Pier Vittorio Tondelli e il Postmoderno

Pier Vittorio Tondelli e il Postmoderno sono senza dubbio due capitoli che si intrecciano nella storia della letteratura italiana contemporanea. Tondelli è uno di quegli autori che vive nei cuori di lettori vecchi e nuovi e le cui pagine costituiscono tutt’oggi oggetto di molteplici interpretazioni. Pigmalione per gli Under 25, critico, autore poliedrico ed eclettico e che come pochi ha vissuto, interpretato e partecipato al funambolismo degli anni ’80. Molto si è detto di quel decennio banalmente siglato all’insegna della moda, della Milano da bere, del rampantismo ma gli anni ’80 sono anche quelli della Bologna del Dams e dei suoi fermenti. La stessa Bologna di Andrea Pazienza ha rappresentato uno stile di vita alternativo nell’immaginario di coloro che al pop preferivano il punk e tutto ciò che fosse underground. Tondelli ascolta, vive, viaggia senza pregiudizi o snobismi intellettualoidi. Lo si evince dai suoi romanzi mai uguali per trame, personaggi e ambientazioni. E poi c’è la musica. Ovunque nelle pagine dell’autore di Altri Libertini (1980) è ravvisabile un invito al lettore: non ci si può perdere nelle pagine tondelliane senza un’adeguata colonna sonora.

Nel passaggio tra gli anni ’70 e ’80, l’autore emiliano è stato considerato da Linea d’ombra e non solo, un confusionario qualunquista poiché si è sottratto con decisione alla politica. Così i libertini di Tondelli sono stati a lungo reputati degli eretici. Per i sessantottini, che negli anni ’80 continuano a preservare una visione completa del mondo, il narcisismo dei nuovi artisti che si affacciano sulla scena è quasi irritante. Il problema che emerge nei controversi anni ‘80 è che sono cambiati i modelli, non più Bakunin o Castro, ma Proust, l’autore che ricostruisce la propria vita nella solitudine della propria camera.

Tondelli vent’anni dopo la contestazione e le sue utopie vive il capitolo successivo della storia, quando la rivoluzione si è dissolta in una sorda solitudine e in una stanca posa. Enrico Palandri (uno degli studiosi più sensibili e attenti) colloca l’opera di Tondelli all’interno di un contesto culturale costituito da quegli intellettuali che si sono lasciati dietro il movimento degli anni ’70. Tuttavia senza un’adeguata contestualizzazione storica e culturale, il patrimonio tondelliano non sarebbe pienamente comprensibile e apprezzabile.

A cominciare dalla seconda metà degli anni 70, l’underground radicale scende in grotte profonde. Gli ambienti antagonisti si fanno chiusi e intransigenti, le scene alternative quasi semi-clandestine, mentre il mainstream, sempre più eccitato e a caccia di nuove tendenze per il mercato, agisce come nuovo agente di controllo sociale. Il Postmoderno ha contribuito a condensare la realtà e ogni generazione la affronta a uno stato diverso.

In Tondelli è ben radicata la consapevolezza postmoderna, una certa commistione di linguaggi diversi e codici espressivi, con la conseguente cancellazione di qualsiasi gerarchia all’interno dei tradizionali generi letterari.

L’autore di Correggio scrive: ‘Il postmoderno confonde immagini, atteggiamenti, toni con la prerogativa non già di sconfessarsi ciclicamente nel passaggio da un look all’altro, quanto piuttosto di trovare un’inedita vitalità espressiva nel fluttuare delle combinazioni dei detriti vestimentali’.

La generazione eretica del ’77, come spesso è stata definita, è quella degli sconfitti dalla storia. Non si dimentichi che sono gli anni di piombo e della stagflazione che paradossalmente confluiscono verso un nuovo ellenismo e con il telecomando a portata di mano. Tondelli scrive di ‘un postmoderno di mezzo’, di una fauna vagabonda in cui tutto è mischiato, sovrapposto e confuso. Che si tratti di giovani discotecari o dell’underground, entrambe le categorie giovanili condividono la medesima consapevolezza: quella di un futuro centrifugato nelle perdite di senso. Dinanzi allo sgretolamento dei linguaggi, unico mezzo di sopravvivenza resta dunque il gioco dei travestimenti

In questo nuovo panorama, oggi tornato alla ribalta, Tondelli percepisce una dicotomia: un destino di solitudine attraversa le esistenze. È qui che egli realizza la sua vocazione di scrittore, attraverso la consapevolezza che la scrittura avrebbe costituito il parametro con il quale si sarebbe rapportato alla realtà, non da protagonista bensì da osservatore.
Spesso egli è stato etichettato come lo scrittore simbolo degli anni ’80, solo perché la sua produzione copre l’intero decennio. Al contrario, Tondelli ha avvertito a fior di pelle l’aprirsi di una nuova stagione, ha sperimentato la crisi della letteratura e ha scelto la leggerezza (apparente), proseguendo sulle orme di Arbasino e Citati. Rispetto ai suoi contemporanei egli appare più consapevole sulla postmodernità. Così tenta di recuperare un rapporto con la scrittura e la letteratura più concreto, vicino alla vita delle nuove generazioni. Sarebbe doveroso operare una dereificazione di Tondelli, per ristabilire un’adeguata storicità senza cristallizzazioni critiche concepite dal mercato dell’editoria e che spesso hanno mortificato il suo talento e le ragioni più profonde della sua vasta, oltre che poliedrica, produzione letteraria.

Tondelli attraversa trasversalmente le storie non la Storia, imbevuto di musica ed arte come d’altronde i suoi coetanei della Bologna del Dams, fucina creativa che egli frequenta, osserva e descrive. Tutto di quei primi anni confluisce nel suo primo romanzo Altri Libertini (1980) che divise i lettori e anche la critica.

Lo scrittore emiliano con le sue opere ha di fatto immesso nella letteratura soggetti fino ad allora esclusi, pensiamo alla fauna di Altri Libertini o a Camere Separate o Pao Pao. I soggetti non normalizzati, i non- luoghi estranei all’antropologia della contemporaneità, sono le ambientazioni elettive: le stazioni e i treni, le osterie ma anche gli ostelli del Nord Europa e i pub di Londra.

Per comprendere Tondelli e l’umore della sua pagina è necessario constatare che la sua voce nasce da lì. Rivolto alle influenze più disparate, è la mobilità intellettuale ad alimentarne la scrittura. Ma proprio questo eclettismo è stato scambiato dalla critica per discontinuità.

Tondelli ha cercato di raccontare un modo di essere nel proprio tempo, legato alla scrittura, quale luogo di formazione e ricerca. Resta uno scrittore col quale il mondo letterario continua a confrontarsi perché ha contribuito a spostare la letteratura italiana dalla crisi delle avanguardie ad un riguadagnato piacere della narrazione. Stile scintillante, libero da schemi e codici espressivi che l’autore emiliano sottrae a qualsiasi gerarchia all’interno dei generi letterari, innestato in un personale cammino esistenziale.

Ed eccoci al ‘vischioso male’, quel sentimento che vanifica la celebrazione di un mondo carnevalesco, innescando un meccanismo autodistruttivo. Pertanto le parole mutano nella sua pagina in carne e fisicità, e in quanto tali a volte risultano perturbanti. Parole come cose non come segni. Tondelli la cesella come un poeta dominato da passioni. La parola cessa di significare nel suo uso domestico e trabocca dalla pagina. Egli riesce come pochi a stipulare un patto coi lettori e la pagina pulsa e vibra. Come uno gnostico-pop racconta il vuoto, comunica l’esperienza sino alla ricerca del silenzio.

Quelle di Tondelli sono delle polaroid e anche quando il mondo è poco accogliente egli non cessa di cercare una sorta di abbraccio in cui ritrovare il proprio centro. Un senso di sospensione e di gestualità bloccata determinano uno strappo con la vita, che si verifica attraverso la consapevolezza di una solitudine senza rimedio quando un artista si rapporta con le increspature della realtà.

Sovviene l’immagine del suonatore di sax in Rimini, il suo lamento solitario e malinconico, al ritmo del proprio cuore sprecato. Tondelli è un autore che scuote il lettore emotivamente e salva la propria vita attraverso la parola e i suoi silenzi

Io mi sento che tutti mi leggono dentro come fossi di vetro che non ho più nemmeno un angolo in cui tenerci il cuore. Mi fanno male gli occhi della gente, ora sono qui tutto terremotato di dentro e piango una lacrima sull’altra che non so da dove vengono fuori, però escono e sembran mare, salate e blu’ .

L’opera tondelliana continua ad esercitare la sua attrazione su critici e lettori poiché si configura come un microcosmo con le sue sezioni d’infinito che possiede soluzioni illimitate. Infinite sono le declinazioni che può avere la solitudine, un abbandono o un incontro. E nelle storie e nelle parole si trovano immagini che hanno il suono di una poesia che ci appartiene, di una voce che è anche nostra.

Dieci giorni, di Maura Chiulli

Dieci giorni di Maura Chiulli, classe 1981, ha la forza di un pugno nello stomaco. I tre episodi che compongono il romanzo sono storie estreme che coinvolgono protagonisti altrettanto al limite. Tuttavia il sapore acre delle pagine, a tratti, lascia fuggire uno spiraglio di dolcezza e speranza che però fa subito i conti con il cinismo della vita, sempre pronta a chiedere lo scotto.

Il corpo, i corpi assetati, maltrattati, umiliati invocano amore o anche solo una tregua ma inesorabilmente sono piegati dall’effimera sessualità. Ciò sembra tradursi in una carneficina dei protagonisti sino all’alienazione. I personaggi di Dieci giorni sono mossi dalla volontà di rimuovere un passato o un’infanzia segnati da soprusi o da miseria affettiva. Il corpo, che sia usato, esibito o desiderato, è un oggetto/soggetto di un eccesso che Maura Chiulli spinge al limite per sollevare, con un colpo secco, l’ipocrisia che si cela dietro la maschera della borghese normalità. Le vicende narrate sono attraversate da inconfessabili segreti che come fantasmi appaiono all’improvviso a turbare i protagonisti ma anche il lettore catapultato in flash-backs inattesi e intensi.

La scrittura di Maura Chiulli è minimale, ruvida e dai forti chiaroscuri. L’autrice non adopera orpelli retorici, parole che addolciscano la pena, no, Maura Chiulli si dimostra coraggiosa nella scelta delle storie e nello stile narrativo adottato. Infatti esso risulta diretto, provocatorio e contro ogni perbenismo.

In un panorama letterario troppo melenso e autoreferenziale, si avvertiva la mancanza di un’autrice che, come in questo caso, si imponesse con vigore ma anche con talento.

Le descrizioni nonostante siano scarne ed essenziali rifuggono dallo straniamento e al contrario riescono a coinvolgere il lettore. Quest’ultimo, di volta in volta, è lì con Lulù e Silvia o con gli altri personaggi e il pathos è un sapore che si avverte nelle narici. Le tre sezioni sono un climax narrativo che attraversa tre realtà, tre nuclei narrativi apparentemente autonomi tra loro, sebbene un sottile filo rosso etico e drammatico le affratella.

E c’è l’orrore di corpi abusati e di dolori taciuti ma che restano sulla pelle del lettore e attraversano a tratti le vene. Senza moralismi o facili pietismi, questi personaggi così distanti, in realtà in parte ci abitano nel loro bisogno estremo di riscattare le contraddizioni della vita e del suo cinismo.

La riflessione sui corpi, la sessualità e le patologie edipiche investono la generazione postmoderna, i cui padri, figli del boom economico e del ’68, sembrano aver lasciato ben poco in eredità se non solitudine e rassegnazione. Due sorelle che si trascinano anche in questa nostra epoca di ipersimulazione, di accelerazione costante, di solitudini celate in tutto ciò che è high e iper, che rendono lo schianto esistenziale un urto feroce.

Non mi capitava un romanzo come Dieci Giorni, con le sue storie, personaggi randagi e una scrittura così acre, ‘pulita’, fuori dai denti, dai bellissimi tempi di Altri Libertini di Pier Vittorio Tondelli.

E nella penombra di queste vicende, in modo impercettibile, quasi come un sussurro Maura Chiulli concede parentesi di poesia dedicate alle speranze e al destino ma sono parentesi di vita breve. Nell’amaro del quotidiano è una concessione alla quale la scrittura si abbandona per poco. Nessun narcisismo né tanto meno autocensura, una scrittura immediata, dura, dolceamara e per questo meravigliosamente coinvolgente.

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