‘Nomadland’ di Zhao vince come era prevedibile gli Oscars 2021

Anche quest’anno si è tenuto il rito della consegna degli Oscars, evento sottotono per ovvi motivi, ma, come da qualche anno a questa parte quello che realmente comincia a scricchiolare è il coraggio con cui l’Academy e il mondo del cinema portano avanti le loro battaglie ideologiche, finendo per incepparsi in decisioni e produzioni cinematografiche animate dai più alti propositi e null’altro.

Ciò è accaduto l’anno scorso con la pellicola manierista Green Book: ciò si è verificato anche quest’anno, secondo i pronostici, con un film dalla commozione facile, indotta, quasi ricattatoria: Nomadland di Chloe Zhao, regista cinese che ha studiato a New York. Film indipendente, che batte bandiera americana, con la bravissima Frances McDormand.

Nomadland ha per protagonista gente che vive nelle roulotte e sbarca il lunario con lavori precari, spostandosi per i raccolti, facendo turni da massacranti anche sotto le feste. I turni di Amazon, ma non si parla male del colosso americano, né dei turni di lavoro. Amazon compra i film da mettere in streaming.

Nomadland era giù molto atteso a Venezia, dove ha conquistato il Leone d’Oro, tuttavia si è rivelato deludente. Non si tratta di un film di denuncia, e questo da un certo punto di vista può essere anche un bene, ma non ha abbastanza storie da vedere ed ascoltare per riempire due ore. Si vedono tante albe e tramonti che si fondono con le parole di un guri della libertà. La commozione facile è (quasi) sempre una carta vincente. Senza contare che la regista è una donna perfettamente integrata. Tutto perfetto. Film che manda in estasi coloro che non sopportano le solide fondamenta, soprattutto a parole.

Meglio sorvolare sul mancato Oscar ai meravigliosi costumi di Pinocchio a vantaggio di Ma Rainey’s Black Bottom, scelta anche questa politicamente corretta. Meritatissimo invece l’Oscar come miglior attore protagonista allo straordinario ultraottantenne Anthony Hopkins per la sua interpretazione in The Father, film che si è aggiudicato anche la migliore sceneggiatura non originale. Meritato anche il premio come miglior film d’animazione a Soul e migliori effetti speciali a Tenet di Nolan, che in un’altra vita avrebbe vinto (anche perché la Warner Bros. non ha fatto promozione al film, lasciandolo fuori dalla corsa agli Oscars, salvo qualche nomination tecnica), magari insieme a Richard Jewell di Eastwood.

L’impressione che si ha del cinema di oggi è quella di un mondo diviso a metà fra l’esigenza di incassare e quella di smuovere le coscienze, “umanizzare” o barbari,  finendo però inevitabilmente per sacrificare sempre di più quest’ultima in nome della prima e soprattutto in nome dell’arte.

Oscars 2021: tutti i premiati

  • Miglior film: Nomadland
  • Miglior regia: Chloé Zhao (Nomadland)
  • Miglior attore protagonista: Anthony Hopkins (The Father)
  • Miglior attrice protagonista: Frances McDormand (Nomadland)
  • Miglior attrice non protagonista: Youn Yuh-jung (Minari)
  • Miglior attore non protagonista: Daniel Kaluuyah (Judas and the Black Messiah)
  • Miglior sceneggiatura originale: Promising Young Woman
  • Miglior sceneggiatura non originale: The Father
  • Miglior fotografia: Mank
  • Miglior montaggio: Sound of Metal
  • Miglior scenografia: Mank
  • Migliori costumi: Ma Rainey’s Black Bottom
  • Miglior colonna sonora originale: Soul
  • Miglior canzone originale: Fight for You (Judas and the Black Messiah)
  • Miglior sonoro: Sound of Metal
  • Migliori effetti speciali: Tenet
  • Miglior film d’animazione: Soul
  • Miglior film straniero: Another Round
  • Miglior documentario: My Octopus Teacher
  • Miglior trucco e acconciatura: Ma Rainey’s Black Bottom
  • Miglior corto d’animazione: If Anything Happens I Love You
  • Miglior cortometraggio Two Distant Strangers
  • Miglior corto documentario: Colette

‘Pinocchio’ di Matteo Garrone: tra realismo popolare e gotico

Un Pinocchio che lotta contro la propria riconoscibilità universale, che vuole smarcarsi dal peso di un archivio monumentale. Un film di grandioso impatto figurativo e visionario che rischia per questo di mitigare la capacità di emozionare.

Il film di un maestro, tuttavia, perché pochi registi come Garrone saprebbero sorreggere l’equilibrio tra una prima parte di tono realistico popolare e la seconda improntata al gusto esoterico-mostruoso del romanzo gotico e nessuno di riuscire a presentare un Benigni contenutissimo, ligio al ruolo di Geppetto e con la debordante vena istrionica sostituita da un’umanissima e scompigliata naiveté da poverocristo finto padre.

Rimarchevole è, in questo senso, la differenza di stile tra il lungo prologo dai cui primi piani e dettagli sembrano propagarsi in sala le luci, gli odori, i suoni di un’età e una società arcaiche, rozze, sporche e tribolate e la corsa verso sottofinali e finale caratterizzata, invece, da campi lunghi o volute labirintiche. Un’altra scelta sacrilega, ma –fatti salvi i gusti individuali degli spettatori- sostanzialmente riuscita è quella di avere abbandonato l’iconografia classica del presepe collodiano dei prati e vigneti, pievi e borghi dell’entroterra toscano in favore di scenari pugliesi tutti ulivi, masserie e castelli semidiroccati stagliati su marine evocanti rotte orientaleggianti.

A una prima visione, il film sembra un po’ carente di una qualità di non poco conto e cioè della capacità di commuovere, turbare, appassionare. Non di stupire o di scioccare, sia chiaro, perché la resa spettacolare garantita dalla fotografia, il montaggio, le scenografie, i costumi, i designer e gli effetti visivi resta costante; senza dimenticare che accanto a Benigni e all’inquietante faccia di legno del Pinocchio nient’affatto accattivante del piccolo Ielapi molti degli attori –in primis il Gatto e la Volpe Papaleo e Ceccherini, la Timo governante lumaca, il Corvo e la Civetta dei fratelli Gallo, il perfetto grillo parlante dell’ex “Ciribiribi Kodak” Marotta, il giudice-scimmia Celio- si dimostrano all’altezza delle strepitose maschere che ne esasperano le indoli e deformano i connotati.

Lo slancio trasgressivo del Garrone lo si può trovare, in ogni caso, in passaggi e soluzioni di primaria importanza: l’attacco, più aggiornato rispetto a quello delle infinite versioni precedenti del romanzo, alla pedagogia scolastica ultra-permissiva (montessoriana?) e alla magistratura per nulla all’altezza della sua conclamata missione d’imparzialità; l’accentuazione in senso horror degli episodi degli assassini e l’impiccagione di Pinocchio o la spaventosa mutazione degli scapestrati monelli in asini; la normalizzazione operata dalla fatina sull’istinto ribelle del burattino che diventerà giudizioso forse in senso conformista e piccoloborghese.

E’ come se il regista romano avesse conservato per se stesso, per il proprio ruolo nascosto tra le quinte teatrali dell’allestimento quello che, per esempio, ha tolto stranamente al personaggio più eversivo della compagnia, il Lucignolo che non ha particolare rilievo nell’economia drammaturgica del film.

Il romanzo di formazione deve recuperare, così, quasi nel sottotesto del percorso puramente estetico il suo portato di “conoscenza amara, crudele e senza luce della realtà” a suo tempo segnalato da una celebre lettura di Pietro Citati.

Laico e profano in superficie, il film riserva la sua ultima sorpresa nella conclusione che rispetta il climax diventato ormai archetipico della fiaba, ma fa trapelare alquanto coraggiosamente la metafora cristiana della meccanicità della persona illuminata dall’aspirazione a dotarsi di un’anima. La fatina come operatrice del Mistero Mariano, insomma, che presiede alla ri-nascita del bambino sacro in simbiosi con un padre (Geppetto-Giuseppe) vecchio e infecondo col quale, ovviamente, non si è mai unita.

 

Fonte:

Pinocchio

La fine delle avventure di Renzocchio. Storia di un premierino

C’era una volta…
– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un presidente del consiglio.
O meglio, un presidente del consiglio dimissionario, di nome Renzocchio.

Sì, perché Renzocchio aveva solo da poche ore ricevuto la più grande batosta della vita sua. Una batosta sonorissima, enorme, semi-plebiscitaria e al momento giaceva sfranto e smarrito a culo molle sul sedile imbottito della poltroncina scarlatta collocata quasi al centro del suo gabinetto personale, però in procinto di essere a breve predisposto per qualchedun altro, per il suo successore, ancora ignoto. Subito dopo la consegna di quella cazzo di campanellina, il cui debole trillo sarebbe suonato alle sue orecchie come uno stuolo di campane a morto. E dire che era trascorso così poco tempo – appena un soffio! – da quando l’aveva a sua volta strappata di mano a un recalcitrante Enrico Letta, cui era subentrato con la gioia infame di un pargolo dispettoso, felice delle ulcere e dei traumi psico-somatici che quel colpo di mano avrebbe provocato nell’antipatico compagno di partito.

Era solo, Renzocchio, in penombra, camicia bianca, senza pantaloni, le scarpe nere tirate a lucido ancora addosso, le calze tenute su dai reggicalze elastici che col loro morso gli segnavano i polpacci. Lo sguardo perso nel vuoto, una mano penzoloni giù dal bracciolo, l’altra a reggere svogliata un cocktail analcolico a base di Red Bull, che si andava sempre più annacquando, man mano che il ghiaccio si scioglieva. Mille giorni! O giù di lì. E poi… aveva voluto puntare tutto su quel dannato referendum, il cui esito ora lo risucchiava giù, allo sprofondo, come un gorgo oscuro. Les jeux sont faits. Rien ne va plus.
«Non credevo mi odiassero così tanto…» gli scappò detto, a filo di voce. Si guardò subito intorno, gli occhi spalancati dal timore che qualche orecchio estraneo avesse potuto cogliere quella esclamazione di momentanea amarezza. Ma no, non c’era nessuno. Ciaone-Carbone stava guardando le registrazioni di Uomini e Donne per trovare qualche altra espressione giovanilistica da esibire in tale drammatica circostanza e risultare simpatico, Genny Migliore pensava: “Ma chi me lo ha fatto fare ad andare via da SEL..”. Paolo Romano chiedeva consiglio a Scilipoti, Maria Elena non la si era più vista: in pieno exit-poll l’era scomparsa, come una fatina, e insieme a lei anche la paresi facciale che l’ha accompagnata durante questi mille giorni. I tanti tirapiedi eran stati tenuti fuor dell’uscio: il capo voleva star solo, ‘un gli garbava di averli tra i piedi in quel frangente, dedicato alla riflessione introspettiva. Come in un saggio di yoga per principianti: Oooom, oooom, oooom…

«Italiani, popolo viziato…» attaccò a pensare a voce alta Renzocchio, scrutando il bicchiere tubolare che impugnava, «Puoi concedergli la luna, ma prima o poi ti getteranno via come una buccia di limone strizzato, basta che appena appena abbiano l’impressione che da te non c’è più nulla da cavare…»
«Quello che hai avuto tra le mani era un potere enorme…»
La voce rimbombò all’improvviso all’interno dello studiolo, senza che se ne potesse individuare con esattezza la provenienza.

Il premier dimissionario guardò tutto in giro, ma… niente, nessuno.
«La gente credeva in te. Si fidava. Per qualche tempo ti volle anche bene. Ti offrirono le proprie vite. Ma sai come va a finire questo genere di cose: qualsiasi luna di miele volge tragicamente al termine, quando non viene consumata per bene e nei tempi giusti…»
«Chi parla? Deh, chi parla?» cominciò a sbraitare lui, levandosi dalla poltroncina di scatto, in mutande, e lasciando cascare a terra il cocktailino, che si frantumò in mille gocce variopinte e altrettanti pezzi di vetro scintillante.
Nessuna risposta.
«E che potevano pretendere più ancora?» rispose allora lui, fissando un punto imprecisato del soffitto.
«Loro chiedevano pane e tu che gli hai dato? Brioche scadute da tre anni…» continuava la vocina, impertinente.
«Gli ho dato gli 80 euri in più dall’Inps, diobòno, gli ho abbassato l’Imu, gli ho abolito Equitalia…» cercava di difendersi il premier uscente.
«La disoccupazione è all’11,6%. Quella giovanile è superiore al 36%.»
«E io gli ho levato l’art. 18, per facilitare le assunzioni da parte delle imprese. Ci avevano già provato parecchi prima di me, ma l’è il mio governo che l’ha spuntata!»
«E così facendo avete annientato le già scarse tutele per i lavoratori e agevolato licenziamenti e buone uscite…».

A forza di udirla, quella strana voce cominciava a sembrargli sempre più familiare, ma, incalzato dal botta e risposta, soprassedé per replicarle, ostentando una certa fierezza: «Durante questo governo abbiamo macinato 660 nuovi posti di lavoro al giorno, oh bellino!»
«Quelli mica contano… Si tratta perlopiù di lavoretti temporanei pagati col voucher… Come quando fai venire la colf in casa a lavorare in nero e se, sul più bello, rimane fulminata col filo dell’aspirapolvere scoperto, prepari in corsa il voucherino prima di chiamare l’autoambulanza, così sei sicuro di non andare nelle grane…»

Cominciò a cercare dappertutto: sotto i cuscini, nei cassetti della scrivania in mogano, dietro il ritratto del Presidente della Repubblica. Intanto la voce proseguiva: «Avete continuato con le solite malversazioni, le solite ‘ndrine, gli intrallazzi, gli inciuci…»
«Ma come!» sbottò lui, simulando un qualche disappunto, tanto che buttava tutto sottosopra nella vana ricerca, «Ho pure reintrodotto il falso in bilancio io! E la responsabilità civile dei magistrati…»
«Tutta fuffa! Tutto fumo negli occhi! Il grosso ti sei ben guardato dal farlo. Gli inquisiti, le bustarelle, gli sprechi. Dovevate tagliarvi lo stipendio, dovevate falciare le spese. Quei soldi sarebbero serviti per il microcredito, per il reddito di cittadinanza…»
Ora aveva capito di chi si trattasse, ne era certo: lo avrebbe stanato a ogni costo!
Si mise a guardare anche negli anfratti più riposti, mentre continuava nel frattempo a discolparsi: «Grazie al mio governo ora hanno il divorzio breve, le unioni civili… Ho pure fatto rimpatriare quei due bucaioli di Marò, tanto per dare un contentino un po’ a tutti…»

«Eh, ma come vedi, alla fine i tuoi calcoli erano sbagliati: il popolo l’ha capita. Non le ha volute più le tue polpette avvelenate. Ha morso la mano che lo nutriva di alimenti adulterati! Ha capito che tutte queste belle novità erano la foglia di fico per nascondere e proteggere i soliti, vecchi poteri…»
«Basta con codeste bischerate!» sbottò il premier, alzando di colpo la lampada, da sotto la quale gli sembrava giungere la vocina. E infatti eccolo, là sotto, scoperto, l’esserino! Quel portavoce della coscienza a sei zampette: il Gryllus Loquens, in termini linneiani.

«T’ho beccato, oh grullo!» esclamò trionfante, agitando un pugno per aria.
«No… Grillo!» rettificò quello, mentre già il pugno chiuso del presidente ancora in carica gli si andava abbattendo addosso, cercando di spiaccicarne con tutta la forza l’esoscheletro.
Ma il Grillo ebbe la prontezza di caricare il peso sulle lunghe zampe posteriori e improvvisare un salto a parabola che lo salvò dal brutto colpo, che intanto andava a martellare a vuoto il tavolino, scuotendolo orribilmente.
«A presto rivederci!» fece in tempo a profetizzare l’esserino, mentre spariva dalla stanza attraverso chissà quale pertugio, lasciando l’altro a bocca aperta e con un palmo di naso.

Epilogo

Un mattino, al risveglio da elezioni inquiete, il presidente del consiglio si trovò trasformato in un enorme insetto ortottero.
Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, gli bastava alzare un po’ la testa per vedersi il ventre convesso, bruno, diviso da solchi arcuati. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante.
L’ultima copia di zampe in particolare era più lunga ancora delle altre. Queste ultime zampe erano stranamente seghettate nella parte interna. Il nuovo presidente del consiglio, del tutto spontaneamente, attaccò a sfregarle una contro l’altra: «Onestà! Onestà! Onestà!» prese così a frinire, in un crescendo che si fece ben presto assordante.

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