‘Born under a bad sign’ di Albert King: la fenomenale giostra di chitarre elettriche tra Manchester e Londra

La storia dell’album Born under a bad sign di Albert King, comincia con Eric Clapton che fa qualcosa di pazzesco. Pubblica tre dischi in quasi due anni esatti con tre gruppi diversi: 1). Five Live Yardbirds con gli Yardbirds, 1964; 2). Beano con John Mayall e i Bluesbreakers, 1966; 3). Fresh Cream coi Cream, appunto, nel 66 anche questo – per arrivare al 70 manca ancora qualcosa, ma poi ci saranno i Blind Faith e i Derek And The Dominos (formati durante le registrazioni di All things must pass di George Harrison). Ma il punto è che ciascuno di questi dischi, compreso quello dei Blind Faith e il primo di Derek And The Dominos, è un disco leggendario di un gruppo leggendario; e da qui in avanti la carriera di Eric Clapton camminerà da sola e per inerzia verso il paradiso – ma relativamente a questo nostro racconto a noi interessano il lavoro degli Yardbirds e quello di John Mayall (Eric Clapton is God).

Qui la faccenda s’ingrossa, allora. Perchè gli Yardbirds, infatti, Londra, sono conosciuti non solo come il gruppo che ha dato i natali alla chitarra di Eric Clapton, lo abbiamo già detto; di Jeff Beck, che formerà un suo gruppo con due favole eterne a 33rpm con Ron Wood, poi terzo chitarrista dei Rolling Stones, e Rod Stewart; e di Jimmy Page, poi coi Led Zeppelin. Laddove John Mayall, a sua volta, Manchester, è invece conosciuto per aver consacrato, sì, la sei corde di Clapton dopo gli Yardbirds, lo abbiamo già visto; quindi quella di Peter Green, poi Fleetwood Mac; e quella di Mick Taylor, che sarà con cinque dischi, se non sbaglio, protagonista di quello che con ogni probabilità è il periodo più interessante dei Rolling Stones dopo la scomparsa del loro primo chitarrista, Brian Jones, nel 1969 – e con Eric Clapton, Jimmy Page, Jeff Beck e Peter Green, sottacendo i Rolling, si consumano le dita dei nomi dei più importanti chitarristi della storia della musica contemporanea.

Riassumendo quindi in pochissime parole, a spanne si può dire che gli Yardbirds, da Londra, diventano i Led Zeppelin e i Bluesbreakers, da Manchester, i Fleetwood Mac.

A riguardo infine dei Fleetwood Mac e del loro chitarrista fondatore, Peter Green, possiamo dire che condivide molti aspetti della propra parabola artistica con Syd Barrett. Come Syd Barrett infatti forma un gruppo. Come Syd Barrett del gruppo fondato è la principale forza creativa. E proprio come Syd Barrett, chitarrista anche lui, viene allontanato dal gruppo per problemi di droga che gli hanno confuso e incasinato, diciamola con Pulp Fiction, il modo di parlare (voleva cambiare vita dopo essersi strafatto di acidi). E per cui la configurazione finale dice di due figure affatto da ripensare seriamente e da rivalutare alla grande.

A questo punto, uno dei principali artefici del revival di Peter Green e Syd Barrett è David Gilmour.
Gilmour infatti lo scorso febbraio, il 25 mi sembra proprio di aver letto, ha partecipato a una serata in onore di Peter Green tenutasi al Palladium di Londra. Per l’occasione Gilmour suona tre pezzi dei Fleetwood Mac, compreso Albatross, singolo del 68.

E qui, adesso, sul finire di questo nostro racconto, si va sul campo delle opinioni, del se, ma e forse; ma è probabile che così facendo Gilmour abbia voluto ancora una volta ricordare Syd Barrett – o comunque sull’accostamento casca subito l’occhio – e questa volta nei termini di una delle più grandi chitarre sperimentali del Regno Unito o sicuramente in grado di tenere testa a Peter Green – almeno stando al primo disco dei Pink Floyd. E in ogni caso questo fenomenale passage della musica inglese tra Manchester e Londra ci ha portati a parlare ancora una volta di Syd Barrett. E a questo punto non è ancora chiara una cosa. Non si capisce cioè per quale caspita di accidenti del pensiero, forse un rovescio neuronale temporalesco, qui si finisce sempre col parlare di Syd Barrett – e se è possibile un giudizio personale, proprio stando al primo disco dei Floyd e ai suoi due solisti, è probabile che Syd Barrett sia una delle migliori chitarre sperimentali di sempre….esattamente come Peter Green, ex Bluesbreakers, Manchester.

Comunque non ce n’è, la versione di Born Under A Bad Sign, canzone di

, la versione dei Cream, quindi, è la migliore. Una l’ha registrata anche Peter Green. Non era stato ancora detto; i Pink Floyd poi possono sicuramente distrarre e confondere, è ovvio, ci mancherebbe, cavoli, la musica psichedelica è una vera figata; si fa quindi preferire il primo dei velvet underground, ma poi the dark side of the moon è quanto di meglio abbia offerto il music business fino ad ora; ma i Cream sono imbattibili se non sono i migliori. E poi sono la miglior band di hard blues bianco elettrico. Loro sono i padri naturali dell’Hard Rock – a cui ha contribuito anche Peter Green.

 

Peter Green
29/10/46 – 25/7/20
Ad perpetuam rei memoriam

 

I brividi, se non altro: appunti sul minimalista Ellsworth Kelly

“Lime and limpid green, a second scene, a fight between the blue you once knew”.…sono i primi due versi del primo pezzo del primo disco dei Pink Floyd, UK press. Sono nubi di gas grandi miliardi di volte il sole e incendiate da lampi di luce cosmica milioni di anni fa, quando solo l’Africa era abitata, prima che il mondo si sparpagliasse in continenti, e solo quegli uomini videro in cielo quel bagliore. Ed è il colore che parla da solo. È tutto ciò che rimane di fronte all’orizzonte degli eventi, quando tutto ciò che è umano e conosciuto viene spazzato via, che i buchi neri sono la parte sconosciuta e cattiva della natura – se però il colore è viola, allora sono campi di lavanda visti dalle nuvole (color field). Sono tele irregolari: si tratta dell’esponente del Minimalismo e dell’Hard edge painting, Ellsworth Kelly, si vola, e il profumo lo si sente fin qua.

Allo Stedelijk museum di Amsterdam c’è un lavoro di Claes Oldenburg che ricorda le geometrie di un’opera di Kelly; e le due opere in questione sono: The Saw del 2005 nel caso di Oldenburg e White Angle del 66 conservato al Guggheneim, quella di Kelly; ma a dire la verità di pannelli monocromatici disposti perpendicolarmente uno all’altro dando la sensazione di qualcosa di tutto spiegazzato, Elsworth Kelly ne ha composti parecchi; e Kelly e Oldenburg hanno comunque in comune molto altro, e il tratto distintivo che più li espone a una facile comparison è quello della landscape art: oggetti da esporre open air, large scale objects, che devono dare il senso e una direzione nuova alla percezione del paesaggio urbano (si tratta di scultura contemporanea o di installazioni permanenti).

L’Age d’Or è un film di Buñuel, e nel film c’è pure una giraffa di stoffa che dalla finestra papale vola, no ma non per terra, ma sugli scogli con fragranza dritto dritto in un mare grosso di onde grosse e la chimera surrealista per Kelly finisce qui. Basta: nessun elemento antropomorfico o umano o di vita biologica resterà sulla tela. L’uomo ha inghiottito tutto. “Floating down the sound resounds the icy waters underground”: sono i versi successivi della stessa canzone. È rimasta sola l’orma del passante e il suo bastone, ora già, un’altra lastra ghiacciata al sole, e l’espressione astratta dell’uomo e il suo pensiero, dove il cielo è il mare e la voce del padre, e il logos apofantico, alla fine: abstract expressionism – una derivazione di chiara origine tedesca che rimanda a Mondrian e Kandinsky.

L’elaborazione da parte di Ellsworth Kelly dei materiali esposti da Mondrian e Kandinsky porta dunque alla produzione di campi di colore monocromatici e alla costruzione di espressioni astratte del pensiero dell’uomo ricondotto ai suoi termini ultimi e minimali.

L’abbandono della sorpresa surrealista, della sua natura doppia e divisa tra realtà conscia e surrealtà inconscia porta Ellsworth Kelly alla costruzione di una realtà sintetica, di sintesi, con prodotti che sono degli statements, quasi degli imperativi categorici, che si impongono inequivocabilmente alla visione senza per altro confondersi con essa, ma allontanandosi, meglio, dalla stessa percezione, diventando interrogativi enigmatici imperiosi: non c’è più nulla di umano da guardare, non più niente di mortale, ma solo la natura immortale ed eterna, ovunque, sempre uguale a se stessa.

L’opera d’arte non ha più nulla da spiegare, più nessuno da esorcizzare: solo si manifesta per quello che è; e può essere un pensiero, un concerto, un gesto, una parola, molte volte uno sguardo; e molte volte è discreta tanto quanto altre volte può essere detonante, e in ogni caso Ellsworth Kelly sembra abbia proprio voglia di rivendicare l’impersonalità dell’arte, il suo valore assoluto in quanto tale, il suo voler essere assolutamente obiettiva e oggettiva, ricavando tutto il suo valore solo dal suo immenso e sconfinato voler essere (art for art’s sake, Allan Poe, 1850, seguendo Gautier, 1835; ma di fatto Kelly forma la propria dorsale artistica proprio a Parigi, ed è questo il sangue nuovo che scorre di ritorno in tutto il contemporaneo).

C’è qualcosa di agghiacciante in tutto questo, in tutte queste visioni monocromo; c’è qualcosa di sorprendente in queste agghiaccianti misure di colore monotono; non si può non far finta di niente: la natura è un ricordo, una lezione del passato, e la vita biologica ha lasciato per sempre l’arte contemporanea trasfigurata in eterno in puro spirito nell’alienazione e nella paranoia delle terre desolate del nostro futuro: “Jupiter and Saturn, Oberon, Miranda And Titania, Neptune, Titan. Stars can frighten” – fine della prima strofa del primo pezzo del primo disco dei Pink Floyd, UK press.

 

Fonti
Si veda: https://www.musee-orangerie.fr/fr/node/879, ma adesso “the time is gone, the song is over, thought I’d something more to say”, Pink Floyd, 1973 (pink-floyd-lyrics.com).

photo: incidentalcomics.com

“Tommy” dei The Who: i fantasmi di Pete

“Tommy”- Decca-1969

Cominciamo col chiarire una differenza fondamentale. Un concept album è un album che, in più canzoni, affronta un unico tema (ad esempio La Buona Novella di Fabrizio De Andrè). Un’opera rock è una composizione musicale in stile rock dotata di un precisa struttura narrativa, un definito impianto musicale ed una spiccata predisposizione ad essere rappresentata in forma scenica. “Tommy”, quarta fatica del gruppo inglese The Who datata 1969, si può a ragione considerare la prima opera rock della storia concepita in quanto tale. Nonostante alcuni anni prima ci siano stati i primi esperimenti in questo senso (The Story of Simon Simopath del gruppo britannico Nirvana e S.F. Sorrow dei Pretty Things), Tommy” rappresenta il primo tentativo cosciente di portare la musica rock oltre i limiti della forma canzone.

« So che non mi crederà nessuno, ma io sto davvero pensando di scrivere un’opera rock che abbia per protagonista un giocatore di flipper sordo, muto e cieco. Non sto scherzando, anche se per ora è solo un’idea che ho in testa. Non c’è niente di definito. » (Pete Townshend- Rolling Stone-1968)

Già negli anni precedenti The Who avevano spalancato la mente a nuove forme musicali, la suite con il brano “A Quick One While He’s Away”  tratto a “A Quick One” del 1966 ed il concept con “The Who Sell Out” del 1967, ma con Tommy alzarono notevolmente il tiro della loro ambizione. Come si può scrivere un’opera con un organico di quattro elementi e, per giunta, neanche tanto preparati tecnicamente? Il genio di Townshend è riuscito in quest’impresa apparentemente impossibile.

Ha concepito un’ Overture, un tema ricorrente See Me, Feel Me, Touch Me, Heal Me ed un gruppo di canzoni fantastiche (Acid Queen, Pinball Wizard, Tommy Can You Hear Me, Sally Simpson, Cousin Kevin) legandole poi tra loro con grande forza concettuale e grande senso musicale. Ascoltando questi brani si può rivivere l’intera vicenda di Tommy, un ragazzo reso sordo, muto e cieco da un trauma infantile, che, privato dei sensi elementari, subisce soprusi di ogni tipo, diventa un “mago del flipper e riacquista la normalità attraverso la distruzione del suo stesso simulacro (uno specchio).  Un lavoro molto complesso sia dal punto di vista tematico che musicale. Vengono affrontati argomenti scottanti come l’omicidio, la pedofilia, le droghe e l’adulterio; il protagonista è un individuo disabile incapace di reagire alla violenza; la religione come forza salvifica viene allegramente messa alla berlina attraverso il personaggio del “santone” che dovrebbe guarire Tommy; tutte caratteristiche che resero quest’album uno dei più discussi e controversi della storia della musica. La sua lavorazione, inoltre, consumò letteralmente il gruppo che impiegò otto intensissimi mesi per crearlo, rischiando lo scioglimento e la pazzia. Il risultato finale fu meraviglioso. Additato immediatamente come capolavoro assoluto, Tommy, ha rappresentato il vertice creativo della band che è entrata così, definitivamente nell’Olimpo del rock. Grazie alla sua maestosità, alla sua teatralità ed alla sua dinamicità quest’opera è stata rappresentata per anni sui palcoscenici di tutto il mondo e nel 1975 ne è stato tratto anche un bellissimo film diretto da Ken Russell (con gli stessi Who come protagonisti coadiuvati da numerose guest star del calibro di Tina Turner, Elton John ed Eric Clapton). La sua influenza ha avuto  echi significative in tutto l’universo musicale. Artisti quali Kinks (Arthur ,Or the Decline and Fall of the British Empire), Jethro Tull (Thick As A Brick), David Bowie (Ziggy Stardust), Genesis (The Lamb Lies Down On Broadway), Pink Floyd (The Wall) ed in tempi più recenti i Judas Priest (Nostradamus), saccheggiarono a piene mani l’enorme patrimonio contenuto in Tommy. E’ un album destinato a non morire mai, a continuare a rilasciare il suo splendore negli anni a venire rafforzando in ogni momento la leggenda secondo la quale: ascoltando Tommy a lume di candela si può vedere il proprio futuro.

 

 

                                                                                                                                                                                       

Revolver dei Beatles: Il sacrario del pop

“Revolver”- Parlophone-1966

Da bambino chiesi a mio padre (beatlesiano ortodosso e presente all’epoca dei fatti): “Papà qual è il disco più bello dei Beatles?”

Lui, senza pensarci un momento, rispose: “Revolver”

Io, li per li, non dissi niente.

Ma come Revolver? E Sgt. Pepper allora? Il White Album? Abbey Road?

A più di vent’anni da quella domanda e dopo innumerevoli ascolti dell’intera produzione beatlesiana, posso dire che aveva ragione. Il disco più bello dei Beatles è Revolver. Meno unitario del precedente Rubber Soul ma più caleidoscopico e sperimentale, quest’album rappresenta il momento esatto in cui i Fab Four prendono la volgare canzonetta e la innalzano ad opera d’arte.

Nel 1965 al gruppo accadono due cose fondamentali: cessano di esibirsi dal vivo ed esplorano tutte potenzialità che offre lo studio di registrazione. Ormai lontani dall’isteria dei fans e dallo stress delle tournèe, i Beatles si chiudono negli studi EMI di Londra e danno sfogo a tutta la loro creatività: il classicismo di Paul McCartney, il misticismo di George Harrison, la psichedelia di John Lennon, l’ironia di Ringo Starr si amalgamano in un coacervo incredibile di stili, tendenze e musicalità diverse. Il risultato è sorprendente.

«Dal giorno in cui uscì, Revolver cambiò per tutti il modo in cui si facevano i dischi. Nessuno aveva mai udito niente di simile.» (Geoff Emerick-tecnico del suono)

 

The Bealtles-1965

L’arguta critica sociale di Taxman, la dolente bellezza di Eleanor Rigby, gli umori acidi di She Said She Said, l’allegria di Yellow Submarine, la sperimentazione pura di Tomorrow Never Knows, elevano Revolver al rango di capolavoro assoluto e manifesto di un’intera generazione. Perfino la copertina (straordinario collage creato dall’amico di vecchia data Klaus Voorman) cessa di essere una mera fotografia per diventare parte integrante del disco. Arte visiva e musicale, oriente ed occidente, pop e musica colta, amore e filosofia, i Beatles alzano il tiro, spingendo “oltre” la loro ambizione e la loro consapevolezza. Ormai fanno terribilmente sul serio. Si sbarazzano dello spettro di Bob Dylan (che aveva caratterizzato gli album precedenti) e dell’etichetta di “phenomenal pop combo” per raggiungere lo status di guru della musica moderna.

Aiutati anche da un crescente consumo di LSD e da possibilità economiche pressoché illimitate, i Favolosi Quattro recepiscono ogni sentore di mutamento, ogni minima vibrazione socio/musicale, ogni tensione rivoluzionaria e li trasformano in splendide melodie realizzando idee assolutamente inconcepibili fino a quel momento. Riescono nell’impresa di diventare il gruppo più innovativo del mondo e, nello stesso tempo, il più commerciale. Revolver, infatti, raggiunge, nel suo anno di pubblicazione, la vetta delle classifiche sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti ed è, successivamente, inserito ai primi posti in quasi tutte le liste dei migliori album mai pubblicati.

Anche dal punto di vista lirico e poetico quest’album rappresenta un punto di svolta. Sono lontane le semplici parole d’amore di Michelle, She Loves You, Love Me Do e You Won’t See Me. Qui trovano spazio la solitudine e la tristezza, la satira politica e la filastrocca, le droghe ed il “Libro Tibetano Dei Morti”. L’impatto sul mondo musicale è enorme. Un terremoto vero e proprio. Le tecniche di registrazione, i testi criptici ed ermetici, i nastri suonati al contrario, il sitar e la tambla, gli archi e gli ottoni, i rumori di fondo, tutto, ma proprio tutto, viene studiato e ripreso da gruppi contemporanei e successivi (inclusi gli stessi Beatles). Pink Floyd, Who, Byrds ma anche U2 e Chemical Brothers hanno fatto un punto d’onore riprendere e cercare di superare Revolver. Si tratta di un disco rivoluzionario sotto ogni punto di vista. Lontano eppure attualissimo tanto da continuare a lasciare tracce visibilissime a quasi cinquant’anni dalla prima pubblicazione. Dopo Revolver, nulla sarà più come prima. La via era stata indicata ed il solco tracciato. Il mondo era ormai pronto per Sgt. Pepper.

 

 

“The dark side of the moon”: il vaso di Pandora del rock

 

“The dark side of the moon”- album

Cervellotico. Raffinato. Difficile. Ma anche dannatamente bello ed incredibilmente commerciale. The Dark Side Of The Moon”, opus magnum dei Pink Floyd datato 1973, è un concentrato di filosofia e sperimentazione musicale allo stato puro.

“The Dark Side of the Moon” era un’espressione di carattere politico, filosofico e umanitario che doveva essere comunicata” (Roger Waters). I Pink Floyd avevano bisogno di dare una svolta sostanziale alla loro carriera, scrollandosi definitivamente di dosso quel clichè di band psichedelica dovuto agli anni passati sotto l’egida del folle membro fondatore Syd Barrett.

Per far ciò abbandonano le lunghe digressioni strumentali ed i versi onirici per concentrarsi su tematiche più concrete e soluzioni armoniche più immediate. Le improvvisazioni catatoniche di Ummagumma, Oscured By Clouds e Middle spariscono per far spazio ad un nuovo progetto sonoro.

Le vendite mostruose ed il plauso unanime della critica confermano che la direzione intrapresa è quella giusta. I suoni inseriti quasi casualmente (tintinnio di monete, battiti cardiaci, ticchettii di orologi) colpiscono gli ascoltatori e, nel contempo, rendono i brani immediatamente riconoscibili. La perizia tecnica della band fa il resto. L’assolo lancinante di David Gilmour in Time”, il fantastico vocalizzo (ad opera di un’oscura corista) di “The Great Gig In The Sky”, il basso sghembo di Roger Waters in Money”, le liquide tastiere di Richard Wright in “Us & Them”, sono entrati di diritto nell ’immaginario collettivo. Ogni traccia, poi, è collegata alle altre in una sorta di continuum musical/temporale di estatica bellezza ed immensa efficacia. Il colpo di genio, poi, è l’assoluta riproducibilità dei brani nonostante l’evidente complessità. Al contrario di molti grandi gruppi (Beatles e Beach Boys su tutti), che avevano pesanti difficoltà nel presentare dal vivo i loro capolavori a causa degli imponenti arrangiamenti orchestrali e degli accorgimenti usati in sala d’incisione, i Pink Floyd riescono nell ’impresa di portare “The Dark Side Of The Moon” in giro per il mondo imbarcandosi in un tour durato quasi un anno.

Perfino la copertina, un prisma attraversato da un fascio di luce su sfondo nero, è una delle più celebrate e riconoscibili mai prodotte. La valenza storica e culturale dell’album è evidente. I numerosi omaggi, richiami e rifacimenti (“Dub Side Of The Moon” degli Easy Star All-Stars o “The Not So Bright Side of the Moon” degli Squirrels) ne fanno, tutt’ora, una delle opere più studiate ed ammirate di sempre. La sua permanenza in classifica Billboard 200 per 741 settimane, dal 1973 al 1988, non lascia spazio a dubbi circa l’importanza e l’impatto presso il grande pubblico. A più di quarant’anni di distanza, questo disco risulta assolutamente refrattario allo scorrere del tempo grazie alla capacità di aprire orizzonti nuovi ed inesplorati ad ogni ascolto. Lo sanno bene quelle milioni di persone che, anno dopo anno, restano affascinati dal lato oscuro della luna.

Il secolo d’oro

Bob Dylan

Gli ultimi cento anni del millennio appena conclusosi sono stati, senza dubbio, i più prolifici per la storia dell’uomo (nel bene e nel male). Enormi balzi in avanti sono stati fatti in ogni campo. Lo sbarco sulla luna, le guerre mondiali, la bomba atomica, la penicillina, l’automobile, l’elettricità, cose oggi abbastanza scontate ma che erano pura fantascienza soli 150 anni fa. La cultura non ha potuto rimanere insensibile a cambiamenti di tale portata. La musica, in particolar modo, ha subito dei mutamenti epocali grazie all’avvento dei mezzi di comunicazione di massa (o mass media). Il nastro magnetico, il giradischi, le musicassette, la televisione ma soprattutto la radio, hanno ridisegnato confini e competenze dell’ ambito musicale. L’invenzione di Guglielmo Marconi ha sdoganato l’arte dei suoni dagli ambienti colti in cui era relegata nell’ 800 (teatri, salotti e quant’altro) portandola in tutte le case e rendendola popolare. Da passatempo per pochi, pochissimi eletti a fenomeno globale. La possibilità di raggiungere gli ascoltatori in ogni angolo del globo ha aperto degli scenari inimmaginabili fino a qualche anno prima. Milioni di persone hanno potuto conoscere il messaggio poetico e rivoluzionario di Bob Dylan, la magnificenza dei Beatles, la rabbia dei Nirvana, la depressione dei Cure, il blues dei Rolling Stones o le oniriche visioni dei Pink Floyd. E’ stato possibile scuotere coscienze e stimolare avvenimenti importanti come accadde per il Festival di Woodstock del 1969, i concerti sull’Isola di Wight del 1970, il Concerto per il Bangladesh del 1971 o, più recentemente, il Live Aid. L’avvento della radio ha fornito a tutto l’universo musicale la concreta possibilità di cambiare il mondo attraverso la creazione di miti, leggende, sogni e passioni, contribuendo, così, a forgiare l’identità collettiva del XX secolo.

 

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