«Pier Paolo Pasolini era spiato dall’ufficio stragi del Sid>>. Un libro chiede una nuova inchiesta sul caso

Pier Paolo Pasolini era spiato dall’ufficio D del Sid, il famigerato reparto dei servizi segreti militari che negli stessi anni stava inquinando e depistando le indagini sulla strage nera di Piazza Fontana. E poco prima di essere ucciso, il grande scrittore si scambiava lettere riservate con Giovanni Ventura, il terrorista di destra, legato proprio al Sid, che dopo l’arresto e mesi di carcere sembrava sul punto di pentirsi e aveva cominciato a confessare le bombe sui treni dell’estate 1969 e gli altri attentati preparatori della strategia della tensione. Un carteggio inedito, durato sette mesi, che ha portato l’intellettuale di sinistra a chiedere apertamente all’ex editore neonazista di uscire finalmente dall’omertà e raccontare tutta la verità sull’attentato che ha cambiato la storia d’Italia.

Sono passati esattamente 42 anni dalla morte violenta di Pasolini, assassinato nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia. Per il brutale omicidio dello scrittore, regista e polemista scomodo, c’è un unico colpevole ufficiale: Pino Pelosi, 17enne all’epoca del delitto, condannato dal tribunale minorile a nove anni e sette mesi, scarcerato nel 1983, morto nel luglio scorso dopo una lunga malattia. I familiari, gli amici più stretti, gli avvocati di parte civile e molti studiosi sono sempre stati convinti, come gli stessi giudici di primo grado, che l’omicidio sia stato deciso da mandanti rimasti occulti ed eseguito da altri complici, probabilmente un gruppo di criminali legati alla destra eversiva, come lo stesso Pelosi aveva finito per confermare, tra molte reticenze (giustificate dalla paura di vendette anche sui parenti), in una celebre intervista televisiva alla Rai.

Ora un nuovo libro-inchiesta, firmato da Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna, e da Andrea Speranzoni, avvocato e saggista, chiede ai magistrati di Roma di riaprire le indagini sull’omicidio Pasolini. Per approfondire nuove piste investigative, portate alla luce grazie alla digitalizzazione dell’enorme archivio del processo di Catanzaro su Piazza Fontana: tonnellate di carte rimaste sepolte dagli anni Settanta negli scantinati giudiziari, trasportate a Milano e a Brescia negli anni Novanta per far ripartire le inchieste sulle stragi impunite, e poi scannerizzate da una cooperativa di detenuti di Cremona. Con il risultato di rendere accessibili e ricercabili decine di migliaia di documenti perduti, dimenticati e in qualche caso del tutto inediti.

Il libro, “Pasolini. Un omicidio politico” (prefazione di Carlo Lucarelli, editore Castelvecchi) è stato presentato dai due autori ieri, giovedì 2 novembre nella sala Aldo Moro della Camera dei deputati, dove è atteso l’intervento dell’avvocato Guido Calvi, che come parte civile fu il primo a denunciare, insieme al collega Nino Marazzita, i possibili complici neri che terrorizzavano Pelosi. Paolo Bolognesi, che è anche deputato, è il primo firmatario della proposta di legge per istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio Pasolini.

Negli atti dello storico processo di Piazza Fontana, in particolare, gli autori del libro hanno trovato documenti che provano l’esistenza di un fascicolo del Sid, protocollato con il numero 2942, intestato personalmente a Pasolini. Un dossier, finora ignoto, che comprova un’inquietante attività di spionaggio della sua vita privata e professionale, che mirava a scoprire, in particolare, cosa avesse scoperto negli ottantamila metri di pellicola utilizzati per realizzare il documentario «12 dicembre»: un filmato che sosteneva la tesi della «strage di Stato» quando gli apparati di sicurezza accreditavano ancora la falsa “pista rossa” degli anarchici milanesi.

L’esistenza e il numero di protocollo del dossier segreto su Pasolini è documentata, in particolare, da un’informativa del Sid, pubblicata integralmente nel libro, datata 16 marzo 1971 e indirizzata dagli agenti di Milano all’ufficio D di Roma: il reparto dei servizi destinato ad essere soprannominato “ufficio stragi”, dopo la scoperta che il suo capo, l’allora colonnello (poi generale) Gian Adelio Maletti, e il suo braccio destro, il capitano Antonio Labruna, invece di aiutare la giustizia facevano sparire le prove contro i terroristi neri. Al punto da fornire soldi e documenti falsi per far scappare all’estero e pagare la latitanza ai neofascisti ricercati dai magistrati di Milano.

Maletti e Labruna, entrambi affiliati alla P2, sono stati condannati con sentenza definitiva per il reato di favoreggiamento. Freda e Ventura sono stati proclamati colpevoli in tutti i gradi di giudizio per 16 attentati preparatori del 1969 e assolti in appello per la strage di piazza Fontana, per insufficienza di prove (e abbondanza di depistaggi). Il libro-inchiesta rivela che Pasolini era spiato anche dall’Ufficio Affari Riservati, il servizio parallelo che completava il lavoro sporco degli apparati deviati perseguitando gli innocenti anarchici milanesi.

Un’altra scoperta sorprendente è il ritrovamento, tra gli atti ora informatizzati del maxi-processo di Catanzaro, di un carteggio tra Pasolini e Ventura. Le prime notizie di queste lettere erano emerse grazie a un altro libro-inchiesta, firmato da Simona Zecchi (“Pasolini, massacro di un poeta”, pubblicato nel 2015 dalla casa editrice Ponte alle Grazie), che rivelava per la prima volta anche altri elementi di prova, come la foto di una seconda macchina sul luogo del delitto, diversa dall’auto dello scrittore (con cui Pelosi passò sul corpo della vittima prima di darsi alla fuga), le minacce subite dall’intellettuale antifascista poco prima dell’omicidio e il possibile collegamento con le sue indagini su piazza Fontana. Documentato anche dal carteggio finito agli atti dello storico processo sulla strage.

Nei primi mesi del 1975 lo scrittore riceve una lettera dal terrorista nero, allora detenuto, e decide di rispondergli. La corrispondenza prosegue per circa sette mesi. Ventura è in crisi, ha ormai firmato la cosiddetta “semi-confessione”, ammettendo le responsabilità sue e di Freda per tutti i 16 attentati preparatori (bombe all’università di Padova, in fiera e in tribunale a Milano, e su otto treni delle vacanze), che causarono decine di feriti. Poco prima, il 14 novembre 1974, Pasolini aveva firmato il famoso articolo, sul Corriere della Sera di Piero Ottone, che si apriva con queste parole: «Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti. (…) Io so. Ma non ho le prove (…)».

Nel carteggio, controllato dalla direzione del carcere, Ventura allude a verità inconfessabili, ma resta evasivo e reticente. Poco prima del suo omicidio, in una delle ultime lettere ora pubblicate nel libro-inchiesta, Pasolini lo invita personalmente a confessare tutto: «Gentile Ventura», gli scrive, «vorrei che le sue lettere fossero meno lunghe e più chiare. Una cosa è essere ambigui, un’altra è essere equivoci. Insomma, almeno una volta mi dica sì se è sì, no se è no. La mia impressione è che lei voglia cancellare dalla sua stessa coscienza un errore che oggi non commetterebbe più. (…) Si ricordi che la verità ha un suono speciale, e non ha bisogno di essere né intelligente né sovrabbondante (come del resto non è neanche stupida né scarsa)».

Il processo di primo grado per l’omicidio Pasolini si è chiuso con la condanna di Pino Pelosi «in concorso con ignoti»: i giudici del tribunale considerano assolutamente certa la presenza di altri assassini non identificati. In appello, su richiesta dell’allora procuratore generale, la sentenza cambia: Pelosi diventa l’unico colpevole. In questi anni gli avvocati di parte civile hanno cercato più volte di far riaprire il caso, ma senza risultati.

Ora il libro-inchiesta pubblica molti nuovi elementi di prova, tra cui le testimonianze, finora inedite, di alcuni abitanti dell’Idroscalo, che già nel 2010 hanno verbalizzato che quella notte nel luogo dell’omicidio non c’erano soltanto Pasolini e Pelosi, ma diverse altre persone. La speranza è che il nuovo vertice della procura di Roma, che sta facendo dimenticare la nomea della capitale giudiziaria come «porto delle nebbie», possa fare ogni sforzo per cercare verità e giustizia su un delitto di portata storica come l’omicidio di Pier Paolo Pasolini.

 

Fonte: http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/11/02/news/pier-paolo-pasolini-omicidio-riaprire-il-caso-1.313185?ref=fin

40 anni fa moriva Pasolini, il marxista che amava New York

Pierpaolo Pasolini oggi avrebbe 93 anni (nacque nel 1922), venne ucciso all’idroscalo di Ostia, a quanto pare, da un giovanotto, “un ragazzo di vita”, tale Giuseppe Pelosi. Pare, perché questa tragica storia è ancora avvolta nel mistero; ci sono state, secondo molti, tante bugie, depistaggi, occultamento di prove intorno alla pronunciata il 26 aprile del 1979 con la quale la corte di Cassazione ha stabilito in via definitiva che “Pasolini fu ucciso da Pino Pelosi”, Pelosi che ha ritrattato la sua versione, dichiarando che Pasolini è stato ucciso da altre tre persone. I punti interrogativi che ruotano intorno a questa triste vicenda sono tanti e sappiamo che a volte la verità processuale non corrisponde alla verità dei fatti: ad esempio dov’è finito l’appunto ventuno del romanzo di Pasolini, Petrolio? (Un’ipotesi inquietante collega Pasolini alla “lotta di potere” che andava formandosi in quegli anni nel settore petrolchimico, tra Eni e Montedison, tra Enrico Mattei e Eugenio Cefis. Pasolini si interessò al ruolo svolto da Cefis nella politica italiana, facendone uno dei due personaggi “chiave” con Mattei, di questo romanzo-inchiesta nel quale si ipotizza che Cefis avesse avuto un qualche ruolo nello stragismo italiano legato al petrolio e alle trame internazionali). Chi ha rubato le bobine di pellicola del suo ultimo film Salò e le 120 giornate di Sodoma? Probabilmente la sera in cui fu assassinato, tra l’uno e il due novembre del 1975, Pasolini si era recato all’Idroscalo a seguito di una telefonata che lo informava del ritrovamento della pellicola rubata.

Ancora oggi, a 40 anni dalla sua morte, ci si divide di fronte al controverso e discutibile intellettuale (scomodo anche per il suo Partito, il PCI, dal quale fu espulso) sempre attento ai problemi sociali del nostro Paese: c’è chi lo considera un profeta ucciso dalla politica perché sapeva troppo, e chi ritiene che la sua morte, meritata in quanto pedofilo (sarebbe più corretto parlare di efebofilia, in realtà), sia avvenuta in ambito sessuale. C’è a chi fa comodo pensare che Pasolini fosse un deviato, un sadico, un bugiardo dissociato, un comunista psicopatico, sdoganatore dell’universo omosessuale che ha saputo sfruttare lo smarrimento estetico della società bacchettona di quel tempo, costruendo un calderone di luoghi comuni e di banalità, come quello della purezza delle persone analfabete e povere, dell’auspicato ritorno alla vita campestre, delle borgate alla fame, adottando uno stile troppo “povero” e sfibrando la poesia stessa (come se fosse una cosa negativa). Una specie di eletto cui è stato concesso di proporre contenuti forti in un contesto dal richiamo colto (Boccaccio, Chaucer, gli autori de Le mille e una notte), di girare film amatoriali (ma anche la Nouvelle Vague ad esempio metteva al primo posto una certa “amatorialità” tecnica), per sedurre lo spettatore, convinto di trovarsi di fronte ad opere di spessore, in quanto non convenzionali. C’è invece a chi fa comodo cavalcare la teoria del complottismo, della dietrologia, più affascinante, certi che dietro la morte del loro adorato poeta vi siano dei mandanti politici.

Come spesso accade ognuno si sente depositario della verità, emette giudizi di qualsiasi natura senza magari aver letto nulla di Pasolini, senza averlo compreso sino in fondo, pensando che egli sia uno dei tanti prodotti pseudoculturali che la sinistra radical chic ha propinato. Ma Pasolini non è stato uno dei tanti autori erto ad eroe nazionale in quanto uomo di sinistra, sinistra che lo ha spesso strumentalizzato e frainteso. Pasolini è stato un personaggio troppo complesso per poterlo liquidare come “prodotto della sinistra dunque genio indiscutibile e inattaccabile” (ma a differenza di molti suoi amici comunisti Pasolini era contro l’aborto), e non è stato compreso dalla massa. Ha scritto cose che oggi ci appaiono banali, ma per l’epoca in cui ha vissuto non lo erano affatto, si pensi alla poesia Vi odio, cari studenti a seguito degli scontri di Valle Giulia schierandosi dalla parte dei poliziotti, all’intuizione (che però fa parte del Pasolini maturo, non del Pasolini della Trilogia della Vita, che opponeva alla morte dell’anima, il corpo) del paradosso “sessuale” della generazione della metà del secolo scorso e la carica totalitaria della nuova sessualità con la quale il Potere tiene sotto scacco i giovani e li consuma, o ai pensieri sulla classe borghese: <<Ho passato la vita a odiare i vecchi borghesi moralisti, e adesso, precocemente devo odiare anche i loro figli… La borghesia si schiera sulle barricate contro sé stessa, i ‘figli di papà’ si rivoltano contro i ‘papà’. La meta degli studenti non è più la Rivoluzione ma la guerra civile. Sono dei borghesi rimasti tali e quali come i loro padri, hanno un senso legalitario della vita, sono profondamente conformisti. Per noi nati con l’idea della Rivoluzione sarebbe dignitoso rimanere attaccati a questo ideale>>.

Pasolini è stato un uomo fragile, consumato dai suoi mille desideri, dalla sue amarezze e dalle sue contraddizioni, un uomo che alla sua amica Oriana Fallaci diceva che avrebbe voluto avere 18 anni per vivere tutta una vita a New York, città che per lui, marxista indipendente convinto, non rappresentava un’evasione, ma un impegno, una guerra che mette addosso una grande voglia di fare. La letteratura americana non è mai piaciuta a Pasolini (anche se probabilmente gli sarebbero piaciuti Roth, Wallace e Don DeLillo), a differenza del cinema, quello che mostrava un’America violenta e brutale (come la periferia che ha raccontato lui in Ragazzi di vita, Accattone, Mamma Roma, Una vita violenta) che però non era l’America che Pasolini aveva visto, ritrovando al contrario un Paese pragmatico ma idealista dove c’è un grande rispetto per la cultura europea, e dove si scopre la sinistra più bella che un marxista possa, il quale in Italia o in Francia si sente una persona vuota, possa trovare. Ma l’America per Pasolini era anche un Paese misero, non economicamente, ma psicologicamente; una miseria da ex colonia, addirittura da sottoproletariato, secondo Pasolini, poiché vi è in tutti le stigmate della medesima origine sottoproletaria che a colpo d’occhio non si vede ma c’è.

Un uomo davvero vittima di un complotto e a tal proposito risulta emblematica una dichiarazione di Pasolini durante la sua ultima intervista, poche ore prima di morire a proposito delle teorie complottistiche: «Il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. È facile, è semplice, è la resistenza». Oppure un uomo che è morto come ha rischiato tante volte di morire, conducendo la stessa vita violenta che raccontava nelle sue opere rifiutando dunque l’immagine edulcorata del santo e martire?

L’importante è che non ci sia sempre l’idea dell’attentato di lesa maestà quando si critica con onestà intellettuale Pasolini e magari si afferma che vi sono stati scrittori e poeti italiani del ‘900, e registi più bravi di lui: Pasolini è stato un grande pensatore che ha anticipato i tempi, è stato saggista e linguistica, ha toccato diverse forme di arte, ma senza dubbio il cinema è stata quella in cui è riuscito meno, sopratuttto per quanto riguarda la cura della recitazione e la tecnica, d’altronde è stato lo stesso Pasolini a dichiarare che riprendeva la realtà senza filtri, ma sapeva poco di ottiche e di zoom, senza però dimenticare che Accattone (1961), esordio alla regia dello scrittore, è stata una delle opere più rappresentative degli anni ’60, nonostante lo stile ancora esitante. Pierpaolo Pasolini che è difficile immaginare come un molestatore di minorenni e persona (auto)lesionista, data la sua caratura e il suo ruolo nella società civile, farà sempre discutere ma il suo lascito culturale è prezioso e non può lasciare indifferenti, nel bene e nel male.

 

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