L’Andalusia e il Museo Picasso di Malaga

L’Andalusia è la parte più meridionale del continente spagnolo ed è una delle 17 comunità autonome del paese. Solo uno stretto, lo stretto di Gibilterra, largo 14 chilometri separa l’Andalusia dall’Africa e collega il Mediterraneo con l’Oceano Atlantico. Si dice che l’anima della Spagna vive qui: l’Andalusia, che è soleggiata dal sole, è la regione più meridionale del regno spagnolo ed è nota per il suo piacere nel celebrare, gustare, mangiare e bere. Sherry o vino, olive o prosciutto, pesce o tapas: puoi goderti la cucina andalusa. Le coste dell’Andalusia sono un vero paradiso per la maggior parte dei turisti: spiagge splendide e apparentemente senza fine, una natura mozzafiato e naturalmente l’esclusiva cultura spagnola.

Una delle principali attrazioni è il Museo Picasso di Malaga. Dal 2003, il Museo Picasso si trova nel Palacio de Buenavista, che risale al XVI secolo ed è un tipico edificio andaluso. Fu costruito per fornire a Pablo Picasso nella sua città natale un palcoscenico appropriato per i suoi lavori. In totale, i visitatori del museo possono vedere oltre 200 opere dell’artista dotato nella mostra permanente del museo. La maggior parte delle opere sono state messe a disposizione del museo da Christine Ruiz-Picasso e Bernard Ruiz-Picasso. Oltre a disegni e dipinti, il museo ospita anche sculture e ceramiche.

Il Museo è gestito dalla Fundación Museo Picasso Málaga. L’eredità di Paul, Christine e Bernard Ruiz-Picasso mira a garantire che l’opera di Pablo Picasso sia preservata, esposta, studiata e divulgata. Essa concepisce il Museo Picasso Málaga come un centro di proiezione e promozione culturale e sociale, al quale i cittadini si recano non solo per godere del patrimonio, ma anche per partecipare ad attività educative e beneficiare dei servizi culturali. Juan Manuel Moreno Bonilla, Presidente della Junta de Andalucía, e Christine Ruiz-Picasso sono i Presidenti Onorari. Il Ministro della Cultura e del Patrimonio Storico, Patricia del Pozo, detiene la presidenza del Consiglio di fondazione, che oggi è composto da ventidue membri, con Christine e Bernard Ruiz-Picasso e Juan Alfonso Martos come patroni a vita. I Patroni esercitano la loro posizione a titolo gratuito.

Pablo Ruiz Picasso è nato il 25.10.1881 a Malaga. Suo padre José Ruiz Blasco era un insegnante di disegno. Dal 1898 ha assunto il nome da nubile di sua madre María Picasso y Lopez. È stato un bambino che ha persino messo in imbarazzo suo padre con il suo talento e all’età di 15 anni ha completato l’esame di ammissione all’Art Academy di Barcellona. Dopo un anno suo padre vide che Picasso era sotto-sfidato e lo mandò a Madrid. Lì non solo andò a scuola, ma visitò anche musei e pub di artisti, dove trovò ispirazione. Anche allora ha avuto le sue prime mostre di successo.

Dal 1901 viaggiò regolarmente a Parigi, l’allora capitale dell’arte; un esercizio obbligatorio per giovani aspiranti artisti. Influenzato e ispirato dagli impressionisti Cézanne, Dégas e Toulouse-Lautrec, iniziò a osservare e dipingere estranei della società. Picasso ha iniziato a sperimentare con i materiali. Nel periodo successivo ha inventato il collage e ha realizzato anche sculture che non erano solo fatte di legno, metallo o carta, ma anche di tutti gli altri materiali e oggetti immaginabili.

Ravvivando periodicamente, e quindi rivedendo la propria collezione, il Museo Picasso Málaga segue le orma di Picasso, il quale non ha smesso di innovare la propria arte per tutta la vita. Attraverso un percorso tematico e cronologico, la nuova narrazione espositiva nel Palacio de Buenavista permette al visitatore di approfondire la conoscenza del percorso artistico di Picasso, raggruppando le sue opere in modo da renderne possibile la comprensione dei processi lavorativi.

Così, nella sesta trasformazione avvenuta nelle sale del Palazzo Buenavista da quando il museo ha aperto i battenti nel 2003, saranno esposte fino al 2023 un totale di centoventi opere, frutto della trattativa che sancisce l’impegno del Ministero della Cultura e del Patrimonio della Junta de Andalucía con la Fundación Almine y Bernard Ruiz-Picasso para el Arte (FABA), che è stata ulteriormente rinnovata con un totale di 162 opere di Picasso che verranno aggiunte in questo periodo a i 233 della propria collezione della pinacoteca. La nuova distribuzione che il museo espone dal 1 giugno 2020 deve la sua particolarità ad un innovativo layout scenografico degli spazi museali.

Si compone di 44 dipinti, 49 disegni, 40 opere grafiche, 10 sculture, 17 ceramiche, 1 arazzo e 1 foglio di linoleum. Così, tra le 233 opere di proprietà del Museo Picasso Málaga e queste 162 della Fundación Almine y Bernard Ruiz-Picasso para el Arte (FABA), la collezione conta quasi quattrocento opere di Pablo Picasso datate tra il 1894 e il 1972, di cui 120 le opere sono esposte nel Palacio de Buenavista. Le opere esposte compongono un racconto espositivo che parte dagli anni formativi e percorre i momenti più rappresentativi della carriera dell’artista.

Oggi la maggior parte delle sue opere, oltre 200 dipinti, 160 sculture, collage, disegni e ceramiche sono nel Musée Picasso di Parigi.

 

Fonte

Andalusien, Picasso und ein Golfresort / L’Andalusia, Picasso e un Golfresort

‘Capolavori della Johannesburg Art Gallery Dagli Impressionisti a Picasso’ in mostra al Forte di Bard

Capolavori della Johannesburg Art Gallery. Dagli Impressionisti a Picasso, a cura di Simona Bartolena, è la mostra che il Forte di Bard ospiterà dal 14 febbraio al 2 giugno 2020. In esposizione, una selezione di 64 opere dallo straordinario valore artistico, provenienti dalla Johannesburg Art Gallery, il principale museo d’arte del continente africano.

La collezione nel suo insieme conta oltre cento opere tra olii, acquerelli e grafiche, che portano la firma di alcuni dei grandi maestri della scena artistica internazionale tra Ottocento e Novecento, da Degas a Dante Gabriel Rossetti, da Corot a Boudin e Courbet, da Monet a Van Gogh, da Mancini a Signac, da Picasso a Bacon, Liechtenstein e Warhol, fino ai più recenti protagonisti del panorama artistico sudafricano, primo fra tutti William Kentridge. Una serie inaspettata di capolavori che permettono di percorrere un vero e proprio viaggio nella storia dell’arte del XIX e XX secolo, spaziando dall’Europa agli Stati Uniti, fino al Sudafrica.

L’esposizione al Forte di Bard inizia con un’opera di Antonio Mancini, un ritratto a Lady Florence Phillips, fondatrice della Johannesburg Art Gallery e prosegue con le opere dell’Ottocento inglese tra cui i lavori del grande protagonista del romanticismo britannico Joseph Mallord William Turner, dei Preraffaelliti Dante Gabriel Rossetti e John Everett Millais e di Sir Lawrence Alma-Tadema.

Un nucleo di opere francesi della seconda metà dell’Ottocento sono le protagoniste della sala successiva: in esposizione la veduta delle falesie normanne di Étretat di Gustave Courbet, un piccolo gioiello che ben rappresenta la fase più vicina ai barbizonniers di Camille Corot e opere di François Millet e Henri-Joseph Harpignie.

Il percorso continua con la straordinaria novità del linguaggio impressionista delle opere di Monet, Sisley, Degas e Guillaumin e con alcuni protagonisti della scena postimpressionista, artisti che seppero prendere le distanze dalla lezione di Monet e compagni, suggerendo nuove ipotesi espressive e nuove strade alle generazioni successive. Notevole spazio ha in mostra il pointillisme, lo stile nato dalla radicalizzazione delle teorie impressioniste, grazie alla presenza di due capolavori di Paul Signac (un acquerello e lo splendido La Rochelle), un paesaggio di Lucien Pissarro, figlio dell’impressionista Camille, in bilico tra nuove ricerche e memorie della pittura paterna, e un importante lavoro di Henri Le Sidaner.

Segnano, invece, il passaggio al XX secolo i disegni di due grandi scultori: Auguste Rodin e Aristide Maillol. L’arrivo nelle collezioni della Johannesburg Art Gallery di opere datate al Novecento è piuttosto tardivo grazie ad acquisizioni e donazioni successive. In mostra, al rigore del ritorno a una figurazione dagli accenti tradizionali di André Derain fanno da contrappunto l’approccio già avanguardista di Ossip Zadkine, in bilico tra sintesi cubista e recupero di una rinnovata solidità classica, e l’inconfondibile eleganza del segno di Amedeo Modigliani. Quattro grafiche e una significativa Testa di Arlecchino a matita e pastello raccontano la ricerca di Pablo Picasso.

Il percorso nelle avanguardie prosegue con la ricerca sensuale e luminosa di Henri Matisse, presente in mostra con tre notevoli litografie.
La collezione storica dedicata al secondo Novecento è frutto di acquisizioni e donazioni recenti e comprende, oltre che lavori di artisti locali, anche opere di europei e statunitensi. La mostra ne ospita quattro significativi esempi: un tormentato ritratto maschile di Francis Bacon, un intenso carboncino di Henry Moore, e due capolavori pop di Roy Lichtenstein e Andy Warhol.

L’ultima sezione della mostra è dedicata all’arte africana contemporanea che ricopre un ruolo importante nel percorso espositivo: una vera scoperta, un’occasione per incontrare una realtà pittorica ben poco nota al pubblico europeo.

La collezione della Johannesburg Art Gallery 

Aperta al pubblico nel 1910, la Johannesburg Art Gallery è il principale museo d’arte del continente africano e ospita una collezione di altissima qualità.

Principale protagonista della nascita e della formazione della collezione fu Lady Florence Philips. Nata a Cape Town nel 1863, si trasferisce a Johannesburg dopo il matrimonio con Sir Lionel Philips, magnate dell’industria mineraria. La galleria, finanziata da investimenti del marito e di alcuni altri magnati, nasce con l’obiettivo di dotare la sua città di un museo d’arte, convinta di voler trasformare quello che all’epoca era un centro minerario in una città improntata al modello delle capitali europee. La nascita di una galleria d’arte pubblica sarebbe stata inoltre un’opportunità di crescita culturale per tutta la popolazione oltre che fattore di prestigio per l’alta società locale.

Altra personalità che ebbe una parte rilevante nella fondazione del museo fu Sir Hugh Percy Lane, esperto d’arte e mercante anglo-irlandese. Già curatore per la Municipal Gallery of Modern Art di Dublino, fra i primissimi estimatori e collezionisti dell’Impressionismo francese, aiutò Lady Philips nell’impresa, consigliando possibili acquisizioni.

Fino dalla sua apertura, il museo presenta una selezione di opere di straordinaria qualità e modernità, un nucleo arricchitosi negli anni, grazie a nuove acquisizioni, lasciti e donazioni.

 

La collezione d’arte Rockefeller andrà in questa primavera all’asta per beneficenza

La collezione d’arte del magnate David Rockefeller andrà all’asta nella tarda primavera. Christie’s si occuperà della vendita di più di 2.000 oggetti del banchiere filantropo, inclusi pezzi di arte moderna, porcellane cinesi, quadri americani e mobili europei. Il ricavato dell’asta, considerata una delle più importanti del secolo, sarà distribuito fra una decina di organizzazioni di beneficenza legate a cause culturali, educative, mediche e ambientali a lungo sostenute da David e Peggy Rockefeller. Secondo alcune stime preliminari, con la vendita potrebbero essere raccolti fino a 500 milioni di dollari, una cifra superiore ai 484 milioni di dollari dell’asta della collezione di Yves Saint Laurent, definita finora l’asta del secolo. I Rockefeller continuano così la loro lunga eredità di filantropia. Raccolti da una vita e tramandati dalle generazioni precedenti, gli oggetti della collezione riflettono la profonda e lunga passione di tutta la famiglia per opere d’arte impressioniste, post impressioniste e moderne, dipinti, opere d’arte asiatiche, ceramiche europee.

Data l’assoluta eccezionalità dell’occasione, Christie’s ha organizzato un tour mondiale della collezione che a partire da Londra (dal 21 febbraio all’8 marzo) passerà per Pechino (dal 6 al 7 di aprile) per tornare negli Usa e in Cina, fino alla data in cui verrà sottoposta al martello del battitore in tarda primavera al Rockefeller Center di New York.

Si sa, il ruolo delle case d’asta è fondamentale per tutto l’andamento del mercato e del sistema dell’arte contemporanea, considerando che il timone è retto dal trio Christie’s, Sotheby’s e Phillips de Pury. Innanzi tutto per le loro dimensioni in termini quantitativi e geografici – attirando acquirenti da tutto il mondo ed avendo sedi dislocate in più paesi (le principali a New York, a Londra e in Cina) -, e in termini di fatturato, il quale determina la concorrenza e la predominanza di una casa e una piazza rispetto all’altra. Il loro carattere e il loro potere è di fatto internazionale, o meglio mondiale, e contribuisce a rinforzare il fatto di essere la leva per il successo di determinati autori e correnti artistiche.
I risultati d’asta, anche delle altre case minori, sono pubblici e consultabili dalle banche dati. Risulta così possibile poter conoscere qual è il prezzo di aggiudicazione di un’opera e poterne fare un confronto con i prezzi del mercato primario e delle gallerie. Dato un numero sufficiente e costante di transazioni, si può calcolare l’indice di un artista e iniziare a ragionare, con dati alla mano, anche in termini di investimento economico.

David Rockefeller è il nipote di John Davidson Rockefeller, il primo billionare d’America, detentore di quel monopolio del petrolio che aveva permesso al Paese di prosperare assicurandogli energia a un costo relativamente basso. La famiglia era proprietaria del famoso Standard Oil Building, definito dagli americani The world’s most famous business address, che si trovava al numero 26 di Broadway. L’edificio passò di mano durante la crisi del ’29, quando la famiglia soffrì di alti e bassi finanziari, che mai riuscirono però a intaccare del tutto la sua fortuna. Essere miliardari nell’America del secolo scorso significava coniugare la ricchezza con la filantropia e con la condivisione a favore della collettività. Si deve al padre di David la costruzione della Riverside Church, celebre per le prediche di Martin Luther King, e il notissimo Rockefeller Center nel centro di Manhattan: gli uffici della compagnia di famiglia si spostarono nel dopoguerra al Rockefeller Plaza, conosciuta come 30 Rock, dove l’azienda occupava tre piani, chiamati da tutti Room 5600.

Se la storia dei Rockefeller fa sognare, lo fa ancora di più la sua splendida collezione. La fortuna ereditata permise a David di accumulare nel dopoguerra una collezione comprendente opere della migliore arte europea (dagli impressionisti francesi ai cubisti), dell’arte moderna americana, per arrivare a includere anche pezzi d’arredamento assolutamente eccezionali, dalle porcellane cinesi, agli argenti, ai mobili vintage statunitensi. La tradizione culturale della famiglia d’altro canto era eccellente: la madre di David aveva messo parte delle sue energie e dei suoi capitali nella costruzione di una cultura rivolta all’arte contemporanea nel suo Paese. A questo scopo aveva fondato il primo museo ad essa dedicata nella storia degli Usa, ovvero il Moma, in uno degli edifici della famiglia al 10 West della 54esima strada.

David non poteva non figurare nella lista dei principali donors del Moma. La leggenda vuole che grazie all’amicizia con l’ex direttore del museo, Alfred Baar, poté costruire gran parte della sua collezione personale, in cui entrò anche l’arte d’avanguardia europea. Il collezionismo di David Rockefeller si configurava innanzitutto come attività privata, ma anche pubblica, che avvalorava l’immagine dell’uomo dotato sì di grande abilità negli affari, ma anche di grande lealtà e serietà. La filantropia era una parte integrante della figura pubblica, in cui egoismo e capacità di essere benefattore costituivano due facce della stessa medaglia. E la beneficenza era anche il viatico per amicizie politiche di rilievo, fra le quali quelle con Henry Kissinger e George H.W. Bush.

Una delle famiglie più potenti del mondo, che da secoli, con i Rothschild, plasmano in silenzio il mondo così come lo conosciamo, influenzando le decisioni politiche, l’economia e le guerre tra le nazioni, nascondendosi dietro una maschera eroica, ha scritto un’altra bella pagina di filantropia che ricorda quella utilitaristica, non caritatevole, praticata da donna Prassede, moglie di Don Ferrante, nei Promessi Sposi.

La collezione messa all’asta presenta alcuni lotti di pittura dal valore inestimabile: come un’opera di Eugène Delacroix, Tiger playing with a Tortoise del 1862, stimata dai 5 ai 7 milioni di dollari, di rara e eccellente fattura; oppure un’opera di John Singer Sargent, di soggetto veneziano, (San Geremia del 1913) stimata valere dai 3 ai 5 milioni di dollari. Di assoluta eccellenza è infine la collezione nelle porcellane cinesi, tra cui un servizio da cena Tobacco leaf del 1775, valutato attorno ai 200-300 mila dollari. Il catalogo completo dell’asta sarà consultabile all’inizio della touring exhibition.

Perché l’arte contemporanea monopolizza i Musei?

Soprattutto negli Stati Uniti, le mostre di arte contemporanea attraggono più delle altre e stanno progressivamente relegando ai margini l’arte del passato, con importanti conseguenze per il mondo dell’arte. Per gli americani che amano l’arte di Hans Holbein, Édouard Manet, Georges Braque e Paul Klee, si prospettano tempi bui. Erano tutti brillanti artisti, ma nessuno di loro ha un nome famigliare come quello di Claude Monet o di Pablo Picasso. Dopo anni di declino dell’educazione alle arti, solo gli artisti più celebri sono riconosciuti dal grande pubblico, e sono ormai gli unici in grado di attrarre il grande pubblico nei musei. Questo, però, è un problema per gli artisti del passato.

Gli effetti sono già ben visibili. In generale gli ingressi ai musei negli Stati Uniti sembrano non subire cali. Negli ultimi tre anni, i 242 musei affiliati all’Associazione dei direttori dei musei d’arte hanno attirato ogni anno oltre 60 milioni di visitatori. I sondaggi condotti dalla National Endowment for the Arts indicano che, nel 2015, il 19 per cento degli adulti ha visitato una mostra d’arte in un museo o in una galleria. Poi però c’è quest’altro dato, più preciso: tra il 2007 e il 2015, quasi la metà delle mostre presso i maggiori musei degli Stati Uniti sono state dedicate a opere d’arte prodotte dopo il 1970 – lo mette nero su bianco The Art Newspaper, che ogni anno classifica i temi e la partecipazione alle esposizioni più importanti. E sono le esposizioni, non le collezioni permanenti, che attirano la maggior parte dei visitatori dei musei.

“Appena 20 anni fa”, dice il documento: “l’impressionismo è stato il re; nessuna mostra contemporanea è entrata tra le prime dieci esposizioni più visitate nei musei statunitensi[…]. All’epoca, solo il 20 per cento circa delle mostre organizzate dalle istituzioni statunitensi era dedicato all’arte del loro tempo”. L’anno scorso, invece, sette delle prime dieci riguardavano l’arte contemporanea, sempre secondo le stime del giornale, che stilando la classifica misura la frequenza media giornaliera piuttosto che quella totale. Si utilizzano cifre lorde rispetto alle presenze: quattro delle prime dieci mostre erano contemporanee; quattro erano di arte moderna e solo due erano precedenti al ventesimo secolo. La ricerca, condotta in collaborazione con il Centro Nazionale per la Ricerca delle Arti della Southern Methodist University di Dallas, è giunta a una conclusione chiara: i musei che organizzano mostre d’arte contemporanea attraggono più persone rispetto a quelli che presentano una programmazione “equilibrata” che include anche mostre di arte storica. Questo, è come se stessimo rinunciando a Mozart. O lo sarebbe, se Mozart venisse scartato in favore di Du Yun o Henry Threadgill – i due vincitori più recenti del Premio Pulitzer per la musica. Ma non è così. All’opera spadroneggiano ancora Mozart, Verdi e Puccini, mentre i lavori di compositori viventi sono difficili da vendere. Le compagnie di ballo vendono spettacoli come Lo schiaccianoci e Il lago dei cigni di Tchaikovsky, ma chiedono al pubblico di partecipare a programmi di danza contemporanea. Le sale sinfoniche degli Stati Uniti diventano affollate quando le opere di classici come Beethoven fanno parte del programma, ma rimangono semivuote quando a suonare è la musica classica contemporanea.

Discipline del genere hanno ovviamente dei problemi di ricezione. Probabilmente i programmi più popolari nelle sale da concerto degli Stati Uniti sono quelli che offrono temi cinematografici, musica per videogiochi e simili – musica che piace alle giovani generazioni. Il pubblico di base, quello che ama Mozart e il suo genere, è invece pigro e ingrigito, anche quando le orchestre e le compagnie liriche si sforzano di portarlo verso la musica classica più recente.

Un fenomeno quasi opposto a quello che prende piede nell’arte visiva, dove curatori e registi lottano per rendere “la vecchia arte” “rilevante”, qualunque cosa questo voglia dire, ma l’arte contemporanea ha la meglio proprio perché è prodotta nel presente. Secondo il detto popolare, l’arte contemporanea è più “accessibile” al pubblico, anche se alcuni direttori museali ammettono che questo possa far fraintendere la situazione. Piuttosto, l’arte contemporanea sembra più accessibile perché i curatori sono restii ad attribuire un significato a un’opera d’arte. Le definizioni ricadono invece sulla descrizione delle proprietà fisiche e dei processi, e sta agli spettatori trovare il proprio significato.

Questa ambiguità – che l’arte può significare qualsiasi cosa lo spettatore voglia – rende l’arte contemporanea maggiormente attraente per un pubblico più ampio. Non c’è bisogno di imparare la storia, i personaggi o i simboli che gli artisti di vecchi ritratti hanno impiegato nelle loro opere. E quindi non c’è nessun motivo per sentirsi carenti in materia. Accanto a questa semplicità, che tende a non far sentire inadeguati gli spettatori, c’è un aspetto che riguarda l’esperienza coinvolgente e la spettacolarità dell’arte contemporanea, che attira in particolare i giovani. Pensate alla performance di Marina Abramovic The Artist is Present al MoMA di New York nel 2010, Rain Room, sempre al MoMA, nel 2013 e al Los Angeles County Museum of Art dal 2015 al 2017, e a Infinity Mirrors di Yayoi Kusama al Hirshhorn Museum of Art di Washington avvenuta quest’anno. In queste occasioni le persone hanno aspettato in fila per delle ore pur di poter stare dai 20 ai 30 secondi all’interno di ognuna delle tante camere fatte di specchi. Questi racconti generano l’attenzione dei media, che a sua volta crea più visitatori, sospinti dal timore di non poterci andare.

Anche l’impennata del mercato dell’arte, gonfiato dai prezzi record fissati per le opere di Andy Warhol, Koons e così via, contribuisce a questo stato di cose. Vendite del genere conquistano i titoli dei giornali, ed ecco che la curiosità dei lettori li spinge a interessarsene, per vedere di cosa si tratta. Gustav Klimt, Alberto Giacometti e alcuni altri artisti defunti ormai da tempo si sono trasferiti nel regno dei nomi noti che attirano i visitatori nei musei. Tutti vogliono vedere la donna dorata di Klimt, il ritratto di Adele Bloch-Bauer I, costata a Ronald Lauder 135 milioni di dollari. Ma un grande lavoro di Holbein o Manet, che potrebbe fare notizia, non viene messo in vendita così spesso. Ci sono altre ragioni per cui i musei espongono più arte contemporanea: è collezionata da molti investitori, che spingono (e finanziano) le mostre; ed è realizzata da un gruppo di artisti più diversificato rispetto al passato, quando le donne e le persone di colore erano escluse dagli ambienti artistici e dalla storia dell’arte, il che permette ai musei di correggere uno squilibrio storico – una mossa gradita. Inoltre le mostre di arte contemporanea risultano spesso più economiche da allestire. Anche per queste ragioni i laureati in storia dell’arte, quelli che intendono lavorare da curatori, si concentrano sempre di più sull’arte contemporanea.

Ma quando questi fattori si combinano e distolgono l’attenzione da alcune delle più grandi opere d’arte del mondo, la nostra conoscenza delle civiltà passate si indebolisce. Conoscere meno tempi e luoghi diversi dal nostro significa che la nostra conoscenza della natura umana diventa sempre più fragile. In breve, ci facciamo meno colti. E oltre a sprecare l’occasione di godere del puro piacere di vedere qualcosa di esteticamente soddisfacente come, ad esempio, un capolavoro di Albrecht Altdorfer o di Luis Meléndez – per citare solo due degli artisti grandiosi che dovrebbero godere di maggiore attenzione – si perde un legame che dovrebbe arricchire l’esperienza dell’arte contemporanea stessa. E ovviamente, ogni volta che la cultura si contrae, abbiamo tutti da perderci.

 

(Questo testo è la traduzione italiana di un articolo precedentemente uscito su Aeon sotto licenza Creative Commons)
di Judith H Dobrzynski)

 

Fonte: http://www.indiscreto.org/perche-larte-contemporanea-monopolizza-musei/

 

 

Per chi suona la sinistra. Renzi che si crede Maradona recluta Hemingway e Picasso per le primarie

Militante PD: Forza signori, forza, qui c’è la vera sinistra, ripeto, fresca di giornata, la vera sinistra signori, accorrete prima che finisca! Venghino signori, venghino! Ernest Hemingway si avvicina, incuriosito dalla scritta sopra il banchetto: Lingotto fiere, per chi suona la sinistra. Gli ricorda ovviamente il titolo del suo capolavoro, Per chi suona la campana. Decide di provare a entrare: Mi scusi, cosa succede qua dentro?

Militante PD: Lei chi è?
Hemingway: Io? Ernest Hemingway, lo scrittore, credo che abbiate ripreso il titolo del mio libro.
Militante PD: Come no! Vuole una tessera della sinistra?
Hemingway: Dipende che sinistra siete.
Militante PD: Aspetti guardo cosa è rimasto. Abbiamo queste – e l’assistente si passa tra le mani una tessera con scritto Pd, una con scritto Campo progressista, una con Sinistra italiana, una con Possibile, una con Articolo 1 – Movimento democratici e progressisti, poi di nuovo Pd, però è la sinistra burocratica di Orlando, e ancora Pd, però quella populista-rancorosa di Emiliano.
Hemingway è un po’ spaesato: Scusate, ma la sinistra non è una sola?
Il Militante PD ride: Ma lei da dove viene? Mica siamo in America, dove c’è il Partito democratico e basta: lì state uniti per vincere, qui ci dividiamo per vincere tutti…
Hemingway: … una poltrona in Parlamento.
Militante PD: Certo! Comunque le posso consigliare la sinistra di Renzi, la provi, ottima, moderna, veloce, mai concreta, praticamente si scioglie in bocca, le sembrerà di non sentirla.
Hemingway ci pensa un attimo: Sono un po’ perplesso.
Militante PD: Non sarà mica un gufo?
Hemingway: Come?
L’assistente lo capisce subito, non è un renziano, e corre dentro. Hemingway lo vede ritornare con Renzi.
Matteo Renzi: Carissimo Ernest come stai? Sono Matteo. Let’s call me Matthew!
Hemingway: Ma quello è Moby Dick!
Renzi: Esatto, la balena bianca, come la Democrazia cristiana che voglio rifare, non ti sembra grandioso? Entra, altri grandi ti hanno preceduto.
Hemingway decide di entrare, più per curiosità, che per convinzione.
Renzi: Ti vedo perplesso, non trattarmi come le tue mogli, mi raccomando!
Hemingway: In che senso?
Renzi: So che ne hai cambiate 4, non vorrei che avessi dubbi pure sul PD.
Hemingway: Resisterò stoicamente, come i miei personaggi.
Renzi: Bravo Ernest, anch’io mi sono sempre immedesimato in Robert Jordan, il tuo eroe di Per chi suona la campana, che si sacrifica per la causa. Anch’io sai avevo detto che lasciavo la politica, ma il Paese che farebbe senza di me? Io, come Jordan, rimango e lotto per gli altri, fosse per me mica rivorrei sedermi a Palazzo Chigi, ma gente come me deve eroicamente sacrificarsi.
Hemingway: Immagino quanto sia pesante per te, tutto quel potere, quei soldi, quel narcisismo.
Renzi: Esatto – non capisce l’ironia Renzi – abbiamo bisogno di intellettuali che ci capiscano.
Hemingway: Ci? Chi?
Renzi: Noi, noi Renzi.
Hemingway: Noi popolo renziano.
Renzi: No, no, noi Renzi, plurale magistratis.
Hemingway: Maiestatis vorrà dire?
Renzi: Perdoni il lapsus, sa vicende familiari.
Hemingway: Comunque chi sono questi intellettuali?
Renzi: Certamente, vieni che ti presento Pablo. – e lo porta dietro le quinte del Lingotto, dove un uomo è intento a portare un quadro nel camerino di Renzi – Segui lui, è il mio programmista, Pablo.
Hemingway segue quell’uomo chiamandolo: Pablo!

Quello si gira… E’ Picasso! Pablo Picasso!
Hemingway: Pablo, ma che ci fai qui?
Pablo Picasso: Sto portando il programma del Pd al segretario uscente.
Hemingway: Ma questo è un quadro!
Picasso: Sì, puro cubismo.
Hemingway lo osserva: Ma non si capisce nulla.
Picasso: Esatto… è il programma del PD.

Intanto dal palco si sente la voce di Graziano Delrio, ministro dei trasporti e delle infrastrutture, dire: E adesso salutiamo “el politico de oro” Diego Armando Maradona!

Renzi entra trionfale con la maglia del Napoli e un pallone ai piedi. Sia Hemingway che Picasso, ormai spostatisi sugli spalti, si girano…
Picasso: Si è dimenticato il programma! Ce l’ho qui il quadro!
Hemingway: L’ha chiamato Diego Armando Maradona e non se n’è accorto nessuno!

Picasso però sembra entusiasmarsi e urla: Passa! Passa!
Tutta la platea intanto urla Diego, Diego verso Renzi e questi, dando sfoggio di sé, tira una pallonata fortissima verso il pubblico… Il pallone prende in pieno il quadro di Picasso e trapassandolo colpisce in pieno la faccia del pittore scaraventandolo all’indietro.

Hemingway: Pablo! Il programma!
Ma la folla non se ne accorge neppure.

Hemingway trascina via il ferito, ma lascia stare il programma, cioè il quadro, perché Picasso prima di svenire gli dice: Lascia stare il quadro, tanto il programma di Renzi… è Renzi e basta, e la squadra di Renzi è sempre solo Renzi. Diego la palla la passava, era un leader ma non era egocentrico.

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