‘Gilles’: il romanzo introspettivo di Pierre Drieu La Rochelle

Un lettore avvezzo a etichette e condanne, che ha il terrore delle parole interdette e che ricerca nei romanzi la conferma della propria superiorità morale, non potrà mai scorgere tra le pallide pagine di Gillesapocalittico romanzo pubblicato nel 1939 dall’eresiarca Pierre Drieu La Rochelle, nulla di buono, nulla di vero, nulla di suo.

Drieu incarna integralmente l’antico, inattuale gusto della scrittura che sanguina; è Nietzsche che si sente ululare in sottofondo – e chi cercasse in questo cult dell’underground più aristocratico qualcosa da predicare, dei valori astratti da inculcare resterebbe fatalmente deluso.

Gilles: un romanzo in parte autobiografico

Nell’interessante postfazione del 1942 che Giometti&Antonello inserisce nella edizione del 2016 di Gilles, lo stesso Drieu ammonisce chi frettolosamente voglia liquidare la sua opera come un saggio camuffato o una memoria viziata dal “fervore fabulatorio” scrivendo che i suoi romanzi non sono altro che romanzi. Lo scrittore prosegue:

“l’artista cerca di essere oggettivo malgrado se stesso, malgrado la forte disposizione all’introversione a cui lo obbliga la visione necessariamente frammentaria del suo universo interiore. Il frammento restituisce come rifratto un personaggio nuovo e sconosciuto. E la cosa rimane vera, anzi diventa più vera, anche quando l’autore si ostina per tutta la vita su se stesso”.

D’altronde, continua Drieu, “dovendo smascherare e denunciare, pensavo fosse giusto cominciare da me stesso”.

L’introspezione dello scrittore francese

L’introspezione costruisce pertanto altre versioni dello scrittore che non sono lo scrittore, altre versioni di amici e amanti che non sono loro – ma che sono, forse, più veri di loro. Gilles – che Drieu redige omaggiando la sua anima di storico – è “un racconto lungo che si sviluppa abbracciando larghe porzioni di vita”.

Infatti, l’autore di Fuoco fatuo racconta la storia del seduttore Gilles in un arco di tempo che va dalla prima giovinezza alla maturità ed è un libro che, siccome parte dalla vita, non inganna – “poiché la vita è della vita l’eco più giusta, sempre”.

È lo stesso Drieu ad inserire il suo capolavoro all’interno della più tipica tradizione francese: “quella del racconto unilaterale, egocentrico, talmente umanista da sembrare astratto”.

L’insufficienza del romanzo

Il romanzo, secondo lo scrittore, può apparire a tratti “insufficiente” perché “tratta della insufficienza francese, e la tratta onestamente, senza cercare alibi o sotterfugi”.

Drieu cita Céline che, come lui, “si è buttato a corpo morto sull’unica strada che gli si offriva (…): sputare e ancora sputare, ma se non altro in quella saliva vi è entrato l’intero Niagara”.

Drieu è dunque amante dell’invettiva come Céline, ma da buon normanno, è meno propenso alla dismisura, “scrupolosamente sottomesso alla disciplina della Senna e della Loira”.

Gilles e le donne

Nella prima parte del corposo volume il giovane soldato Gilles Gambier rientra in Francia dalla guerra con una grande “fame di donne, e quindi di pace, di piacere, di agi, di lusso, di tutto ciò che aveva odiato” – a parte le donne – ancora prima del conflitto.

E, tra una bravata e l’altra, è travolto dalla sua benedizione: Gilles piace alle donne e, oltre a incontrarne alcune dal malsano fascino baudelairiano, ne frequenta altre che, benché ognuna a suo modo, lo inchiodano all’amore, al dolore e che fungono finanche da stimolo, occasione di riflessione interiore, esistenziale.

Alcune di queste donne sono la trasposizione di amori realmente vissuti dall’autore. Ad esempio Dora è l’americana Constance Wash conosciuta da Drieu nel 1924 e presente anche in altre opere.

Pauline è Emma Besnard, conosciuta dallo scrittore ad Algeri nel 1922.

Quantunque Gilles sposi Myriam, resta sempre inquieto e non smette di coltivare le sue sensazioni “in una solitudine vivente” cercando di forgiare pensieri che abbiano “un po’ della prodigiosa e segreta efficacia della preghiera” essendo il pensiero, ma soprattutto la scrittura, una forma di orazione.

Gilles– coperto di donne, odiato da molti e solo dentro – non è però soltanto la sua relazione con l’altro sesso – “sesso adorato, sconosciuto, abusato” –, malgrado le donne restino sempre varchi per il resto, voragini sull’insensato, occasione che estetizza l’ora.

Chi è veramente Gilles Gambier?

Gilles, come si diceva, non è soltanto Drieu e ciò, d’altronde, non esclude le somiglianze; ad esempio entrambi sono “normanni”, hanno avuto successi e fallimenti, hanno partecipato con onore alla prima guerra mondiale.

Sono stati reduci e hanno vissuto sulla propria pelle il ribaltamento della prospettiva borghese, una certa marziale forma di dandismo dannunziano, hanno pensato al suicidio e, infine, hanno aderito, seppur in modo critico e indipendente, alla terza via fascista.

Tuttavia Gilles non è Drieu ad esempio perché, orfano, è stato cresciuto da una nutrice e, prima di essere spedito in collegio, è stato educato da un padre adottivo. Gilles è cresciuto senza privazioni e godendo di quei piaceri che, benché comuni a tanti, apprezzano solo pochi spiriti ombrosi: “i libri, i giardini, i musei, le strade”.

La politica

Così, restando sempre Gilles, non sarà solo soldato e reduce, ma anche impiegato agli Affari Esteri del Ministero Francese, ufficiale di stato presso gli americani in Francia, caporedattore della rivista Apocalisse, scrittore indipendente, militante politico e spia in missione nella Spagna franchista con lo pseudonimo di Walter.

Al di là delle varie occupazioni, Gilles è soprattutto un esteta che, malgrado le fughe nel piacere, sente “un’inclinazione irresistibile all’immobilità, alla contemplazione, al silenzio”.

Egli si percepisce come una sorta di “eremita, leggero, furtivo, solitario” che erra per le città e per le foreste afferrando “tutti i rumori, tutti i misteri, tutti i compimenti”.

Un sognatore che ha “il gusto divino dell’onnipresenza”; un “asceta nello spirito, ma non nella vita” e che, anzi, in una sorta di nigredo dell’io, nel vitalismo tormentato trova la strada dell’ascetismo spirituale interpretando, alla stregua di un lupo, la nobile arte del pathos della distanza – “mistica della solitudine”.

Lo spleen baudelairiano

Egli è pericolosamente attratto dallo spleen cittadino ma anche dal “tono segretamente altero delle grandi cattedrali, dei castelli, dei palazzi: l’ultimo appoggio della grazia, perché le pietre resistono più delle anime”.

L’amore dell’esteta per le cose rare e squisite si mostra in negativo come grande rifiuto della modernità, della mercificazione e della riproducibilità tecnica:

“A parte le macchine, tutto è assolutamente brutto nelle cose moderne, non ci si può aspettare niente. Eppure noi dobbiamo salvarci in mezzo a queste cose periture. Ciascuno dei nostri oggetti familiari deve essere scelto, esiste una potenza di talismano, noi possiamo salvarci soltanto circondandoci di oggetti che hanno un valore di salvezza”. 

La voglia di concretezza

I pensieri non investono l’artista su un solo piano e per filosofare, egli sente il bisogno del contatto con molte cose. Infatti per lui “tutto è concreto”: “il lontano come il vicino, il brutto come il bello, la cosa imputridita come la cosa sana”.

Egli incarna le idee senza parole e crede che “l’umano” sia “un misto di buono e di cattivo, di forte e di debole”. Pertanto, contro l’universalismo illuminista, Gilles celebra un tipo umano molto più concreto dei moderni intellettuali, “uomini senza spada”, “chierichetti del pensiero liberale”:

“(…) Prima gli uomini pensavano perché pensare, per loro, era un gesto reale. Pensare era insomma dare o ricevere un colpo di spada… Oggi, gli uomini non hanno più la spada”. 

L’antimodernismo di Gilles

Pur odiando il marxismo con tutte le sue forze, Gilles desidera come i marxisti la distruzione della società moderna contro la quale intende “costruire una forza attiva, libera da tutte le vecchie dottrine, un corpo franco” che abbia come fine “distruggere la società capitalista e restaurare il concetto di aristocrazia”. Si tratterebbe, scrive a un certo punto Drieu, del “partito di tutti”:

“Nazionale senza essere nazionalista, che rompa con tutti i pregiudizi, i luoghi comuni della destra, un partito sociale, senza essere socialista, che proponga riforme ardite, senza tuttavia seguire la carreggiata di nessuna dottrina”.

Negli ultimi capitoli del romanzo i dialoghi si fanno sempre più politici e Drieu dipinge, con precisione e senza remore morali, l’atmosfera di quegli anni presentando attraverso i vari personaggi prospettive politiche e tipi umani diversi.

La descrizione si fa ancora più interessante quando, tramite le avventure di Walter-Gilles, è presentata la guerra civile spagnola alla quale partecipano non solo le brigate internazionali di Stalin, ma anche gli anarchici e, da tutta Europa, vari esponenti del fronte opposto, tra cui lo stesso Gilles.

 

Luca Caddeo

Pierre Drieu La Rochelle e Louis-Ferdinand Céline: figli della solitudine, oppositori della decadenza europea

Luglio 1940, Diario di André Gide: “Se la dominazione tedesca dovesse assicurarci l’abbondanza nove francesi su dieci l’accetterebbero, e tre o quattro di loro col sorriso sulle labbra”. Pierre Drieu La Rochelle nacque a Parigi nel 1893 e vi morì, suicida, nel 1945. Fu, insieme a scrittori come Robert Brasillach, Georges Suarez e Louis-Ferdinand Céline, tra i pochi a pagare per il collaborazionismo con i tedeschi durante la Repubblica di Vichy. Brasillach e Suarez vennero fucilati. Céline dovette fuggire in Europa, scontare anni di carcere per poi rientrare in Francia nel dopoguerra ed essere privato dei suoi averi. Drieu, invece, si suicidò prevenendo il verdetto di condanna a morte. Romanziere, poeta, saggista, giornalista, drammaturgo, critico letterario, pamphlettista e infine studioso di religioni, Pierre Drieu La Rochelle – dato lo scomodo passato di collaborazionista – è entrato a far parte solo nel 2012 della prestigiosa collana francese Bibliothèque de la Pléiade, insieme ad autori come Molière, Stendhal, Proust, Chateaubriand e Hugo: tutto il meglio della letteratura francese. Non vi è dubbio sull’adesione fascista di Drieu La Rochelle come sulle sue posizioni antisemite. Non sarebbe corretto e onesto negare tali verità come non sarebbe onesto tacere su una figura così importante per la cultura europea. I fascisti portano il suo nome come un fiore all’occhiello. Gli antifascisti lo bollano come mero antisemita e lo ignorano. Ma qui non si scrive per compiacere né gli uni né gli altri.
Nato in una famiglia borghese normanna dalle idee tradizionaliste, Drieu, sotto l’influenza del padre, cresce nel rimpianto e nell’amarezza della sconfitta del 1870. Dallo sguardo grave e dalle idee radicali, egli affronta la vita con lo spirito di un vinto fin dalla prima giovinezza. Bocciato all’esame di Scienze politiche, pensa al suicidio per la prima volta. Porterà a compimento tale idea, sempre presente nei suoi romanzi, molti anni dopo, come un altro grande scrittore dal passato scomodo: Yukio Mishima. Partecipò alla Grande Guerra e ne uscì traumatizzato. Il dominio della macchina sull’uomo e l’ingresso delle masse nella storia sono gli elementi di novità che la tragedia bellica ha portato con sé. Davanti alla guerra di trincea, con i soldati costretti a strisciare nel fango, Drieu asserisce:

“La guerra, un tempo, erano gli uomini in piedi. La guerra di oggi sono tutte le posture della vergogna”.

La visione della vita per Drieu è decadenza. Tale idea si impossesserà di lui e attraverso tale lente guarderà il mondo e, soprattutto, l’Europa. Il suicidio non è altro che l’azione che segue, coerentemente, il pensiero. Si legge infatti nella prefazione del suo romanzo più importante Gilles: “Io mi sono trovato, come tutti gli scrittori contemporanei, di fronte a un fatto schiacciante: la decadenza. Tutti hanno dovuto difendersi e reagire, ciascuno a suo modo, contro questo fatto. Ma nessuno come me salvo Céline – ne è stato chiaramente cosciente”. A pensarli fratelli, Drieu e Céline, – come nota Arnaldo Colasanti nella prefazione de La commedia di Charleroi – si direbbe troppo. Sono grandi perché restano incommensurabilmente figli unici, figli della solitudine, orfani dell’assenza. Ed è per questo che lo scrittore e giornalista Stenio Solinas li ha racchiusi entrambi, separatamente, nel suo splendido saggio Compagni di solitudine. Una educazione intellettuale. Ma anche per Drieu in Fuoco fatuo, come per Céline nel suo Voyage, la notte rappresenta il marcio e la decadenza dell’umanità. Principi delle tenebre entrambi, vedono la morte come vocazione.

Da giovane antiborghese rifiuta la democrazia, il parlamentarismo, il progresso e l’egualitarismo. In un articolo scrisse che “l’eguaglianza non è mai appartenuta a questo mondo: la vita stessa sorge dall’ineguaglianza. L’intelligenza del più forte è la sola giustizia conosciuta”. Rifiuta il mito progressista della macchina, “nata dalla pigrizia dell’uomo”, nel cui dominio – come giustamente nota Rodolfo Sideri nel suo Inquieto Novecento – vede tessere la ragnatela dell’egualitarismo che predispone un mondo di sbarre e di inferriate, che soffoca i desideri con la soddisfazione dei bisogni. Lo stesso antisemitismo da lui predicato si inscrive nel suo rifiuto del mondo moderno. Si legge a tal proposito in Gilles:

“Ebbene! Io non posso sopportare gli ebrei, perché essi rappresentano per eccellenza il mondo moderno che io odio”.

La loro religione, rimasta ferma a uno stadio arcaico, rappresenta al meglio la modernità in quanto “più le genti sono primitive più si gettano a corpo morto nel mondo moderno. Sono senza difesa”. Il suo è un fascismo tutto particolare. Per Drieu, il fascismo significa “vivere con più forza”. Nel pamphlet politico Socialismo fascista spiega le ragioni della sua adesione al fascismo, in cui vide il solo strumento capace di frenare la decadenza dell’Europa. E’ però tentato in egual misura dai due opposti estremi: il comunismo e il fascismo, il rosso e il nero. Ma è in quest’ultimo che più si riconosce. Per lui pare valere la definizione di Victor Smirnov: “Il comunismo è un fascismo estremista, il fascismo è un comunismo moderato”. Nei romanzi Racconto segreto e I cani di paglia considera infatti la Russia sovietica come sicura erede del fascismo e padrona dell’Europa. Tra i suoi amici compaiono André Malraux (un comunista divenuto poi gollista) e Louis Aragon (comunista anche lui). Ne I cani di paglia il collaborazionista Brandy giunge alla conclusione che il nazionalsocialismo e la democrazia saranno schiacciati dalla Russia, e poi aggiunge: “il mio ideale di autorità e aristocrazia è in fondo nascosto in questo comunismo che ho tanto combattuto. Verrò ammazzato dai comunisti con amara soddisfazione”. Ed è questo forse che lo porterà a dire, alla fine della sua vita: “Je meurs communiste”. Nella sua immaginaria autodifesa non ammette mezze misure:

“Sì, sono un traditore, si sono colpevole d’intelligenza con il nemico…ho perduto. Esigo la morte”.

Per l’autore di Gilles “nulla si fa senza sangue. Bisogna morire incessantemente per rinascere incessantemente”. E, avvicinatosi all’induismo, morì con le Upanishad aperte sul tavolo da lavoro. Per andare lì, come scrisse in Racconto segreto, dove non c’è nessuno.

Veniamo ora all’altro grande scrittore scomodo, Céline: La Rochelle, come nota Stefano Lanuzza nel libro scritto insieme a Marco Fagioli, Arletty, Sartre e Louis Ferdinad Céline, lo assimilava ad un poeta medievale, antimoderno come lui, lungo una linea che va da de Maistre a Barthes. Il carattere dell’antimodernismo, intendendolo come il volto più recente della cultura borghese, sarebbe quello di una critica distruttiva dell’idea illusione di progresso, uno spirito antiilluminista e controrivoluzionario, un pessimismo che assume l’aspetto di una vituperation della società, fino al limite estremo del nichilismo. Tuttavia, anche se l’apparenza di Céline all’antimodernismo sembra per diversi aspetti limitare lo spessore della sua scrittura, refrattaria ad ogni tipi di classificazione.

Pochi mesi prima della condanna per indegnità nazionale da parte del Tribunale della Senna di Parigi, Céline, rispondendo ad un’inchiesta della rivista Crapouillot sul tema dedicato ai fatti segreti e non registrati dalla Storia, adombra con amara ironia una previsione del proprio destino.

Io sono un ragazzo semplice, fiducioso e rispettoso dei superiori. Ho fatto diciotto mesi di prigione, non so perché.

Sono indegno per sempre. Non so perché. Farò sicuramente venti anni di esilio, senza sapere perché.

Creperò lontano dal mio ambulatorio. Non saprò mai perché. 

 

Fonti: Valerio Alberto Menga

S. Lanuzza, M. Fagioli, Arletty, Sartre e Louis Ferdinad Céline, Aiòn

 

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