La Bella Estate è il titolo di una raccolta di romanzi brevi di Cesare Pavese pubblicata nel 1949. Si compone di tre testi: “La bella estate” (scritto nel 1940 e rimasto inedito fino alla sua comparsa nella raccolta), “Il diavolo sulle colline”, composto nel 1948, e “Tra donne sole”, risalente invece al 1949. Grazie a questi tre racconti, racchiusi ne “La bella estate”, Pavese si aggiudica la vittoria del Premio Strega nel 1950.
Fondamentale testo di Pavese, che rappresenta uno degli ultimi atti della sua produzione letteraria, La bella estate non ha goduto di particolare considerazione da parte della critica, soprattutto in tempi recenti. Altre sono infatti le opere dell’autore piemontese assunte come veri e propri classici.
Tuttavia questa è un’opera fondamentale per capire la personalità dello scrittore e forse le tre storie raccolte sono le più significative per quanto riguarda l’immedesimazione dello stesso autore.
Le tre storie sono tutte diverse tra loro, ma tutte trattano in maniera delicata ma al tempo stesso ineccepibile alcuni temi che il Pavese sente molto vicini: primo tra tutti il passaggio all’età adulta, l’abbandono doloroso quindi del mondo adolescente a cui si vorrebbe sempre rimanere attaccati. Il rapporto quasi “umano” tra campagna e città, descritte in modo da far emergere proprio due caratteri diversi, due mondi distanti che molte volte ti respingono, altre volte ti accolgono.
La protagonista del racconto dal titolo “La bella estate” è Ginia, una sarta torinese di sedici anni. La giovane, allegra e spensierata, fa la conoscenza di Amelia, una ragazza più grande che lavora come modella per alcuni pittori torinesi. L’amicizia con Amelia la porterà a frequentare ambienti a cui era poco avvezza e qui l’ingenua e inesperta Ginia s’innamora di Guido, un pittore, e grazie all’intervento di Amelia diventa la sua amante. All’inizio della vicenda amorosa la ragazza è felice e convinta di aver trovato l’amore, ma si rende presto conto che in realtà Guido è poco interessato alla sua compagnia e si diverte molto di più a trascorrere il suo tempo con gli altri artisti, in particolare con Rodrigues, un tempo amante di Amelia.
Ginia, nonostante soffra moltissimo per l’indifferenza che avverte da parte di Guido, continua i suoi approcci. Poi arriva il momento cruciale: un giorno Guido propone alla ragazza di posare nuda per i suoi dipinti, senza avvertirla che da dietro una tenda la sta osservando anche Rodrigues. Ad un certo punto questi fa capolino nella stanza dal suo nascondiglio, e Ginia, umiliata e piena di vergogna, si copre e scappa immediatamente. Da quel momento niente sarà più come prima e Ginia preferirà la compagnia di Amelia. Il tema centrale del racconto è il rapporto tra le due ragazze: durante la storia si rincorrono, si cercano, si perdono, si trovano. L’attrazione erotica tra le due ragazze non è mai espressa in modo esplicito: Pavese vuole che il lettore intuisca cosa di “strano” ci sia nella storia. L’immagine di loro due che si baciano è quasi tenera e non riesce a sortire l’effetto, che forse avrebbe voluto l’autore, di rendere il rapporto tra le due giovani come un qualcosa di pian piano travolgente.
Ne La bella estate molto spazio è concesso ai particolari “della carne”, “L’odore che hai tu sotto le ascelle è più buono dell’acqua ragia” – dirà Guido a Ginia. Tutto quasi a significare i corpi che si cercano, che si vogliono. Idea che Pavese tuttavia non riesce a rendere perfettamente, nel racconto si intuisce solo lievemente la voglia di un amore “carnale” più che platonico: molti critici hanno spiegato ciò riconducendosi ai problemi che Pavese aveva con le donne e alla difficoltà di avere un rapporto sereno con esse.
“Voi altre non fate che corrervi dietro, perché se siete tutte e due donne?” – è la domanda, non tanto retorica forse, che Rodrigues, il pittore, farà a Ginia che, per tutta risposta, cambierà argomento In questa occasione e in poche altre ci si rende conto effettivamente del rapporto che intercorre tra le due protagoniste.
La bella estate è proprio il periodo dell’anno che attende con tanta ansia Ginia, perché lei e Amelia possano tornare a indossare lunghe e svolazzanti gonne andando in giro per negozi e facendosi guardare, come entrambe affermano in più di una volta durante il romanzo.
La scena finale della fuga di Ginia è emblematica di una adolescenza ancora acerba, di un considerarsi prematuramente “donna”, perché ancora non pronta a sopportare gli sguardi degli uomini sul proprio corpo nudo.
Con “Il diavolo in collina” è invece un racconto che, accanto al tema della difficoltà del passaggio al mondo adulto, accosta anche la metafora della vita in campagna, una vita che viene dalla terra, dai profumi che essa rilascia e dal calore del sole in estate, una vita vera, senza i filtri che invece caratterizzano la vita della città.
La narra di tre amici inseparabili, l’io narrante, un bravo ragazzo di città, Pieretto, e Oreste, semplice e ingenuo che viene dalla campagna. Costoro, nei loro vagabondaggi per le colline, incontrano Poli, il figlio dei padroni della tenuta il Greppo.
Vengono così a conoscere la squallida storia di Poli che vuole liberarsi dell’ex-amante Rosalba che fa di tutto per trattenerlo. Una sera, durante un ballo, Rosalba, che poi si suiciderà, ferisce Poli con un colpo di rivoltella durante un amplesso e i tre giovani, finita l’avventura, ritornano alle loro vite per ritrovarsi, alla fine di agosto, a casa di Oreste.
I tre amici riprendono i loro vagabondaggi per le colline godendo della natura finché vengono a sapere che Poli è ritornato al Greppo e decidono di andarlo a trovare.
Poli si trova alla villa insieme alla moglie Gabriella e ambedue insistono perché si fermino. Qualche giorno dopo ritornano alla villa e, presto incuriositi e in fondo attratti da questo mondo e dal fascino di Gabriella, decidono di fermarsi. Oreste è particolarmente attratto dalla donna che gli mostra apertamente il suo interesse e l’io narrante, che si rende conto del pericolo, vorrebbe andarsene ma Pieretto lo convince a fermarsi. Poli dopo una festa si sentirà male e Gabriella portandolo a milano per cure lascerà i giovani al paese.
D’estate la vita assume altri significati, soprattutto quando si è giovani. Cosi i tre amici spesso si trovano in macchina tra le colline, nel cuore della notte, vagando senza una meta precisa nell’oscurità del paesaggio. È emblematico il modo in cui incontrano Poli: un’auto ferma in strada, con una persona riversa sul volante. Dapprima i tre sono impauriti, perché non sanno a cosa vanno incontro: emettono della grida che risuonano tra le colline deserte e buie. Questa è una delle tante immagini che meravigliosamente Pavese ci offrirà. I tre, ai quali poi si aggiungerà il diavolo sulle colline, cioè Poli , saranno soliti trascorrere le sere in compagnia (non sempre, tuttavia) di amiche, sfrecciando sulle stradine tortuose di collina, aspettando il sorgere del solo nelle piazzette deserte dei piccoli paesi.
Pavese come al solito ci fa solo intuire quali sono i caratteri dei protagonisti: lo studente di medicina che si permette poche distrazioni ma che viene spesso trascinato nelle avventure notturne da Poli, l’io narrante, che forse è il personaggio con meno personalità di tutti, perché non riuscirà mai a schierarsi apertamente contro le malefatte e scorribande che propone Poli, perché in realtà, forse, anche lui vuole divertirsi. E poi Poli: questo strano ragazzo che fa uso di droghe, sebbene sia di famiglia agiata, che vuole abbronzarsi fino a diventare nero come il carbone, che vuole la compagnia di belle donne, che vuole una vita a cento all’ora, ma che forse è il più disperato di tutti. Un personaggio quasi tipicamente gassmaniano, un mattatore dal sorriso triste e dagli occhi vispi.
Il modo in cui termina il racconto è l’epilogo di chi vuole ma non osa e di chi, per quanto abbia osato, si ritrova sconfitto: ovvero la vicenda di Oreste e quella di Poli. Insomma da un lato o dall’altro (appunto ai due antipodi, Oreste e Poli), Pavese ci offre un quadro di solitudine, di chi cerca in tutti i modi di aggrapparsi alle certezze quasi infantili che dolorosamente dovrà lasciarsi alle spalle, in un mondo da adulti. E’ un racconto che lascia, anche in chi lo legge, un senso di scoramento.
“Tra donne sole” è forse l’opera che più ci fa capire il dramma di Pavese: gli sfondi del diavolo in collina, i richiami velati a una sessualità travolgente de “La bella estate”, lasciano spazio a un classico racconto dallo sfondo neorealista. Tuttavia il motivo principale dell’importanza di quest’opera risulta essere l’inquietante parallelismo tra Rosetta, che morirà suicida e proprio lo stesso Pavese, che farà la stessa fine (anche con le stesse dinamiche in apparenza inspiegabili) pochissimo tempo dopo.
La protagonista, Clelia, è una donna che era partita da Torino 17 anni prima per cercare lavoro e fortuna a Roma. Dopo molti anni di successo nel mondo del lavoro, ritorna alla sua città nativa, Torino, per aprire una succursale della sartoria romana per la quale lavora. Il ritorno al luogo dell’infanzia è per la protagonista una sorta di ricerca di se stessa. Clelia era infatti partita da Torino povera e desiderosa di uscire dalla sua situazione di miseria e aveva sognato di tornare un giorno a Torino e trovare un mondo diverso da quello da cui era partita, ma questo mondo si mostra ben presto tutt’altro da quello che lei si aspettava. Scopre così di sentirsi estraniata non solo di fronte ad una certa società, che disprezza e disapprova, ma anche di fronte ai luoghi della sua infanzia. Questo è reso bene da una immagine particolare che Pavese ci offre: “Conoscevo le case, conoscevo i negozi. Fingevo di fermarmi a guardare le vetrine, ma in realtà esitavo, mi pareva impossibile d’essere stata bambina su quegli angoli e insieme provavo come paura di non essere più io”
Clelia ha raggiunto grazie al suo lavoro e al suo sforzo quegli ambienti che le sembravano prima inarrivabili ma ora invece freddi e vuoti. Clelia ha ottenuto l’accesso a quel mondo alto-borghese così lungamente desiderato, ma dopo aver frequentato queste persone così diverse da lei, aumenta la delusione e la consapevolezza che si tratta di un mondo vuoto, in cui mancano ideali autentici e veri valori. Giorno dopo giorno esamina le sue nuove conoscenze con indifferenza e senza coinvolgimenti emotivi. Scopre così che dietro l’apparenza, il bel mondo torinese nasconde una vacuità dei rapporti umani e un cinismo spietato.
Non mancano, nel libro, i giudizi che Clelia esprime sulle persone che frequenta, sempre contrapponendole al suo modo di essere donna: “Queste ragazze sono sempre state con la madre, sono cresciute sul velluto, hanno visto il mondo dietro i vetri. Quando si tratta di cavarsela, non sanno e cascano male” .
In questa sorta di viaggio che Clelia compie all’interno di questa società, incontriamo tutta una serie di personaggi, soprattutto femminili: Clelia, voce narrante e protagonista del romanzo, ha l’immagine di donna emancipata che sembra aver trovato nel lavoro il senso dell’esistenza e la risposta ai propri dubbi.
Rosetta è una donna fragile, che non sa opporre resistenza al cinismo delle sue amiche, l’unica, forse, che sa ancora “sentire” qualcosa e proprio per questo destinata ad una fine tragica. Momina, una donna forte e cinica, vive una vita lussuosa, ma falsa e vuota, anche lei è però capace di sentire l’insensatezza di quel mondo e il disgusto di vivere, come rivelano i suoi dialoghi con Rosetta e con Clelia: “Il mondo è bello se non ci fossimo noi”. Mariella rappresenta la donna bella e simpatica, ma troppo superficiale e stupida. E infine c’è Nené, una donna ribelle con molto talento, ma che dipende da un uomo debole e frustrato.
Anche i personaggi maschili sono caratterizzati da un senso di fallimento generale e dalla mancanza di uno spessore interiore che si traduce in una serie di gesti e di azioni privi di reale consistenza. Clelia incontra questi personaggi prevalentemente di notte, in una Torino particolarmente vivace, diversa dalla città che Clelia vede di giorno. La città piemontese che riscopre è diversa da come lei la ricordava, più agitata, attiva, trasformata rispetto ai tempi della sua infanzia. Proprio durante una di queste passeggiate, lei arriva nel quartiere dove ha vissuto da bambina, e ritrova l’amica di un tempo, che lei descrive come grigia e rassegnata, forse perché non è andata mai via da Torino.
Un altro personaggio della classe operaia, per il quale Clelia è attratta, è Beccuccio, il capomastro di via Po. Becuccio è una persona solida, che agisce con gentilezza e semplicità. Clelia trova la sua serenità frequentandolo e fra loro si sviluppa un rapporto di amicizia. Dopo una notte d’amore con il giovane, confusa da sempre di fronte alla scelta tra cuore e carriera, la donna sceglie di non proseguire il rapporto perché ciò significherebbe perdere la sua libertà e indipendenza, valori di molta importanza per lei.
Rinuncia dunque all’amore e all’autenticità di sentimenti a favore del lavoro e del successo. Qui c’è di conseguenza un’altra contrapposizione, tra la forte e libera Clelia, tutta dedicata al suo lavoro, e la fragile e disperata Rosetta. In lei il disgusto di vivere si fa sentire sempre più forte. “Voleva stare sola, voleva isolarsi dal baccano; e nel suo ambiente non si può star soli, non si può far da soli se non levandosi di mezzo” . Rosetta sembra essere insieme a Clelia, l’unica che si accorge della vacuità e superficialità del mondo in cui si trova coinvolta. E in questi confronti, il suicidio sembra essere la sua unica soluzione. Il suicidio non è stato dunque per amore, neppure per una storia finita molto tempo prima con Momina, ma a causa della presenza di un profondo disagio, che le impedisce di vivere ed integrarsi nel mondo, di cui è vittima inconsapevole. Rosetta è la vittima innocente di questo mondo di superficialità e ipocrisia.
Questa cerca invano di costruire rapporti più autentici e profondi, ma fallisce. Rosetta, con il suicidio, protesta contro il mondo falso e senza prospettive concrete della gioventù torinese. Il suicidio di Rosetta è presagito da Clelia che si rammarica, quando Rosetta scompare, di averlo sempre saputo e non aver fatto niente. Emblematico è la scena in cui tutti chiedono anche a Clelia notizie sull’apertura dell’atelier.
Molti critici affermano che Clelia e Rosetta siano entrambe due facce di Pavese: Clelia è la libertà, Rosetta la disperazione: queste due facce si incontrano con inquietante perfezione in Pavese stesso. La libertà spesso appare come la peggiore tra le prigioni, una prigione che spinge a ricercare un senso nella propria esistenza: scoprirsi irrimediabilmente soli, non compresi dal mondo che ci circonda, è il passo principale verso una profonda solitudine e disperazione, una incomprensione verso il mondo e quindi verso se stessi. Sensazioni che Pavese probabilmente ha tentato di imprimere in questa sua ultima significativa opera.