se anche Giannino pensasse di tanto in tanto di fissare il cielo azzurro, pensava alle loro passeggiate sulla spiaggia e alle loro sigarette in giardino: questi atti ora Stefano li compiva da solo, ma con un sorriso interiore, quasi beffardo, perché ora non era più solo. Ora la “compagnia” di Giannino, che viveva la sua stessa condizione, era vera, sentita, percepita molto di più di quando gli era accanto in carne ed ossa. “Fantasticava il mondo intero come un carcere dove si è rinchiusi per le ragioni più diverse ma tutte vere, e in ciò trovava conforto”.

Quando il momento della partenza arriva, Stefano riordina in men che non si dica la sua valigia, cosa che non avrebbe mai pensato di riuscire a fare in breve tempo: c’è tempo un ultimo saluto a Elena, che lui ha allontanato, forse per paura, forse per proteggerla. “Le disse che le pagava la stanza, perché tornava a casa, e che il resto, nulla avrebbe potuto pagarlo. Elena con la sua voce roca balbettò imbarazzata: – Non si vuole bene per essere pagati.  “volevo dire la pulizia” – pensò Stefano, ma tacque e le prese la mano.”

Questo racconto amaro di intima solitudine pare non riguardare solo Stefano: Elena, Gaetano e tutti i personaggi, soffiata via l’apparente e falsa coltre da innocenti paesanotti, lasciano intravedere tutta la disperazione per una solitudine che forse non è tanto diversa da quella di Stefano.  “Son paesacci – dice il giovanotto che Stefano incontra nei primi righi – di quaggiù tutti scappano per luoghi più civili. Che volete! A noi tocca restarci.”


‘La casa in collina’: la guerra mondiale e intima descritta da Pavese

Pavese_immagine

“Pensai incredulo alle colline e alle vigne di quassù. Che anche qui si sparasse, si tendessero imboscate, che le case bruciassero e che la gente morisse, mi parve incredibile, assurdo.” Il Pavese de “La casa in collina” è un Pavese forse inedito: i toni solipsistici di una solitudine quasi “fine a se stessa” di altre sue opere come “Feria d’agosto”, “La bella estate”, appaiono qui come abbandonati.

Il Pavese che fa pronunciare a Corrado quelle parole è forse un autore già all’apice della sua maturità letteraria, senza neanche che, come la maggior parte della critica scrive, occorra aspettare “La luna e i falò”.
Composto nell’immediato dopoguerra, “La casa in collina” è un racconto “diverso” della resistenza, della guerra: diverso perché il protagonista Corrado non partecipa alla resistenza, ma ne avverte il disagio. Detto così, però, l’intento che Pavese vuole trasmetterci con quest’opera, appare disatteso: in realtà possiamo benissimo dire che Corrado partecipi alla resistenza e alla guerra, ma vi partecipa in maniera “intima”. In questo caso il luogo della guerra  e della resistenza non è il campo di battaglia, ma è l’anima del protagonista. Allo stesso modo è interessante vedere come, durante il racconto, si rincorra una certa similitudine tra “le colline” e appunto l’anima tormentata del protagonista: le colline come luogo dell’anima, sembra una descrizione più che mai appropriata.

La casa in collina è proprio la casa delle due donne (Elvira e la madre) che Corrado raggiunge la sera, rincasando dall’osteria che si trova a valle, dove è solito intrattenersi con Cate (un suo vecchio amore), Dino (il figlio di Cate), il cane Belbo, Fonso (il partigiano). Dalla collina Corrado vedrà Torino in fiamme, vedrà risplendere i fuochi degli attacchi tedeschi che possono essere paragonati a quei film di fantascienza che parlano di sbarchi alieni, con le luci delle astronavi che illuminano il cielo, insomma come qualcosa di già soltanto visivamente spaventoso.

A sprazzi però il protagonista si lascia andare a delle speranze, come la similitudine tra l’avanzare della primavera e la fine della guerra: similitudine che però sarà disattesa.
La narrazione si fa più nervosa quando accade l’episodio chiave: i tedeschi catturano Cate e gli altri dell’osteria: Corrado è disperato, fugge tra le colline e capisce che i tedeschi di lui non sanno niente perché probabilmente nessuno tra Cate e gli altri, hanno parlato. Ma capisce che allo stesso tempo le colline non sono più un riparo per lui: “Non c’era su quelle colline un cantuccio, un porticato, un cortile donde almeno per quella notte guardare le stelle senza batticuore?”

“In sostanza chiedevo un letargo, un anestetico, una certezza di essere ben nascosto. Non chiedevo la pace del mondo, ma volevo la mia. Volevo essere buono per essere salvo”. Così Elvira trova per Corrado un buon rifugio, il collegio dei preti a Chieri: lì sarà al sicuro, tra le mura del collegio, tra i volti dei ragazzi, tra le parole dei preti. Ma anche lì il terrore non lo abbandonerà: le orecchie sempre tese, i sensi sempre accesi per cogliere qualche pericolo. E una sera il terrore si presenterà reale: qualcuno al collegio può fare la spia. Il sospetto cresce angosciosamente in Corrado che per alcune sere non esce dalla sua stanza: alla fine un frate gli dirà che sarà meglio che si allontani un po’ dal collegio, per sicurezza. E così incomincia un vagabondaggio misero che porterà Corrado a comportarsi come un agnello indifeso in mezzo agli oscuri boschi: giorno dopo giorno cercherà di raggiungere la piazza del paese, poi si nasconderà tra le strade, sempre con il sottofondo degli spari, delle bombe e degli autocarri.

Verrà il momento che Corrado tornerà al collegio, ma gli studenti non ci saranno più: neanche Dino, che lo aveva raggiunto, sarà al suo fianco. Allora la sua solitudine, oltre che essere interiore, si farà anche materiale: arrivano notizie inquietanti dal mondo al di fuori della mura del convento. Corrado si interroga su Cate, su Belbo, si sente in colpa, possiamo dire, per questo suo stato di rifiugiato, per essere scappato. Verrà anche il momento che Corrado deciderà di tornare a casa, di affrontare le colline.
E ora l’immagine di questa “barriera di colline” che il protagonista  deve attraversare è molto diversa dalle “verdi colline” all’inizio del racconto: inizierà così un cammino da fuggiasco, per tornare a casa, si informerà sugli spostamenti dei tedeschi dai paesani che incontra, sbaglia molte volte strade, torna indietro, si nasconde.

Incontra un posto di blocco dei partigiani, che, non senza diffidenza, lo faranno passare. Si imbatte, da spettatore insieme a un vecchio contadino, a una rappresaglia di partigiani contro i Tedeschi: ma la scena non è descritta, è descritto solo il modo in cui Corrado si nasconde insieme al vecchio contadino e con il quale avverte solo la raffica di spari e il rumore dei carri. Quando l’imboscata sarà finita, l’uomo  esce allo scoperto: cammina tra i morti non permettendosi minimamente di scavalcarli, quasi come una forma di bigotto rispetto, forse, peggio ancora, di imbarazzo. Alla fine riuscirà a tornare a casa, sano e salvo. Ma il peggio lo aspetta ancora. Corrado sta male, si sente in colpa, avverte un grande disagio per quello che è accaduto ma non riesce a trovare una spiegazione.

“Mi accorgo che ho vissuto solo un futile isolamento, una inutile vacanza, come un ragazzo che giocando a nascondersi entra in un cespuglio e ci sta bene, guarda il cielo da sotto le foglie, e si dimentica di uscirne mai più”. Corrado alla fine del racconto non si assolve, non assolve il suo comportamento, anzi, si dissocia dal suo “io” dei mesi precedenti.
Molti tra i critici parlano di “egoismo” del protagonista che poi si risolve nella presa di coscienza di non essere riuscito a salvarsi, in realtà, perché “ogni caduto somiglia a chi resta”, perché alla fine i morti che ha visto per le strade possono somigliargli, ogni morto sconosciuto potrebbe essere addirittura lui, in realtà.

Il termine “egoismo” porta però intrinsecamente una ombratura di colpevolezza, di peccato: ma possiamo davvero incolpare Corrado di aver agito da miserabile egoista durante la guerra? Corrado è stato davvero un pavido per non essersi unito ai partigiani? Possiamo certamente assolvere la figura di Corrado, perché alla fine della storia riesce a rendersi conto di una cosa ancora più banale, ma per questo ancora più difficile: “Solo per i morti la guerra è finita davvero”.

‘Paesi Tuoi’: la porta principale del neorealismo italiano

“Paesi Tuoi” è il primo romanzo di Cesare Pavese: scritto dall’autore nel 1939 ma pubblicato nel 1941. Rappresenta un forte punto di svolta per la narrativa del novecento: il libro di Pavese infatti si andrà a collocare in quella che molti chiameranno “corrente neo realista”. Imprescindibile caposaldo della letteratura italiana, “Paesi Tuoi” preannuncia il tema fondante della sua opera letteraria: il rapporto tra città e campagna. Questo, però, è solo il tema principale da cui nascono e si diramano vari altri temi concatenati: città contro campagna vuol dire anche solitudine contro alienazione, vuol dire indagare il periodo del dopo guerra italiano, descrivere la “stanchezza” della gente che lavora, descrivere un mondo che sta tentando non solo di risorgere, ma che sta anche profondamente cambiando. E in questo cambiamento si insinuano i corpi malmessi dei contadini, gli sguardi persi dei migranti verso la città, si percepisce il disagio e la fatica di tutte quelle persone che si impegnano a costruire le fondamenta di una nuova nazione.

Il mondo della campagna, il mondo della fabbrica, le colline e le luci della città: in poche parole questi sono i temi di “Paesi Tuoi”, che inizia e racchiude allo stesso tempo tutta l’opera pavesiana. Berto, un operaio torinese, conosce nel carcere dove è stato rinchiuso per aver investito un ciclista, un goffo uomo di campagna, Talino, un istintivo che è stato accusato di aver incendiato dolosamente una cascina di un rivale che aveva corteggiato la sorella di cui egli stesso è stato un amante incestuoso. Appena usciti dal carcere, Talino riesce a convincere Berto, che è esperto meccanico, a seguirlo in campagna, a Monticello, lontano dalle leggi che governano la società umana; lì egli potrà lavorare alla trebbiatrice.

Berto lo segue a malincuore, perché sospetta che quel goffo contadino covi dentro di sé qualche suo oscuro piano diabolico e si voglia servire di lui. Ed effettivamente Talino lo ha invitato in campagna per farsene scudo contro una eventuale vendetta di quel tale a cui aveva bruciato il capanno. Giunto in paese, Berto rimane turbato alla scoperta della campagna: l’odore del fieno, la vista di quelle colline a forma di mammelle, la famiglia di Talino, il padre di quest’ultimo, Vinverra, le sorelle terrose, tutto lo sorprende e lo affascina.  Soprattutto lo affascina però la sorella di Talino, Gisella: solo ella gli appare diversa, di un’altra razza, non quella della campagna. Berto quindi comincia a farle la corte per un senso di prorompente sensualità che emana da quegli stessi luoghi e per solidarietà con lei. Ma Talino ha avuto rapporti incestuosi con la sorella, ed ora non resiste alla nuova realtà dell’amore di Gisella per Berto:  nel giorno della trebbiatura, mentre la gente è tutta affaccendata e congestionata dal sole e dalla polvere, mentre Gisella porge da bere al meccanico e respinge il fratello che le fa due occhi da bestia, con un salto, Talino pianta nel collo di Gisella il tridente.

L’assassino ha come prima reazione quella di fuggire, e va a nascondersi nel fienile. Il giorno seguente però fa ritorno a  casa, dove la sorella giace ancora preda di una terribile agonia. Nonostante la drammaticità della situazione Vinverra sprona la famiglia a tornare al lavoro, e la ragazza viene lasciata a morire. Talino viene arrestato dai carabinieri e Berto se ne torna in città. “Paesi tuoi” al suo tempo viene accolto dalla critica e dal pubblico dell’epoca come un romanzo fortemente anticonformista e scandaloso per alcune tematiche tabù come quella della passione incestuosa. Anche il linguaggio, che mescola all’italiano medio tratti dialettali rilevati e, talora, violenti, viene accolto con sorpresa.

Il focus principale, che rimane simbolico e che serpeggia per “Paesi tuoi” è il contrasto tra civiltà e natura in tutte le sue forme: quando Berto arriva in campagna è esterrefatto dal mondo cui viene a contatto, un mondo che non avrebbe mai pensato esistesse, un mondo incivile, dove l’uomo cerca di governare la natura proprio come fosse un animale impazzito. La realtà rurale che traspare in filigrana nel romanzo è una realtà antica, una fotografia ingiallita, un paesaggio molto distante dai ritmi e dal carattere che si respira in città. Il finale è il risultato del rapporto conflittuale tra città e campagna, appunto: due mondi che non possono convivere serenamente: il dramma finale è la metafora dello scontro tra la natura viva, istintuale, viscerale, passionale del mondo di campagna (incarnato da Tallino)e la natura distaccata, sospettosa, calcolatrice, sorniona ed esperta del mondo di città, incarnato da Berto. Berto è quindi l’uomo urbanizzato, senza appartenenza, che si deve confrontare con un mondo antico, distante, fatto di riti e simboli: la differenza tra Berto e Tallino sta tutta nella descrizione, tipicamente pavesiana, dei caratteri fisici segnati dalla fatica.

Il dramma finale di Paesi tuoi è il simbolo della bestialità dell’istinto umano, che è rimasto intatto nel mondo di campagna: Tallino non può che esserne atterrito. Ma c’è di più: Berto vive la tragica fine di Gisella ossessionato dalla consapevolezza di una morte annunciata, che avrebbe potuto essere evitata, se solo egli ne avesse avuto la convinzione. Berto è la rabbia che cova e che  si trasforma in follia, una rabbia che trova nella gelosia solo la miccia per esplodere, ma che in realtà ha cause e genesi molto più profonde: la povertà, la condizione misera della vita, l’abbrutimento dell’animo, un sentimento di ingiustizia verso il mondo.

Potremmo dire oggi che Pavese quasi opera una descrizione “pasoliniana” dei suoi personaggi, tutti verosimilissimi: pasoliniana perché sembra quasi scorgere un occhio attento, sensibile a tutti i più significativi particolari, sembra quasi di vedere  attraverso la macchina da presa di Pasolini che raccoglieva i particolari più bassi e più veri della vita: in questo romanzo ci riferiamo a cosa se non che al tema dell’amore incestuoso, ingrediente quasi diabolico. Questo Naturalismo che mira a un senso più profondo, fu quasi immediatamente colto dalla critica degli anni fascisti: Paesi tuoi è importante a sua volta, in quanto rompe con la cultura dell’epoca in cui la retorica fascista primeggiava. Insomma, è come una provocazione, perché sconvolge tutti gli schemi e tutte le idee che allora si facevano della letteratura. Il paesaggio non viene descritto come in precedenza, ma con una serie di metafore: ad esempio, le colline langhigiane vengono soprannominate “mammelle” ed acquistano un significato simbolico dal punto di vista sessuale. Un altro esempio: la terra viene associata alla figura del corpo femminile ancora per sottolineare il simbolo della fertilità umana. In definitiva il paesaggio non ha il comune ruolo di sfondo ma è funzionale, quasi un personaggio che ha un suo peso nell’ambito della vicenda. Proprio come specchio dei suoi tempi, diranno vari critici anni dopo, il fondamento di “Paesi Tuoi” è questa vena simbolica che, attraverso la brutale, improvvisa e inaspettata violenza di Tallino, sembra voler richiamarsi alla più generale violenza della storia dell’uomo, il destino a cui nessuno può sottrarsi: che in quegli anni si chiamava seconda guerra mondiale.

‘La bella estate’ di Cesare Pavese: la libertà è un male?

La Bella Estate è il titolo di una raccolta di romanzi brevi di Cesare Pavese pubblicata nel 1949. Si compone di tre testi: “La bella estate” (scritto nel 1940 e rimasto inedito fino alla sua comparsa nella raccolta), “Il diavolo sulle colline”, composto nel 1948, e “Tra donne sole”, risalente invece al 1949. Grazie a questi tre racconti, racchiusi ne “La bella estate”, Pavese si aggiudica la vittoria del Premio Strega nel 1950.

Fondamentale testo di Pavese, che rappresenta uno degli ultimi atti  della sua produzione letteraria, La bella estate non ha goduto di particolare considerazione da parte della critica, soprattutto in tempi recenti. Altre sono infatti le opere dell’autore piemontese assunte come veri e propri classici.
Tuttavia questa è un’opera fondamentale per capire la personalità dello scrittore e forse le tre storie raccolte sono le più significative per quanto riguarda l’immedesimazione dello stesso autore.
Le tre storie sono tutte diverse tra loro, ma tutte trattano in maniera delicata ma al tempo stesso ineccepibile alcuni temi che il Pavese sente molto vicini: primo tra tutti il passaggio all’età adulta, l’abbandono doloroso quindi del mondo adolescente a cui si vorrebbe sempre rimanere attaccati. Il rapporto quasi “umano” tra campagna e città, descritte in modo da far emergere proprio due caratteri diversi, due mondi distanti che molte volte ti respingono, altre volte ti accolgono.

La protagonista del racconto dal titolo “La bella estate” è Ginia, una sarta torinese di sedici anni. La giovane, allegra e spensierata, fa la conoscenza di Amelia, una ragazza più grande che lavora come modella per alcuni pittori torinesi. L’amicizia con Amelia la porterà a frequentare ambienti a cui era poco avvezza e qui l’ingenua e inesperta Ginia s’innamora di Guido, un pittore, e grazie all’intervento di Amelia diventa la sua amante. All’inizio della vicenda amorosa la ragazza è felice e convinta di aver trovato l’amore,  ma si rende presto conto che in realtà Guido è poco interessato alla sua compagnia e si diverte molto di più a trascorrere il suo tempo con gli altri artisti, in particolare con Rodrigues, un tempo amante di Amelia.

Ginia, nonostante soffra moltissimo per l’indifferenza che avverte da parte di Guido, continua i suoi approcci. Poi arriva il momento cruciale: un giorno Guido propone alla ragazza di posare nuda per i suoi dipinti, senza avvertirla che da dietro una tenda la sta osservando anche Rodrigues. Ad un certo punto questi fa capolino nella stanza dal suo nascondiglio, e Ginia, umiliata e piena di vergogna, si copre e scappa immediatamente. Da quel momento niente sarà più come prima e Ginia preferirà la compagnia di Amelia. Il tema centrale del racconto è il rapporto tra le due ragazze: durante la storia si rincorrono, si cercano, si perdono, si trovano. L’attrazione erotica tra le due ragazze non è mai espressa in modo esplicito: Pavese vuole che il lettore intuisca cosa di “strano” ci sia nella storia. L’immagine di loro due che si baciano è quasi tenera e non riesce a sortire l’effetto, che forse avrebbe voluto l’autore, di rendere il rapporto tra le due giovani come un qualcosa di pian piano travolgente.

Ne La bella estate molto spazio è concesso ai particolari “della carne”,  “L’odore che hai tu sotto le ascelle è più buono dell’acqua ragia” – dirà Guido a Ginia. Tutto quasi a significare i corpi che si cercano, che si vogliono. Idea che Pavese tuttavia non riesce a rendere perfettamente, nel racconto si intuisce solo lievemente la voglia di un amore “carnale” più che platonico: molti critici hanno spiegato ciò riconducendosi ai problemi che Pavese aveva con le donne e alla difficoltà di avere un rapporto sereno con esse.
“Voi altre non fate che corrervi dietro, perché se siete tutte e due donne?” – è la domanda, non tanto retorica forse, che Rodrigues, il pittore, farà a Ginia che, per tutta risposta, cambierà argomento In questa occasione e in poche altre ci si rende conto effettivamente  del rapporto che intercorre tra le due protagoniste.

La bella estate è proprio il periodo dell’anno che attende con tanta ansia Ginia, perché lei e Amelia possano tornare a indossare lunghe e svolazzanti gonne andando in giro per negozi e facendosi guardare, come entrambe affermano in più di una volta durante il romanzo.
La scena finale della fuga di Ginia è emblematica di una adolescenza ancora acerba, di un considerarsi prematuramente “donna”, perché ancora non pronta a sopportare gli sguardi degli uomini sul proprio corpo nudo.

Con “Il diavolo in collina” è invece un racconto che, accanto al tema della difficoltà del passaggio al mondo adulto, accosta anche la metafora della vita in campagna, una vita che viene dalla terra, dai profumi che essa rilascia e dal calore del sole in estate, una vita vera, senza i filtri che invece caratterizzano la vita della città.
La  narra di tre amici inseparabili, l’io narrante, un bravo ragazzo di città, Pieretto, e Oreste, semplice e ingenuo che viene dalla campagna. Costoro, nei loro vagabondaggi per le colline, incontrano Poli, il figlio dei padroni della tenuta il Greppo.

Vengono così a conoscere la squallida storia di Poli che vuole liberarsi dell’ex-amante Rosalba che fa di tutto per trattenerlo. Una sera, durante un ballo, Rosalba, che poi si suiciderà, ferisce Poli con un colpo di rivoltella durante un amplesso e i tre giovani, finita l’avventura, ritornano alle loro vite per ritrovarsi, alla fine di agosto, a casa di Oreste.

I tre amici riprendono i loro vagabondaggi per le colline godendo della natura finché vengono a sapere che Poli è ritornato al Greppo e decidono di andarlo a trovare.
Poli si trova alla villa insieme alla moglie Gabriella e ambedue insistono perché si fermino. Qualche giorno dopo ritornano alla villa e, presto incuriositi e in fondo attratti da questo mondo e dal fascino di Gabriella, decidono di fermarsi. Oreste è particolarmente attratto dalla donna che gli mostra apertamente il suo interesse e l’io narrante, che si rende conto del pericolo, vorrebbe andarsene ma Pieretto lo convince a fermarsi. Poli dopo una festa si sentirà male e Gabriella portandolo a milano per cure lascerà i giovani al paese.

D’estate la vita assume altri significati, soprattutto quando si è giovani. Cosi i tre amici spesso si trovano in macchina tra le colline, nel cuore della notte, vagando senza una meta precisa nell’oscurità del paesaggio. È emblematico il modo in cui incontrano Poli: un’auto ferma in strada, con una persona riversa sul volante. Dapprima i tre sono impauriti, perché non sanno a cosa vanno incontro: emettono della grida che risuonano tra le colline deserte e buie. Questa è una delle tante immagini che meravigliosamente Pavese ci offrirà. I tre, ai quali poi si aggiungerà il diavolo sulle colline, cioè Poli , saranno soliti trascorrere le sere in compagnia (non sempre, tuttavia) di amiche, sfrecciando sulle stradine tortuose di collina, aspettando il sorgere del solo nelle piazzette deserte dei piccoli paesi.
Pavese come al solito ci fa solo intuire quali sono i caratteri dei protagonisti: lo studente di medicina che si permette poche distrazioni ma che viene spesso trascinato nelle avventure notturne da Poli, l’io narrante, che forse è il personaggio con meno personalità di tutti, perché non riuscirà mai a schierarsi apertamente contro le malefatte e scorribande che propone Poli, perché in realtà, forse, anche lui vuole divertirsi. E poi Poli: questo strano ragazzo che fa uso di droghe, sebbene sia di famiglia agiata, che vuole abbronzarsi fino a diventare nero come il carbone, che vuole la compagnia di belle donne, che vuole una vita a cento all’ora, ma che forse è il più disperato di tutti. Un personaggio quasi tipicamente gassmaniano, un mattatore dal sorriso triste e dagli occhi vispi.
Il modo in cui termina il racconto è l’epilogo di chi vuole ma non osa e di chi, per quanto abbia osato, si ritrova sconfitto: ovvero la vicenda di Oreste e quella di Poli. Insomma da un lato o dall’altro (appunto ai due antipodi, Oreste e Poli), Pavese ci offre un quadro di solitudine, di chi cerca in tutti i modi di aggrapparsi alle certezze quasi infantili che dolorosamente dovrà lasciarsi alle spalle, in un mondo da  adulti. E’ un racconto che lascia, anche in chi lo legge, un senso di scoramento.

“Tra donne sole” è forse l’opera che più ci fa capire il dramma di Pavese: gli sfondi del diavolo in collina, i richiami velati a una sessualità travolgente de “La bella estate”, lasciano spazio a un classico racconto dallo sfondo  neorealista. Tuttavia il motivo principale dell’importanza di quest’opera risulta essere l’inquietante parallelismo tra Rosetta, che morirà suicida e proprio lo stesso Pavese, che farà la stessa fine (anche con le stesse dinamiche in apparenza inspiegabili) pochissimo tempo dopo.

La protagonista, Clelia, è una donna che era partita da Torino 17 anni prima per  cercare lavoro e fortuna a Roma. Dopo molti anni di successo nel mondo del lavoro, ritorna alla sua città nativa, Torino, per aprire una succursale della sartoria romana per la quale lavora. Il ritorno al luogo dell’infanzia è per la protagonista una sorta di ricerca di se stessa. Clelia era infatti partita da Torino povera e desiderosa di uscire dalla sua situazione di miseria e aveva sognato di tornare un giorno a Torino e trovare un mondo diverso da quello da cui era partita, ma questo mondo si mostra ben presto tutt’altro da quello che lei si aspettava. Scopre così di sentirsi estraniata non solo di fronte ad una certa società, che disprezza e disapprova, ma anche di fronte ai luoghi della sua infanzia. Questo è reso bene da una immagine particolare che Pavese ci offre: “Conoscevo le case, conoscevo i negozi.  Fingevo di fermarmi a guardare le vetrine, ma in realtà esitavo, mi pareva impossibile d’essere stata bambina su quegli angoli e insieme provavo come paura di non essere più io”

Clelia ha raggiunto grazie al suo lavoro e al suo sforzo quegli ambienti che le sembravano prima inarrivabili ma ora invece freddi e vuoti. Clelia ha ottenuto l’accesso a quel mondo alto-borghese così lungamente desiderato, ma dopo aver frequentato queste persone così diverse da lei, aumenta la delusione e la consapevolezza che si tratta di un mondo vuoto, in cui mancano ideali autentici e veri valori. Giorno dopo giorno esamina le sue nuove conoscenze con indifferenza e senza coinvolgimenti emotivi. Scopre così che dietro l’apparenza, il bel mondo torinese nasconde una vacuità dei rapporti umani e un cinismo spietato.

Non mancano, nel libro, i giudizi che Clelia esprime sulle persone che frequenta, sempre contrapponendole al suo modo di essere donna: “Queste ragazze sono sempre  state con la madre, sono cresciute sul velluto, hanno visto il mondo dietro i vetri. Quando si tratta di cavarsela, non sanno e cascano male” .

In questa sorta di viaggio che Clelia compie all’interno di questa società, incontriamo tutta una serie di personaggi, soprattutto femminili: Clelia, voce narrante e protagonista del romanzo, ha l’immagine di donna emancipata che sembra aver trovato nel lavoro il senso dell’esistenza e la risposta ai propri dubbi.

Rosetta è una donna fragile, che non sa opporre resistenza al cinismo delle sue amiche, l’unica, forse, che sa ancora “sentire” qualcosa e proprio per questo destinata ad una fine tragica. Momina, una donna forte e cinica, vive una vita lussuosa, ma falsa e vuota, anche lei è però capace di sentire l’insensatezza di quel mondo e il disgusto di vivere, come rivelano i suoi dialoghi con Rosetta e con Clelia: “Il mondo è bello se non ci fossimo noi”. Mariella rappresenta la donna bella e simpatica, ma troppo superficiale e stupida. E infine c’è Nené, una donna ribelle con molto talento, ma che dipende da un uomo debole e frustrato.

Anche i personaggi maschili sono caratterizzati da un senso di fallimento generale e dalla mancanza di uno spessore interiore che si traduce in una serie di gesti e di azioni privi di reale consistenza. Clelia incontra questi personaggi prevalentemente di notte, in una Torino particolarmente vivace, diversa dalla città che Clelia vede di giorno. La città piemontese  che riscopre è diversa da come lei la ricordava, più agitata, attiva, trasformata rispetto ai tempi della sua infanzia. Proprio durante una di queste passeggiate, lei arriva nel quartiere dove ha vissuto da bambina, e ritrova l’amica di un tempo, che lei descrive come grigia e rassegnata, forse perché non è andata mai via da Torino.

Un altro personaggio della classe operaia, per il quale Clelia è attratta, è Beccuccio, il capomastro di via Po. Becuccio è una persona solida, che agisce con gentilezza e semplicità. Clelia trova la sua serenità frequentandolo e fra loro si sviluppa un rapporto di amicizia. Dopo una notte d’amore con il giovane, confusa da sempre di fronte alla scelta tra cuore e carriera, la donna sceglie di non proseguire il rapporto perché ciò significherebbe perdere la sua libertà e indipendenza, valori di molta importanza per lei.

Rinuncia dunque all’amore e all’autenticità di sentimenti a favore del lavoro e del successo. Qui c’è di conseguenza un’altra contrapposizione, tra la forte e libera Clelia, tutta dedicata al suo lavoro, e la fragile e disperata Rosetta. In lei il disgusto di vivere si fa sentire sempre più forte. “Voleva stare sola, voleva isolarsi dal baccano; e nel suo ambiente non si può star soli, non si può far da soli se non levandosi di mezzo” . Rosetta sembra essere insieme a Clelia, l’unica che si accorge della vacuità e superficialità del mondo in cui si trova coinvolta. E in questi confronti, il suicidio sembra essere la sua unica soluzione. Il suicidio non è stato dunque per amore, neppure per una storia finita molto tempo prima con Momina, ma a causa della presenza di un profondo disagio, che le impedisce di vivere ed integrarsi nel mondo, di cui è vittima inconsapevole. Rosetta è la vittima innocente di questo mondo di superficialità e ipocrisia.

Questa cerca invano di costruire rapporti più autentici e profondi, ma fallisce. Rosetta, con il suicidio, protesta contro il mondo falso e senza prospettive concrete della gioventù torinese. Il suicidio di Rosetta è presagito da Clelia che si rammarica, quando Rosetta scompare, di averlo sempre saputo e non aver fatto niente. Emblematico è la scena in cui tutti chiedono anche a Clelia notizie sull’apertura dell’atelier.

Molti critici affermano che Clelia e Rosetta siano entrambe due facce di Pavese: Clelia è la libertà, Rosetta la disperazione: queste due facce si incontrano con inquietante perfezione  in Pavese stesso. La libertà spesso appare come la peggiore tra le prigioni, una prigione che spinge a ricercare un senso nella propria esistenza: scoprirsi irrimediabilmente soli, non compresi dal mondo che ci circonda, è il passo principale verso una profonda solitudine e disperazione, una incomprensione verso il mondo e quindi verso se stessi. Sensazioni che Pavese probabilmente ha tentato di imprimere in questa sua ultima significativa opera.

Exit mobile version