La nuova lingua nazionale dei mass media

Ci sono alcuni studiosi della lingua che pensano che in fatto di linguaggio siamo conservatori. Ciò era un’ipotesi accreditata ai tempi in cui era necessaria un’invasione straniera per il cambiamento di una lingua. Ma oggi?

Oggi assistiamo ad uno stravolgimento continuo dell’italiano comune, che ci hanno insegnato a scuola. Quante nuove parole ci vengono imposte dal linguaggio omologato dei nuovi mass media, dai gerghi giovanili, dai linguaggi settoriali delle nuove scienze, dall’informatica e dall’economia? Chi parla più oggi veramente italiano?

Diciamo che attualmente riusciamo ancora a scrivere in italiano perché forse la sintassi e l’ortografia sono più “salde” della fonetica e del lessico. Nel nostro Paese c’è sempre stata una linea di demarcazione netta tra parlato e scritto. Sono stati pochi gli scrittori che hanno scritto nello stesso modo in cui parlava realmente la popolazione.

Scrittori e poeti hanno scelto prevalentemente il toscano. La lingua adoprata dagli intellettuali è stato il volgare di Dante, Petrarca, Boccaccio (le tre “corone” di Machiavelli nel “Discorso o dialogo intorno alla lingua”). Lo stesso Ariosto rivide il suo “Orlando Furioso” ed eliminò molti termini padovani ed introdusse molti toscanismi.

Anche Galilei utilizzò il toscano per la divulgazione scientifica; è da secoli che è avvenuta la toscanizzazione della letteratura italiana. Per non parlare poi di Manzoni che andò a sciacquarsi i panni in Arno. Fu proprio Manzoni a capo di una commissione del ministero della Pubblica Istruzione a stabilire che la lingua nazionale dovesse essere il fiorentino.

Chiaramente non tutte le caratteristiche del dialetto fiorentino sono diventate lingua nazionale, come ad esempio la c intervocalica aspirata, il togliere la desinenza re all’infinito dei verbi, il coniugare noi e il si impersonale. Don Milani anni fa era dell’idea che i poveri rinnovassero la lingua e che i ricchi la cristallizzassero.

I nuovi mass media oggi sono gli unici capaci di rinnovare e cristallizzare la lingua italiana. E penso anche che le televisioni soprattutto ci impongano un nuovo italiano: un italiano milanesizzato, che prende spesso a prestito termini dei linguaggi settoriali, espressioni colorite dei gerghi giovanili, inglesismi vari.

D’altronde Mediaset è a Cologno Monzese, le grandi case editrici si trovano quasi tutte nel Nord. Alla RAI si adeguano a parlare il milanese. Al Centro e al Sud è rimasto ben poco. Quando i giornalisti televisivi intervistano persone molto spesso vanno nel centro di Milano. Tutto il resto dell’Italia sembra periferico.

Chomsky qualche anno fa sostenne che un dialetto poteva diventare una lingua nazionale grazie ad un esercito. In Italia la lingua nazionale è stata imposta grazie ad un’egemonia culturale. Da qui in avanti sarà imposta tramite un’egemonia mediatica (gli scrittori oggi contano ben poco): un’egemonia mediatica, che in fin dei conti rappresenta anche l’egemonia industriale del Nord.

Le televisioni generaliste non ci propongono continuamente forse la parlata milanese come dizione corretta dell’italiano? Le show-girl che fanno i corsi di dizione non imparano forse a parlare un milanese privo di termini dialettali? I conduttori non adoprano forse una cadenza milanese o settentrionale?

Oggi se uno va in televisione deve farlo senza inflessione dialettale, a meno che non sia un comico oppure a meno che non sia il familiare di una vittima o un cosiddetto caso umano. Per tutti gli altri non ci sono scusanti. Neanche la parlata toscana è più consentita. È avvenuta da tempo la milanesizzazione della lingua italiana.

Oggi un Leopardi con una cadenza marchigiana forse non bucherebbe il piccolo schermo. E tutto ciò è ingiusto e inappropriato: è alquanto stupido perché presuppone la concezione implicita che chi risiede al Nord sia superiore a chi vive nelle isole, nel Centro e nel Sud. Eppure il Nord così produttivo per arricchirsi ha avuto bisogno in passato ed ancora oggi ha bisogno di tutti gli italiani.

Milano sarebbe ben poco se fosse stata solo dei milanesi. Anche Torino sarebbe stata ben poca cosa con i soli torinesi. Infine nascere al Centro o al Sud non è una colpa, così come non è una colpa avere un accento toscano o meridionale.

 

Davide Morelli

 

La dimensione civile di Carlo Michelstaedter

Carlo Raimondo Michelstaedter nasce a Gorizia il 3 Giugno del 1887 da una famiglia di origine ebraica. Viene educato presso un convento religioso e dopo essersi iscritto alla facoltà di matematica presso l’università di Vienna,  frequenta l’accademia di belle arti e si avvia agli studi di filosofia nella città di Firenze. Michelstaedter legge D’Annunzio, Leopardi, Tolstoj, Ibsen, Parmenide, Sofocle, Eschilo, Schopenhauer, senza ombra di dubbio per lui determinanti. Ritenuto un esistenzialista ante-litteram, nelle sue opere Dialogo della salute e Poesie vengono analizzati i temi già studiati durante la sua gioventù, ossia la tragicità della morte così temuta ma vista anche come traguardo dell’esistenza e affermazione di sé. L’uomo, secondo Michelstaedter, risulta diviso tra realtà e mistificazione di essa, tra vita e morte in antitesi.

La corrente letteraria che meglio può aiutarci a comprendere la sua formazione di tipo tardo-romantico è il decadentismo, dentro cui egli segnò una netta divisione tra il trionfo della storia dell’uomo e la consapevolezza della sua miseria e vanità. Ancora una volta abisso, inquietudine e dualismo. Considerato uno dei più grandi pensatori del primo novecento, la sua filosofia esistenzialista condanna la società in cui ai reali valori si sono sostituiti ormai i timori e l’angoscia che pervade l’uomo fino a svuotarlo;  Michelstaedter si dichiara infatti contrario all’organizzazione sociale in quanto corromperebbe l’uomo al quale invece spetta la ‘persuasione’ e la libertà da ogni tipo di vincolo.

Ne La Persuasione e la Rettorica (anche sua tesi di laurea) l’uomo infatti è paragonato ad un peso legato ad un gancio che pende ed il suo desiderio è quello di scendere sempre più in basso, in un conflitto dove la rettorica è non-essere e la persuasione è essere, l’unica strada da seguire con un grande atto di volontà e di amore esclusivo verso se stessi. La dannazione umana, il non bastare a se stessi, la rassegnazione a tutto questo, trovano, potremmo dire, una giustificazione filosofica che non è certamente nuova ma che ci permette di collocare l’autore al fianco di Pirandello e in contrapposizione al Croce e alla sua teoria della ”sistemazione”.

Nell’opera All’Isonzo l’autore è sempre più schiavo delle sue nevrosi e questo lo si evince dal simbolismo di cui si serve quando sceglie il mare o il vento per rappresentare la sua profonda crisi interiore, quindi la natura, privato però, in quanto umano, del privilegio dell’alternanza tra luce e buio. Esemplari sono i versi contenuti nel testo Nostalgia : “Che mi giova, o natura luminosa, l’armonia del tuo gioco senza cure?”.  Noi attendiamo il momento della luce, pur vivendo nell’oscurità ed essendone abituati.

Michelstaedter compie un vero e proprio viaggio nella psiche dell’uomo, probabilmente ascetico ed individualista. Certo è chiara l’influenza del pensiero leopardiano in alcuni stilemi adottati, nel suo procedere oltre il lamento, nel suo bisogno estremo di andare a fondo. Gli autori ai quali si ispira vengono chiamati da Michelstaedter stesso ”veri pessimisti” e al primo posto c’è sicuramente Petrarca, tra i pochi in grado di scandagliare tra i dolori dell’esistenza. Chi non chiede la vita e non teme la morte dev’essere disposto a dare tutto, senza chiedere niente. Questa la sua etica, anche quando sarà costretto ad accettare il suicidio di persone care come rinuncia.

Autore, filosofo, ”poeta civile”, Michelstaedter, scrivendo, racconta il malessere ed i tumulti dell’animo, lo fa costantemente, finquando l’insoddisfazione, il dolore o, pare, la consapevolezza di essere gravemente ammalato non lo spingono a reagire con la rivoltella, si suicida infatti in un caldo pomeriggio di ottobre del 1910. Le sue opere ci sono giunte postume, perché prive fino alla fine della forma alla quale ambiva.

 

Se camminando vado solitario

Se camminando vado solitario
per campagne deserte e abbandonate
se parlo con gli amici, di risate
ebbri, e di vita,

se studio, o sogno, se lavoro o rido
o se uno slancio d’arte mi trasporta
se miro la natura ora risorta
a vita nuova,

Te sola, del mio cor dominatrice
te sola penso, a te freme ogni fibra
a te il pensiero unicamente vibra
a te adorata.

A te mi spinge con crescente furia
una forza che pria non m’era nota,
senza di te la vita mi par vuota
triste ed oscura.

Ogni energia latente in me si sveglia
all’appello possente dell’amore,
vorrei che tu vedessi entro al mio cuore
la fiamma ardente.

Vorrei levarmi verso l’infinito
etere e a lui gridar la mia passione,
vorrei comunicar la ribellione
all’universo.

Vorrei che la natura palpitasse
del palpito che l’animo mi scuote…
vorrei che nelle tue pupille immote
splendesse amore. –

Ma dimmi, perché sfuggi tu il mio sguardo
fanciulla? O tu non lo comprendi ancora
il fuoco che possente mi divora?…
e tu l’accendi…

Non trovo pace che se a te vicino:
io ti vorrei seguir per ogni dove
e bever l’aria che da te si muove
né mai lasciarti.

Eugenio Montale: poeta metafisico dell’essenziale

Il poeta della negatività, della corrosione critica dell’esistenza, ma anche uno scettico o addirittura uno snob o un borghese onesto al di sopra della mischia, restio ad essere catalogato come chierico rosso o nero. Al più, la tragica testimonianza di una coscienza intellettuale che ha rimosso i conflitti politici del nostro tempo, sostituendoli con una condizione <<eterna>> di solitudine e di incomunicabilità.” Così è stato definito Eugenio Montale, uno tra i più grandi scrittori italiani, nato a Genova il 12 Ottobre 1896 da un’agiata famiglia borghese. Egli rifiuta di attribuire un valore assoluto e istituzionale alla scelta della poesia ed aspira a scrivere “sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale”: l’attività poetica non rappresenta per lui un mezzo mediante il quale spillare il senso profondo, intimo, segreto della vita, ma uno strumento di contatto con la realtà del presente, con lo scenario storico-sociale-naturale circostante. L’arte è per lui una forma di vita “alternativa”, che parte da un rifiuto della vita reale e da una non partecipazione al flusso distruttivo della natura e della storia. Queste le parole del Montale sulla figura del “poeta laureato”: “Io non attribuisco nessun particolare privilegio alla posizione dell’artista nella società, nessun merito specifico. L’idea classicistica del poeta che vive in mezzo agli uomini con l’alloro in testa , mi sembra un relitto di cui bisogna assolutamente liberarsi”.

La vita dello scrittore consta di motivi biografici meno significativi di quanto invece accade per poeti quali Saba o Ungaretti. Tuttavia, vive un’adolescenza difficile dove inizia ad emergere un senso di distacco dalla consueta vita borghese, un distacco che caratterizzerà profondamente la sua opera, mostrandoci, al di là della borghesia operosa e in ascesa, al di là della secolare fatica dell’uomo e della sua famiglia che ne è diretta rappresentazione nella mentalità e nei costumi ( il padre infatti dirige un’importante azienda di prodotti chimici), quella che è una natura opprimente, una realtà che in tutte le sue sfumature cela la pena di un male di vivere consustanziale nelle cose.

Da sempre appassionato di arte, studia dapprima musica per poi dedicarsi alla letteratura. Come molti scrittori del tempo, anche lui viene arruolato. La prima pubblicazione poetica risale al 1922 denominata “Accordi”, mentre il suo libro “Ossi di seppia” è del 1925. Nell’ambito politico chiara è la sua avversione al movimento fascista, quando nello stesso anno appone la sua firma al manifesto antifascista di Croce, un’opposizione che gli costerà l’espulsione dalla direzione del gabinetto di Vieusseux, seppur non condividendo i limiti troppo nazionali e tradizionali del crocianesimo, ma cercando un confronto con il mondo molto più problematico. Nell’immediato post guerra, fonda insieme a Bonsanti e Loria il quindicinale “Il Mondo”, ma dinanzi alla situazione conflittuale del dopoguerra, cadono le speranze di un orizzonte europeo laico ed illuminista. Montale ritiene infatti che la guerra più grande a cui è chiamato l’uomo sia quella contro l’ arroganza e la presunzione della stessa umanità, restia ad accettare di essere soltanto una minima parte dell’universale ingranaggio cosmico.

Nel 1939 pubblica “Le occasioni”. Viene a contatto con i più grandi intellettuali dell’epoca, primi fra tutti Svevo ed Ezra Pound. Lavora come giornalista al “Corriere della Sera” per poi pubblicare nel 1956 La bufera ed altro” e nel 1971 “Satura”. Nel 1980 nasce l’edizione critica di tutta la sua intera attività culturale, col titolo di “Opera in versi”. D’obbligo, nel 1975 è l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura ad uno scrittore considerato modello di cultura laica e liberale, di discrezione e di civiltà. Un uomo, Montale, poco propenso alle sbavature sentimentali, ai miti dell’ottimismo, che spesso schivo e reticente verso la propria stessa esistenza, può sembrarci alteramente rinchiuso nella “cittadella” del proprio io; ma in realtà è proprio il distacco, l’apparente non coinvolgimento, la sua “solitudine” che fanno della sua arte il dono grandissimo di comunicare “l’essenziale”, di scoprire la distanza abissale tra un io, lacerato dalle contraddizioni, e gli altri. Muore a Milano il 12 Settembre 1981.                                                                                                                                                                             Montale ha svolto anche una lunga attività di critico e traduttore che lo porta a contatto con le letterature straniere, specialmente francese e inglese. Dalla poesia francese ed in particolare da Baudelaire riprende la volontà di uscire da un orizzonte linguistico e tematico già dato, di valicare i limiti della realtà, mosso da un imperativo intellettuale e morale, che sembra richiamare le famose parole di Ulisse del canto ventiseiesimo dell’Inferno dantesco : “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. La sua poesia è   plasmata per conoscere, interrogando, il presente; per immergersi laicamente e razionalmente anche negli aspetti più inquietanti della realtà e della coscienza umana  prendendo atto della profonda solitudine dell’uomo e riconoscendo dinanzi a ciò i limiti e la marginalità della stessa poesia; una “scoperta”, questa, che lo porta a tenere il discorso, per l’assegnazione del premio Nobel, dal titolo: “E’ ancora possibile la poesia?”                                                                             

A questa domanda Montale non ci lascia una vera e propria risposta, ma esprime una condizione della poesia “martoriata” dalla “quantità estrema di parole che percorrono la terra”. A differenza di Ungaretti che propone un ermetismo conciso e tagliente, Montale va creando una poesia metafisica nata dal contrasto tra ragione e qualcosa che non è ragione; una poesia che si immerge razionalmente negli oggetti che va descrivendo per trarre alla luce ciò che in essi vi è di irrazionale; una poesia che ha uno scopo ma che al contempo è anche consapevole dei limiti di tale scopo. Questo tipo di poesia è stata definita “ poetica dell’oggetto”, richiamandosi al correlativo oggettivo di Eliot.

La poetica montaliana è un tipico esempio di come mediante l’attività letteraria si possano perfettamente conciliare classico e moderno. Innanzitutto la moderna “ricerca antropologica” condotta dal poeta assume connotati classici. Guarda al mondo dei grandi classici non per farne sfoggio di preziose citazioni, ma se ne avvicina in maniera critica, ricercando ciò che in essi serve a comprendere la realtà presente. Si uniscono così linguaggio tradizionale e moderno. Da Leopardi, il poeta ligure riprende l’inquieta interrogazione del nulla, dal Petrarca una ricerca di equilibrio perfetto, da Dante la ricchezza espressiva.

In Ossi di seppia già il titolo ci dà il senso  di questa poetica. L’osso infatti è metafora delle cose ridotte alla loro nuda e scarna esistenza. Questo spogliarsi delle cose rompe i consueti equilibri quotidiani, disintegra le maschere sotto le quali la realtà si cela, ci svela il vuoto in cui consiste il vivere personale e naturale. La voce del poeta, con quell’atteggiamento razionale e critico che lo contraddistingue, si immerge nel paesaggio, spesso quello ligure, descritto sull’onda dei ricordi dell’infanzia, senza però confondersi in esso, dove ogni barlume di speranza, di un attingere ad una vita più autentica e migliore, si risolve in una disillusione.  Non c’è una salvezza certa, non c’è un valore assoluto e definitivo della parola poetica. Tutto il libro è attraversato dal presupposto di una crisi gnoseologica che vieta l’adesione a confortanti certezze.  La poesia montaliana invita a  riflettere, non annuncia blande promesse:

“ …..Non domandarci la formula  che mondi possa aprirti,                                                                                              

  sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.                                                                                                              

   Codesto solo oggi possiamo dirti,                                                                                                                       

   ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.” 

Nelle Occasioni significativo è il discorrere con alcune figure di donne, generalmente donne reali, conosciute per momenti brevissimi, portatrici di un messaggio: il tentativo  di trovare la luce in un mondo buio e negativo. Un tentativo labile, che emerge come squarci di luce improvvisi nell’oscurità, che si risolve come la fiamma che brucia e poi immediatamente si spegne divenendo cenere. Rappresentano un’ultima, drammatica difesa contro la barbarie del mondo, una possibilità comunque insufficiente per “poter mutare le cose del mondo”:

“………La vita che dà barlumi                                                                                                                                                   

  è quella che sola tu scorgi.                                                                                                                                                                 

    A lei ti sporgi da questa                                                                                                                                                                                           

 finestra che non si illumina.”

Nella Bufera ed altro abbiamo un aspetto romanzesco del libro, che fa sì che si ponga un intreccio tra i segni della realtà contemporanea e la vicenda d’amore per una donna salvatrice. Una donna che richiama solo in parte quella stilnovistica, in quanto conserva tracce di un sottile erotismo, non distrugge la sensualità. Il “tu” femminile con il quale il poeta dialoga si identifica innanzitutto con Clizia, figura mitologica che nasconde in realtà la vera identità di Irma Brandeis, studiosa americana, simile alla lontana e inafferrabile Laura petrarchesca; poi passa a colloquiare con Mosca, più concreta e vicina e infine  con Volpe che in realtà è come se rappresentasse il passaggio da un piano “angelico” ad uno più propriamente terrestre, divenendo molto meno inafferrabile delle precedenti. La donna montaliana diviene simbolo che reca in sé tesi e antitesi, positivo e negativo, funzionale e antifunzionale. Comporta attraverso alcuni “segni preziosi” la funzione di opporre alla degradazione e alla violenza del presente, qualcosa di “altro”, ma al contempo essa stessa distrugge questa funzione, e gli stessi segni diventano simboli di distruzione e morte. La donna è inoltre simbolo della poesia, che da un lato tenta di resistere, di offrirsi come ultimo dono civile in un mondo incivile, e dall’altro soccombe:

“..il lampo che candisce                                                                                                                                                             

alberi e muro e li sorprende in quella                                                                                                                                         

  eternità d’istante….”                                                                                                                                                                

Il lampo è dunque metaforicamente simbolo della verità che , attraverso la donna, si svela per un attimo nell’oscura tragedia della guerra e della storia in generale.  Una verità che come abbiamo detto non può essere attinta fino in fondo e ce lo dimostra la chiusa di questa poesia, con la donna che ritorna nell’oscurità del buio:

“…mi salutasti-per entrar nel buio.”

Eugenio Montale ci ha lasciato una profonda testimonianza della sua poetica; la testimonianza di un uomo, che tra classicismo e modernità è stato interprete critico e razionale del suo tempo, comprendendo a fondo le contraddizioni di una società tanto complessa come quella del Novecento e vedendo molto più lontano di tanti programmi ideologici proiettati nel futuro; lasciando aperto uno spiraglio di speranza, sebbene, come si è visto, Montale non fosse incline alla fede come Ungaretti.

 

 

 

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