‘Il filo nascosto’, l’ultimo capolavoro di P.T. Anderson che accosta con rigore narrativo i misteri della creazione artigianale a quelli dei rapporti di coppia

Mentre gli uomini amano svestire le donne, lo stilista Reynolds Woodcock, fulcro della moda britannica, che abbaglia anche la famiglia reale, ama vestirle per trasformarle in feticci privati di una volontà di dominio che le sublima nel momento in cui le imprigiona. Se Day-Lewis con il suo sguardo sfuggente ed enigmatico giganteggia –ancorché non gli giovi l’eccessiva affettazione del doppiaggio italiano- nel ruolo inventato a partire da figure storiche del cinico e anaffettivo protagonista di Il filo nascosto è perché P. T. Anderson gli costruisce attorno, appunto, come con l’ago, il filo e il centimetro, una tela di comportamenti, gerarchie, nevrosi e rituali su cui la cinepresa indaga cercando di scioglierne l’intrinseco rebus. Quasi sempre serrato nelle stanze del lussuoso edificio che riunisce abitazione e atelier del sarto più venerato della Londra anni 50, il film candidato a sei Oscar, ma in ogni caso già iscritto al novero dei cult-movie, utilizza il tema della moda come un mezzo anziché un fine, riuscendo ad avvicinare con una rigorosa strategia narrativa (sino a correre il rischio di estenuare gli spettatori) i misteri della creazione artigianale/artistica a quelli dei rapporti amorosi/morbosi di coppia.

Il fatto che il film pretenda e meriti un attenzione spasmodica è certificato dal titolo originale Phantom Thread, Il filo fantasma, perché la struttura registica opera come un campo magnetico dell’impenetrabile, il non detto o mostrato (come il sesso sempre relegato dietro porte chiuse) proprio come Reynolds cuce negli orli o le fodere degli abiti i suoi messaggi segreti. Quando nel cerchio magico della maison viene ammessa Alma (Krieps), una timida cameriera più vicina ai ritratti di Vermeer che ai cliché della “femme fatale”, s’avverte dapprima solo una scossa; tanto più che la giovane –non scacciata come le abituali amanti dopo qualche notte- è sottoposta all’inflessibile tutela della sorella dell’egotistico guru chiaramente ispirata al modello hitchcockiano dell’inquietante governante di Rebecca, la prima moglie. Diventata prima musa e modella e poi moglie, però, Alma diventerà una “donna che visse due volte” in grado trasferire tonalità fotografiche, suoni, musica, ritmi di ciascuna sequenza, se non inquadratura del film dalla commedia romantica al noir sadomaso. La genialità di Anderson sta nell’abolire le facili chiavi dello psicologismo per lasciare campo libero all’ovattata violenza dei giochi perversi che nei protagonisti fungono da contrappunto alle rispettive strategie di potere.

Il filo nascosto: la follia irridente di Anderson

Opaco e sinuoso, Il filo nascosto serve due attori indefettibili che si misurano sulla scena di un’epoca (gli anni ’50) sensibile alla seduzione cinegenica e in una relazione più complessa di quella che il quadro iniziale lasciava immaginare. Daniel Day-Lewis, maestro del linguaggio e della verità del corpo a discapito dell’eloquenza, trasforma il suo nel recettore di passioni di un personaggio privato di tante parole e dotato di un’aggressività a fior di pelle. Daniel Day-Lewis appartiene di fatto a quegli attori prossimi all’afasia, la cui rivolta sorda traspira dal corpo e la verità di un ruolo arriva necessariamente dall’interiore. Per l’attore inglese la performance è sempre un gesto da automatizzare, una vita da assimilare, una psicologia da dominare. A rischio di dannarsi. Questa intensità spiega una carriera e un ruolo, l’ultimo ha dichiarato l’interprete, che coltivano esigenza e rigore. Il ritratto di uno stilista senza concessioni, devoto alla sua arte, funziona come una metafora della maniera notoriamente intensa dell’attore di affrontare la sua. Il regista, che ritrova Daniel Day-Lewis dieci anni dopo Il petroliere, è d’altronde anche lui un maniaco assodato del dettaglio che aggiunge un’altra mano di senso a un’opera confezionata imbastendo sottotesti.

Alla maniera dei tessuti selezionati da Mr. Woodcock, gli ultimi tre film di Anderson assomigliano più a fili incrociati di trama e di ordito che alle vecchie costruzioni corali. Al climax violento o assurdo (il colpo di pistola di Boogie Nights o la pioggia di rane di Magnolia), subentra una follia lucida e irridente che minaccia i piani a ripetizione, che smarrisce gli sguardi nel fuori campo, che promette scarti, che disegna fughe interrotte. Come quella di Reynolds Woodcock davanti al sorriso enigmatico di Alma, che colloca il film tra veglia e allucinazione, lasciando planare il dubbio sul loro confine.

La determinazione di far cedere l’altro all’amore senza condizioni

Il regista di riferimento per Il filo nascosto è François Truffaut (sebbene siano più profondi sono i riferimenti letterari, come certi racconti di Henry James dominati dall’opposizione tra vita e arte e dall’attrazione-terrore per la donna), che Anderson ha descritto come l’unico in grado di “assalirlo emotivamente” perché “rispetta le regole, ma ad un certo punto ci butta sopra qualcosa di punk rock”. E il paragone è con un film di Truffaut in particolare: La mia droga si chiama Julie.
Sia Il filo nascosto che La mia droga si chiama Julie raccontano un’ossessione amorosa, o meglio, la determinazione di uno dei due personaggi a far comprendere all’altro la natura profonda dell’amore, e a convincerlo a cedervi senza condizioni. E in entrambi il grimaldello per sbloccare la relazione di coppia è il veleno. Ma le relazioni fra i personaggi sono diversamente incrociate. Ne La mia droga si chiama Julie infatti è Louis (Jean Paul Belmondo) ad essere così travolto dal sentimento per Julie (Catherine Deneuve) da accettare, come estrema prova d’amore, che lei gli somministri un topicida. Nel romanzo originale, Vertigine senza fine di William Irish, la morte dell’uomo era il finale. Nel film del terminalmente romantico Truffaut il finale suggerisce invece l’inizio di una nuova fase della storia d’amore fra Louis e Julie, quella in cui la donna si rende finalmente conto di potersi abbandonare a quell’uomo diverso da tutti quelli che l’hanno preceduto e al suo amore incondizionato, che come tale richiede una resa totale.

Il filo nascosto è dunque anche un autoritratto deformato attraverso il suo protagonista esteta-asceta, ma risulta essere proprio l’opposto di un gioco auto-referenziale: mentre riflette su di sé, si sporge sull’ignoto, affrontando il rapporto tra maschile e femminile come opposizione primaria e storica. La struttura da romance allegorico permette un’abbagliante riaffermazione delle potenzialità del cinema, che vanno molto oltre la semplice narrazione. Il filo nascosto è in equilibrio mirabile tra una fortissima sensualità (è come se il film cercasse di rendere visibile anche l’olfatto, il gusto, il tatto) e, a partire da essa, una dimensione teorica non astratta, ma fatta della sostanza di ciò che si vede. Anderson racconta il tentativo di creare una donna, che diventa invece il riconoscimento dell’altro e il riconoscimento della propria finitezza da parte dell’uomo; ma lo fa in maniera allusiva, in una parabola senza morale. Lo spettatore è continuamente spiazzato, fino a un epilogo quasi beffardo. Il film tuttavia non è mai cervellotico: se è impervio, è per l’intensità di ogni inquadratura, di ogni movimento di macchina, per la sottile ambiguità che attraversa ogni gesto, come leggere pieghe nel tessuto del film.

 

Fonti:  http://www.mymovies.it/film/2017/phantom-thread/

Il filo nascosto

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