Maturità 2024. Per alcuni studenti comunisti Pirandello e Ungaretti sono propaganda fascista

Qualche settimana fa sono cominciate le prove per gli esami della Maturità 2024, tra le polemiche dei soliti che si dichiarano antifascisti da quando al governo c’è il centro-destra. Vedere giovani che inneggiano ai regimi comunisti più duri, nostalgici dei terroristi degli Anni di Piombo o dello stalinismo mentre vivono comodamente nel capitalismo fa sempre sorridere per non piangere. I gruppi Cambiare Rotta e Osa rappresentano le aggregazioni giovanili di Potere al Popolo e della Rete dei comunisti italiani, animatori delle proteste di piazza pro-Palestina e in difesa dell’ambiente tra un imbrattamento ad un monumento e scontri con la polizia, hanno deciso, dall’alto della loro sapienza che anche le tracce d’esame assegnate sono motivo di lotta, perché secondi loro, sarebbero propagandistiche.

Ungaretti e Pirandello tra le tracce d’esame: vade retro fascista!

Dunque la traccia di Giuseppe Ungaretti sula brutalità della Prima guerra mondiale è propaganda perché i “governi occidentali e il nostro ci portano nella nuova guerra mondiale, mandiamo armi e mezzi militari in Ucraina e Yemen, la Lega (di cui fa parte Valditara) propone la reintroduzione della leva militare per i giovani dai 18 ai 26 anni“. A proposito dei “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”, opera di Luigi Pirandello in cui lo scrittore svolge, disallineandosi dallo spirito positivista dei tempi, una sua polemica contro la macchina, colpevole, ai suoi occhi, di mercificare la vita e la natura, i rappresentanti di Osa hanno delirato: “Gli studenti sono mandati a morire in Alternanza e i tecnici e professionali sono stati fatti diventare delle appendici delle aziende”, scrivono i rappresentanti di Osa.

Ungaretti e Pirandello furono fascisti, ma non per questo non devono essere studiati e bannati alla maturità. Se gli studenti che gridano alla propaganda avessero studiato senza la lente della bieca ideologia di oggi il fascismo, ma soprattutto se lo avessero fatto prima i loro insegnanti, avrebbero compreso che i primi simpatizzanti del fascismo furono in realtà gli stessi antifascisti, come scrisse Longanesi nel suo celebre “In piedi e seduti”, e che certamente ci fu molto opportunismo come nell’adesione compatta dei professori universitari. Ciononostante le motivazioni degli intellettuali fascisti furono complesse e l’opportunismo non fu l’unica tra queste.

Rinfacciare a scrittori e scienziati l’adesione al PNF oggi, è da ignoranti livorosi che non hanno elaborato un pensiero maturo e libero, pensando di poter cancellare un pezzo di cultura italiana barricandosi nell’antifascismo. Nani disperati che vogliono mettere all’indice i giganti.

Tuttavia è bene ricordare che Ungaretti rimase legato al regime almeno fino all’annuncio dell’Armistizio con gli Alleati nel settembre 1943 e che l’ammirazione per Mussolini non impedì al poeta di solidarizzare con scrittori antifascisti ed ebrei in difficoltà. Con questo stesso approccio, nel dopoguerra, Ungaretti si avvicinò poi alla Democrazia Cristiana chiedendo – proprio come aveva fatto con Mussolini– attenzione per sé e per tanti artisti da lui apprezzati. Ungaretti non fu un servo del fascismo come tanti che poi si proclamarono antifascisti a Duce morto.

Per quanto riguarda Pirandello, gli studenti indignati, dovrebbero sapere che il grande autore siciliano, era contrario a un’arte fascista, in aperto dissenso con Mussolini. Questa clamorosa difesa della libertà dell’arte, contenuta in una ignorata intervista del 1927, restituisce dignità al ritratto consegnato da Sciascia di un Pirandello debole e opportunista sebbene speranzosi di ricevere supporto per il suo teatro. Pirandello aveva subordinato l’adesione al Partito fascista alla condizione che il suo nome fosse escluso dalla lista dei senatori, proprio per evitare che il suo gesto potesse apparire interessato.

Profetiche le parole Giuseppe Berto, altro scrittore del ‘900 dimenticato: <<Per gli antifascisti, infatti, avere qualsiasi forma di colloquio con qualcuno diverso da loro è segno di fascismo>>.

 

‘Uno, nessuno e centomila’: l’intuizione pirandelliana diviene misticismo cosmico

Il romanzo Uno, nessuno e centomila, come tutta l’opera di Pirandello, può essere guardato da due lati: quello del chiarimento filosofico in quanto non esige necessariamente la rappresentazione artistica, ma può sostenersi, ed essere considerato per se, e il lato artistico, che è tale in quanto il fondo dell’opera, si è concretizzato in caratteri e figure. La divergenza nasce da questo duplice punto di vista che si può facilmente assumere di fronte alla sua opera di pensatore e di poeta. Il lato più filosofico di Uno, nessuno e centomila si configura nella presunzione che la realtà debba essere e sia ugualmente per tutti gli altri. Tutti gli eroi pirandelliani hanno più o meno chiara, la coscienza di questa presunzione.

Trascinati dal fiume della vita, i personaggi pirandelliani sanno che possono conoscere solo ciò a cui riescono a dare forma, ma sanno anche che una forma, appena è, cessa di essere vera e diventa subito una maschera, una smorfia, una statua inerte, vuota. Se chi contempla questi personaggi crede di contemplare in essi la vita, si inganna. Ed ecco che un uomo può essere uno, nessuno e centomila e non solo per gli altri, che per conoscerci ci devono fissare in una forma, ma anche per noi stessi che pensavamo di essere “uno solo per tutti”; e ad un tratto ci accorgiamo che siamo centomila. Dov’è dunque la verità?

Uno, nessuno e centomila: trama, interpretazione e linguaggio

Vitangelo Moscarda, l’eroe del romanzo, si accorge che non è più quello che credeva di essere perché s’avvede ad un tratto che la moglie gli scorge un difetto che lui non sapeva di avere, ovvero un naso leggermente storto; pretesto futile, cercato appositamente e banalissimo. Chi infatti non potrebbe trovarsi in un caso simile? Ma tale difetto, che per un altro poteva appena essere un caso da novelletta grottesca, per Vitangelo Moscarda diventa una scoperta risolutiva. Egli scopre cioè che la moglie aveva di lui un’idea diversa da quella che credeva e cessa di essere “uno per tutti”. Ma la scoperta si allarga: passa dal fisico al morale, diventa un’idea fissa sulla quale Moscarda ricava non solo una nozione di indole morale, ma un sentimento sempre più profondo e disperato. E qui sorge la sua vitalità artistica. Egli infatti non sa solo che non è più “uno” ma vuole cogliersi di sorpresa in un momento d’azione spontanea. Allora si guarda allo specchio e vede per un attimo una figura che non è la sua. Che sarà dunque di se nello specchio degli altri?

Sarà una cristallizzazione diversa a seconda di quanti sono quelli che lo conoscono: per la moglie sarà Gegè, sfaccendato e un po’ sciocco, per gli altri sarà il “buon figlio feroce” del banchiere arricchito con l’usura, per tutti insomma non sarà nulla di ciò che egli crede di essere, come per se stesso non sa più chi sia. Questa è la situazione tragica del romanzo Uno, nessuno e centomila.

Ora questa consapevolezza, che in lui si fa sempre più vasta è naturale che lo spinga a rompere clamorosamente quella statua che gli altri si sono fatta di lui falsamente per poterlo riconoscere. Padrone della banca, irromperà dunque un giorno nel chiuso ambiente dove dominano due amici di suo padre, per compiere un atto che serva a cancellare di botto il ritratto che di lui circola nella città. Tutte le azione che compierà Vitangelo non sono che conseguenze di tale convinzione. La macchina è montata e si fermerà solo quando il Vitangelo potrà ritirare i suoi capitali dalla banca e darli in opere di beneficenza; azione fatta di proposito in quanto serve al protagonista del romanzo, insieme ad un incidente fortuito con un’amica della moglie, per rovesciare totalmente la situazione, accreditando i più diversi pareri. Quando comparirà in pubblico per l’ultima volta, egli sarà un Moscarda buffo, “con il berretto, gli zoccoli e il camiciotto turchino dell’ospizio”. Ed ecco che la seconda forma ha distrutto definitivamente la prima. Ora Vitangelo Moscarda è sgombro e nuovo.

Vitangelo Moscarda vuole vivere, non pensare, vuole ignorare le forme e gli esseri:

“Nessun nome, nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri, del nome di oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi e il concetto di ogni cosa posta fuori di noi, e senza il nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini, ciascuno incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quell’immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. […].

Vitangelo Moscarda dunque vuole sfuggire al problema e cerca di non vederlo: “Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire”. Tornare natura. Questa è la risposta che dà Pirandello in Uno, nessuno e centomila. La verità è nella natura, in una natura non intaccata dal pensiero. La posizione è quindi romantica, cosa significa infatti impedire che il pensiero si metta di nuovo a lavorare? Significa gettarsi nel mare delle cose, tuffarsi, senza più coscienza, nel tumulto fluente e vario della natura. Pirandello applica Rousseau con estrema conseguenza: non più fede nella ragione e nell’intelletto, pensare è male, perché vuol dire costruire, mentre l’anima è fuggita appena l’uomo ha voluto rinchiuderla in una forma. A Vitangelo Moscarda il Dio di pietra non dice nulla, il suo Dio è un altro, quello senza chiese, senza regole e liturgie. Ma siccome anche la natura è per l’uomo una costruzione pratica, l’eroe di Uno, nessuno e centomila non ha fede che in quel sotterraneo e fluido slancio vitale che è al di sotto di tutte le cose che hanno un nome e una fisionomia. L’intuizione pirandelliana sfocia in un misticismo cosmico e panteistico. La confessione di Moscarda si può dividere in due parti: nella prima egli è tutto preso nella scoperta della sua idea fissa e il linguaggio è di conseguenza astratto e raziocinante; nella seconda, dal momento in cui il protagonista scatena i fatti, il linguaggio diventa pienamente rappresentativo e spesso lirico.

La realtà, distrutta dal cervello, torna quasi stupita a ricolorirsi di vita, a ripalpitare. Calmatosi l’uragano logico, Moscarda torna a vedere, a intuire, a contemplare le cose e gli uomini. Vitangelo Moscarda ci suggerisce la visione tanto più spaventosa quanto più lucida dell’irrimediabile nostra solitudine che per l’eterno miracolo dell’arte, ci si ripopola di esseri e di forme, di apparenze e di vita. Dida e Quantorzo, Anna Rosa e Monsignore, il canonico Sclepis e il giudice ci dicono, con la loro presenza evocata dalla fantasia, che la realtà è più forte di tutti i deliri e i tormenti del cervello, e contraddicono in pieno il disperato proposito del protagonista di Uno, nessuno e centomila.

Nessun nome. Ma l’arte nomina, e Vitangelo Moscarda non può sottrarsi al destino dei viventi che, anche solo per un attimo, certamente, pur non desiderandolo, divengono persone, individui, statue.

 

Bibliografia: G. Titta Rosa, Vita letteraria del Novecento, V. III.

Pirandello chiede a D’Annunzio di entrare nel Governo Gentiloni

Maria Elena Boschi, la nuova, si fa per dire, componente del governo (in realtà è nuovo solo il governo, in realtà neanche il governo), comunque… la Boschi ottiene che Gabriele D’Annunzio apra il cancello del Vittoriale e bussa al portone.

D’annunzio: Chi è?

Boschi: Governo Gentiloni.

D’Annunzio: Chi!!??

Boschi: Gentiloni.

D’Annunzio: E chi è?

Boschi: Il presidente del consiglio.

D’Annunzio: Pensavo fosse Renzi.

Boschi: Sì, infatti.

D’Annunzio: Ma come? Ha detto che è Gentiloni.

Boschi: Sì, infatti, diciamo che lo sono tutti e due.

D’Annunzio apre la porta, ma più o meno era un portone grande quanto l’ego che aveva, e per aprirne anche una sola anta gli ci vuole l’aiuto di altri tre camerieri.

D’Annunzio: Buongiorno, ecco, mi scusi, ma queste porte sono vecchie e pesano.

Boschi: Certo, capisco, anche a Palazzo Chigi, le chiudiamo solo in presenza dei cittadini normali, altrimenti le teniamo sempre aperte, così possono entrare cani e porci.

D’Annunzio: Ehm… lo vedo. – disse osservando l’interlocutrice. – Comunque, che cosa vuole?

Boschi: Non posso dirglielo subito, devo prima appurarmi che lei sia effettivamente Gabriele d’Annunzio.

D’Annunzio: Ma scherza!? Come osa non conoscermi, non ha studiato?

Boschi: No. – ammette candidamente lei.

E mentre D’Annunzio rimane perplesso, lei inizia con le domande di rito del nuovo programma televisivo del governo Gentiloni: “C’è un governo per te”, in onda da genaio a sperano il più lontano possibile.

Boschi: Allora comincio:

E’ lei quello che ha perso un occhio durante la prima guerra mondiale? – disse quel nome come se lo sentisse per la prima volta.

D’Annunzio: Secondo lei la benda sull’occhio la porta per estetica?

Boschi: Beh, conoscendo il tipo, potrebbe. Comunque, seconda domanda:

E’ lei quello che apostrofò il Presidente del consiglio Nitti con il nome di Cagoja?

D’Annunzio annuisce.

Boschi: Perfetto, è lei che a Fiume si occupò del governo della città con la carica di…

D’Annunzio: Presidente!

Boschi: Qui mi risulta proto-dittatore.

D’Annunzio: Sbagliato! Ero voluto da tutti.

Boschi: Non lo so, qui ho segnato proto-dittatore, e mi creda di proto-dittatori me ne intendo, sicuro di voler confermare presidente?

D’Annunzio: Allora direi vate.

Boschi: Water?

D’Annunzio: Come!?

Boschi: Scherzo, scusi ogni tanto scherziamo anche noi.

D’Annunzio: Soprattutto quando scrivete le leggi ho saputo, tipo la sua sulla costituzione, oppure la riforma madia… spero fossero scherzi. – rispose alla provocazione.

Boschi: Non sono qui per essere provocata, ma per convocarla. Comunque visto che lei è effettivamente Gabriele d’Annunzio, la invito definitivamente al nostro programma. Tenga la lettera e grazie.

Gabriele la prende senza dire prego, né arrivederci.

In studio a canale 5

Un postino, un uomo che ha sempre fatto daponte fra gli schieramenti, di nome Denis Verdini, aspetta all’entrata del set, mentre la Boschi conduce.

Boschi: Allora Denis, alla fine si è presentato il signor Gabriele d’Annunzio?

Verdini: Sì Maria, Gabriele d’Annunzio è qui!

D’Annunzio entra in divisa militare, con passo marziale e atteggiamento marziano.

Boschi: Cos’è signor d’Annunzio, si è fatto male all’occhio?

D’Annunzio: Ancora? Le ho già detto che è una ferita di guerra.

Boschi: C’è una guerra!?

D’Annunzio la guardò spaesato: Lasci perdere.

Boschi: Beh, mi dispiace per l’occhio a nome del governo.

Poi la Boschi si rivolge a Verdini: Scusa non mi convince questa storia della guerra, chiedi alla Pinotti… aspetta, la Pinotti è ancora il ministro della difesa?

Verdini: Sì.

Boschi: Ok, chiedi anche al ministro degli esteri, Gentiloni.

Verdini imbarazzato: ora lei è ministro del governo Gentiloni, cioè Gentiloni è presidente del consiglio.

Boschi: Ah è vero, è che mi sembra sempre tutto uguale, ma allora chi è ministro degli esteri?

Verdini: Alfano.

Boschi: Ma lui si intende anche di esteri? Non stava agli interni?

Verdini: No, non si intende di esteri, ma non si intendeva neanche di interni, quindi si poteva spostare.

Boschi: Sì, ora torna tutto. Beh, allora chiedi anche ad Alfano su questa guerra: ho sentito D’Annunzio chiamarla prima guerra mondiale, voglio sapere contro chi e con chi stiamo combattendo.

Verdini è ancora più imbarazzato, si limita a dire: Vado.

D’Annunzio: Non le chiedo a nome di quale governo si dispiace, tanto lei non si è dimessa comunque.

Boschi: Esatto! – lo prende  come un complimento.

D’Annunzio ci rinuncia: Mi siedo qui. – ed indicò il divano alla destra della busta da lettere enorme, che lo separava da chi lo aveva invitato.

Boschi: Allora, è pronto a vedere chi l’ha chiamata?

D’Annunzio: No, sono venuto a fare due passi. – la derise lui.

Boschi: Mi scusi signor water – e lo chiama così volutamente – ma devo proprio farlo prima di aprire la busta.

D’Annunzio: Cosa? – chiede lui, mentre lei si avvicina con passo svelto e deciso e, giunta davanti a lui, gli molla un ceffone che gli sposta la testa e tutta la benda.

Boschi: Sa? E’ ora chelei capisca che sono viscida, ambiziosa, scaltra, ma sicuramente non stupida, quindi alla prossima battuta Denis la accompagnerà fuori di qui e la costringerà a trasferire il suo conto in Banca Etruria.

Lo schiaffo era stato umiliante, ma Banca Etruria gli sembra anche peggio… è terrorizzato.

D’Annunzio: D’accordo, mi scusi.

Boschi: Niente. – e continuò a sorridergli sempre cortese e falsa – Allora aprite la busta.

Dopo un po’ di silenzio in cui D’Annunzio guardò chi lo aveva chiamato…

Boschi: Allora, lo riconosce?

D’Annunzio: Certo! Luigi Pirandello… Luigi perché mi hai fatto chiamare?

Pirandello: Perché tu ti sei chiuso nella tua proprietà e ti disinteressi dei destini d’Italia, volevo chiederti se ti va di entrare nel nuovo governo come sottosegretario agli strilli e alla parolacce, è una delle strategie del nuovo governo: combattere Grillo sullo stesso piano degli insulti,anche noi iniziamo a insultare. Gentiloni ha letto la tua citazione su Giolitti “ansimante leccatore di sudici piedi prussiani” gli sembra che tu abbia talento. Quindi sono qui per comunicarti che “C’è un governo per te!”

D’Annunzio: C’è un governo per me? – gli sembrava tutto uno scherzo, guardò inebetito sia Pirandello che la Boschi, che continuava a sorridere.

Boschi: Allora la togliamo questa busta? Accetta?

D’Annunzio: Io…

Due settimane dopo un aereo vola su Vienna e getta dei volantini. Sopra c’è scritto:

Cerco riparo in Austria, chiedo scusa per avervi sconfitto nel ‘18, oggi l’impero non mi sembra più così brutto.

Improvvisamente vostro,

Gabriele d’Annunzio

L’esclusa: i pregiudizi della società secondo Pirandello

Originariamente intitolato Marta Ajala, L’esclusa è il primo romanzo di Luigi Pirandello. Finito di scrivere nel 1893, fu pubblicato a puntate sulla rivista La Tribuna e nel 1908 in volume. Si tratta di un romanzo di vita provinciale, scritto in un periodo della nostra storia letteraria in cui l’analisi psicologica era esercitata dall’esterno, e si risolveva in ritratti più che in rappresentazione di caratteri, oppure sfociava in verbalismi coloriti e ricercati. Con L’esclusa, Pirandello non ubbidisce a tesi naturalistiche o a schemi narrativi caduchi; ci presenta invece un quadro di vita concreta, dinamico, vivacizzato dal gioco reale dei sentimenti, frutto del vivo intuito di Pirandello.

La grande accuratezza con cui sono collocati personaggi e oggetti (così come si evince in tutti i romanzi dello scrittore siciliano), la precisione impersonale della messa in scena e la minuta descrizione didascalica evidenziano l’impostazione teatrale dell’opera. Non a caso da L’esclusa, Pirandello ricavò la commedia L’uomo, la bestia e la virtù, portata in scena nel 1919.

L’esclusa: trama del romanzo

L’opera affonda le sue radici in una cittadina della provincia siciliana durante gli ultimi anni dell’800. L’autore infatti  lavora sullo sfondo tipico della letteratura verista, ricca di dinamiche sociali ben descritte nei loro pregiudizi e nelle loro sanzioni; a questo aggiunge una vicenda che rimanda ai paradossi del dramma esistenziale, del contrasto fra sostanza e apparenza. Qui la condotta del singolo si basa sul “cosa dirà la gente”, il timore dello scandalo diventa il credo su cui impostare la propria vita e le proprie relazioni. L’arretratezza e l’ignoranza della gente assecondano le maldicenze, la curiosità e l’ipocrisia. Al pregiudizio si accostano il formalismo e il maschilismo.

La società delineata da Pirandello nell’Esclusa evidenzia come il matrimonio si riduca a rapporti gerarchici precostituiti dove l’uomo è il padre-padrone e la donna un soprammobile in attesa di sistemazione. Il rapporto di coppia esclude ogni forma di dialogo aperto ed egualitario, coprendo sotto la vernice del formalismo gli impulsi e i sentimenti autentici. Dal romanzo emerge anche il relativismo conoscitivo, ovvero l’esistenza di diverse realtà soggettive; i personaggi sono dunque certi di possedere la verità, dimostrando l’inesistenza di una realtà oggettiva.

Protagonista della vicenda è la giovane Marta sposata con Rocco Pentagora. Pur essendo incinta del marito, la ragazza viene scacciata da questi perché ritenuta colpevole di adulterio. Il fondamento di questa pesante accusa è la corrispondenza ( più filosofico-letteraria che amorosa), che la giovane ha avuto con un suo ammiratore, l’avvocato Gregorio Alvignani. Marta è disprezzata da tutti e nemmeno in famiglia riesce a trovare comprensione per la sua sfortunata condizione. Iniziano così una serie di disgrazie che colpiscono la famiglia Ajala: la morte del padre Francesco, la nascita di un bimbo senza vita, la malattia di Marta, il tracollo economico dovuto al fallimento della conceria, che dopo la morte del padre fu affidata a Paolo Sistri.

Ripresasi, Marta non si abbandona alla commiserazione, ma riprende gli studi (sostenuta dalla madre Agata e dall’unica amica rimastale, Anna) e vince il concorso per insegnare all’Istituto magistrale della sua città. Rappresentando questo un malcontento per molti, Marta venne trasferita a Palermo.

Inizia qui la seconda parte del romanzo che si sviluppa nell’anonimato della grande città. Marta tenta con fatica e dignità di ricostruirsi una vita, senza tuttavia nascondere il brutto passato che la tormenta. La sua bellezza però attira le attenzioni, per altro non gradite, di molti colleghi; ma il caso le fa incontrare nuovamente Gregorio Alvignani divenendo questa volta la sua amante. Intanto Rocco, ormai convintosi dell’innocenza della moglie, farà di tutto per incontrarla e riportarla a casa.

Stile e tematiche

La narrazione de L’esclusa è caratterizzata da ampie descrizioni, prediligendo soprattutto l’aspetto psicologico, sociale e culturale. Si alternano quindi sequenze descrittive e riflessive, lasciando poco spazio a quelle narrative. Il linguaggio utilizzato è caratterizzato dal dialetto e frequente è l’uso di metafore, similitudine e iperboli.

Tuttavia, se si vuole cercare del pirandellismo in questo romanzo, con tutta l’ideologia che esso trascina con se, dalla doppia personalità fino al relativismo morale e diciamo pure filosofico, il lettore si può compiacere di riflettere a ciò che dice il prof. Blandino o la protagonista Marta verso la fine della sua disgraziata vicenda:

Come abbiamo giudicato noi Francesco Ajala? Lo abbiamo giudicato con il vocabolario di cui comunemente ci serviamo parlado di obblighi e di doveri, cioè senza penetrare affatto nel codice particolare prescritto a lui dalla sua stessa natura e redatto dalla sua educazione. Purtroppo noi giudichiamo in questo modo!

Dice poi Marta al marito: << Che sono io ora? Mi vedi? Che sono…Sono ciò che la gente, per causa tua, mi ha creduta e mi crede ancora e sempre mi crederebbe, anche se io accettassi ora il tuo pentimento! E’ troppo tardi: lo intendi? Sono perduta! Ero sola, mi avete perseguitata..ero sola e senza aiuto. Ora sono perduta!>>.

Il punto cruciale de L’esclusa sta nella scena in cui Rocco, il marito di Marta, sorprende la moglie che legge una lettera gettatale dalla finestra dal giovane Alvignani. Era una lettera innocente, sfogo di una simpatia che non avrebbe avuto seguito, ma la cieca gelosia di Rocco e l’orgoglio istintivo di Marta hanno impedito una rapida spiegazione tra loro. Potevano spiegarsi subito dunque invece di passare l’uno per cornuto per tutto il romanzo senza esserlo e l’altra quella dell’adultera, che non sarebbe mai diventata. Ma Pirandello sembra volerci dire che i sentimenti e gli istinti sono quelli che sono e un romanziere ha il dovere di rappresentarli come sono.

L’esclusa è un’opera del primissimo Pirandello e non è il caso di stabilire dei paragoni con altre sue opere più celebri perché vorrebbe dire fare della critica accademica e classificatrice. Il tema fondamentale de L’esclusa è ovviamente quello dell’incomprensione e del malinteso che allargato fino all’estremo da una logica rigida può anche suggerire  quello, tipicamente pirandelliana, della fatale solitudine e incomprensione reciproca degli essere umani; ma è anche, il tema fondamentale, quello umanissimo dell’eterna gelosia e dell’eterno orgoglio, collocato in un ambiente adattissimo a scavare tra essi un abissso sempre più profondo. Ambiente che in questo romanzo ha un proprio peso ma non giustifica tutta la vicenda, ma concorre a crearla e a sostenerla in un vivo intreccio drammatico.

Il valore de L’esclusa consiste in un’aderenza costante alla genesi dei sentimenti impersonati da Marta e dalle figure che la circondano. I personaggi di primo piano e di sfondo concorrono tutti con una logica naturale al risalto della figura di Marta, il cui svolgimento psicologico non ha nessuna aridità ma ripete il ritmo della vita.

La biblioteca del Fu Mattia Pascal

A fare da sfondo scenografico alle due Premesse del notissimo Il Fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello è una biblioteca, utilizzata come un originale cronotopo: essa significa uno spazio fuori dello spazio e un tempo fuori del tempo, lo spazio e il tempo in cui si svolge la narrazione. Qui il protagonista “defunto” scrive la sua storia.

La biblioteca funge da teatro di una serie di paradossali defunzioni, siglate da quelle modalità proprie di quel sentimento che di li a qualche anno nel saggio L’umorismo, Pirandello avrebbe teorizzato come “sentimento del contrario”, ponendolo alla base della sua intera poetica. Le defunzioni riguardano prima di tutto la biblioteca come luogo dove è disatteso il rito della lettura e della scrittura di un testo destinato a mescolarsi all’esistenza degli altri testi sepolti nella polvere, ma che solo in quel luogo può essere concepito.

Sotto il segno del <<fu>> , sono coinvolti il personaggio, l’io narrante e la pratica stessa del romanzo redatto quando si certifica l’eclissi del suo ufficio. La biblioteca costituisce il fondale dei primi due capitoli del romanzo che, con l’ultimo, formano la cornice della narrazione di cui è protagonista un uomo divenuto estraneo alla vita e delegato al racconto di essa, narrando la vita delle tre identità in gioco nella storia.

La biblioteca in questione, di Boccamazza è deformata umoristicamente, sita nell’immaginario paesino di Miragno; la sua rappresentazione è resa ancora più grottesca dalla presenza di “cinque preti della vicina cattedrale e di tre carabinieri dell’attigua caserma” intenti presso un tavolo polveroso “a divorare un’insalata di cocomeri e pomodori”. Ai loro occhi di commensali l’occasionale visitatore, ovvero il fu Mattia Pascal, appare come “una bestia rara e insieme molesta”.

La narrativa pirandelliana è costellata di biblioteche; nello stesso Fu Mattia Pascal, un’altra biblioteca, quella piccola di Anselmo Paleari, finalizzata al sapere teosofico e all’esoterismo, “serve come un fondale scenico per dare risalto all’istrionismo del personaggio”, come ha notato lo studioso Borsellino. A ridosso del romanzo del 1904 la novella L’eresia catara mette in scena la biblioteca del professor Lamis; qualche anno dopo ci si imbatte della biblioteca del visionario Valeriano Balicci , il protagonista di Mondo di carta. Nel romanzo I vecchi e i giovani, nel villino di via Sommacampagna, è posta la “ricca biblioteca” dove Lando Lauretano “soleva passare parecchie ore al giorno”. La tradizione umoristica di Pirandello include una vasta formalizzazione del tema della biblioteca a cominciare dalla libreria del don Chisciotte, folta di centinaia di romanzi cavallereschi, passando a quelle in cui si imbatte il lettore dei Promessi Sposi: lo scaffale di libri vecchi di Azzeccagarbugli, l’anonima libreria di un curato di campagna, lo studio di don Ferrante, l’imponente Ambrosiana. A questa serie si aggiungono Il barone di Nicastro di Nievo che nasce e finisce in una polverosa biblioteca e l‘incipit della Vita di Alberto Pisani di Carlo Dossi, dove il lettore è invitato sulla scena di una biblioteca votata all’apoteosi di un sapere ciarlatanesco.

La biblioteca configura uno spazio separato dalla vita; essa trova il suo riflesso speculare non solo nel cimitero dove il protagonista si reca a rendere omaggio alla propria salma fittizia, ma anche nel letto dove è morta la madre e dove egli ora va a dormire ogni sera. Dalla sua prospettiva intemporale, Mattia non può avviare una vicenda esistenziale, può solo raccontarne una trascorsa. Ricusando ogni impegno identitario, tirandosi fuori dallo spazio diegetico del romanzo per farsi narratore, il fu Mattia Pascal sceglie come palcoscenico della sua prova narrativa una biblioteca in cui non si celebra più il culto che le dovrebbe essere proprio , ovvero quello della memoria.

Il romanzo mette in atto una narrazione centrifuga, digressiva impossibilitata a ricostruire, a concludere,, trovando rifugio tra i bislacchi detriti della memoria culturale, predisponendoli ad un amalgama casuale, illogica dove vige la regola tutto e il suo contrario. Il riordino dei libri inutili ammassati nella biblioteca, si svolge secondo il ritmo parodico di una pantomimica gestualità:

Molti libri curiosi e piacevolissimi don Eligio Pellegrinotto, arrampicato tutto il giorno su una scala da lampionajo, ha pescato negli scaffali della biblioteca. Ogni qualvolta ne trova uno, lo lancia dall’alto, con garbo sul tavolone che sta in mezzo […].

Il bibliotecario, che dovrebbe officiare il culto della memoria custodita dai libri, fuoriesce dall’abside, in cui si è autosepolto; l’oggetto libro è sconsacrato; in questo senso quella attuata da Il fu Mattia Pascal è una scrittura sotto il marchio del doppio, dove accanto al finto defunto e al finto bibliotecario, nonché fittizio vate dell’arte, è di scena un vero sacerdote, anch’egli custode della biblioteca. Se i nomi dei personaggi rispondono ad un evidente gioco umoristico, quello di don Eligio Pellegrinotto allude al suo essere ligio alla tradizione.

 

Bibliografia: A. Saccone, Qui vive/sepolto/un poeta, Liguori editore.

La dimensione civile di Carlo Michelstaedter

Carlo Raimondo Michelstaedter nasce a Gorizia il 3 Giugno del 1887 da una famiglia di origine ebraica. Viene educato presso un convento religioso e dopo essersi iscritto alla facoltà di matematica presso l’università di Vienna,  frequenta l’accademia di belle arti e si avvia agli studi di filosofia nella città di Firenze. Michelstaedter legge D’Annunzio, Leopardi, Tolstoj, Ibsen, Parmenide, Sofocle, Eschilo, Schopenhauer, senza ombra di dubbio per lui determinanti. Ritenuto un esistenzialista ante-litteram, nelle sue opere Dialogo della salute e Poesie vengono analizzati i temi già studiati durante la sua gioventù, ossia la tragicità della morte così temuta ma vista anche come traguardo dell’esistenza e affermazione di sé. L’uomo, secondo Michelstaedter, risulta diviso tra realtà e mistificazione di essa, tra vita e morte in antitesi.

La corrente letteraria che meglio può aiutarci a comprendere la sua formazione di tipo tardo-romantico è il decadentismo, dentro cui egli segnò una netta divisione tra il trionfo della storia dell’uomo e la consapevolezza della sua miseria e vanità. Ancora una volta abisso, inquietudine e dualismo. Considerato uno dei più grandi pensatori del primo novecento, la sua filosofia esistenzialista condanna la società in cui ai reali valori si sono sostituiti ormai i timori e l’angoscia che pervade l’uomo fino a svuotarlo;  Michelstaedter si dichiara infatti contrario all’organizzazione sociale in quanto corromperebbe l’uomo al quale invece spetta la ‘persuasione’ e la libertà da ogni tipo di vincolo.

Ne La Persuasione e la Rettorica (anche sua tesi di laurea) l’uomo infatti è paragonato ad un peso legato ad un gancio che pende ed il suo desiderio è quello di scendere sempre più in basso, in un conflitto dove la rettorica è non-essere e la persuasione è essere, l’unica strada da seguire con un grande atto di volontà e di amore esclusivo verso se stessi. La dannazione umana, il non bastare a se stessi, la rassegnazione a tutto questo, trovano, potremmo dire, una giustificazione filosofica che non è certamente nuova ma che ci permette di collocare l’autore al fianco di Pirandello e in contrapposizione al Croce e alla sua teoria della ”sistemazione”.

Nell’opera All’Isonzo l’autore è sempre più schiavo delle sue nevrosi e questo lo si evince dal simbolismo di cui si serve quando sceglie il mare o il vento per rappresentare la sua profonda crisi interiore, quindi la natura, privato però, in quanto umano, del privilegio dell’alternanza tra luce e buio. Esemplari sono i versi contenuti nel testo Nostalgia : “Che mi giova, o natura luminosa, l’armonia del tuo gioco senza cure?”.  Noi attendiamo il momento della luce, pur vivendo nell’oscurità ed essendone abituati.

Michelstaedter compie un vero e proprio viaggio nella psiche dell’uomo, probabilmente ascetico ed individualista. Certo è chiara l’influenza del pensiero leopardiano in alcuni stilemi adottati, nel suo procedere oltre il lamento, nel suo bisogno estremo di andare a fondo. Gli autori ai quali si ispira vengono chiamati da Michelstaedter stesso ”veri pessimisti” e al primo posto c’è sicuramente Petrarca, tra i pochi in grado di scandagliare tra i dolori dell’esistenza. Chi non chiede la vita e non teme la morte dev’essere disposto a dare tutto, senza chiedere niente. Questa la sua etica, anche quando sarà costretto ad accettare il suicidio di persone care come rinuncia.

Autore, filosofo, ”poeta civile”, Michelstaedter, scrivendo, racconta il malessere ed i tumulti dell’animo, lo fa costantemente, finquando l’insoddisfazione, il dolore o, pare, la consapevolezza di essere gravemente ammalato non lo spingono a reagire con la rivoltella, si suicida infatti in un caldo pomeriggio di ottobre del 1910. Le sue opere ci sono giunte postume, perché prive fino alla fine della forma alla quale ambiva.

 

Se camminando vado solitario

Se camminando vado solitario
per campagne deserte e abbandonate
se parlo con gli amici, di risate
ebbri, e di vita,

se studio, o sogno, se lavoro o rido
o se uno slancio d’arte mi trasporta
se miro la natura ora risorta
a vita nuova,

Te sola, del mio cor dominatrice
te sola penso, a te freme ogni fibra
a te il pensiero unicamente vibra
a te adorata.

A te mi spinge con crescente furia
una forza che pria non m’era nota,
senza di te la vita mi par vuota
triste ed oscura.

Ogni energia latente in me si sveglia
all’appello possente dell’amore,
vorrei che tu vedessi entro al mio cuore
la fiamma ardente.

Vorrei levarmi verso l’infinito
etere e a lui gridar la mia passione,
vorrei comunicar la ribellione
all’universo.

Vorrei che la natura palpitasse
del palpito che l’animo mi scuote…
vorrei che nelle tue pupille immote
splendesse amore. –

Ma dimmi, perché sfuggi tu il mio sguardo
fanciulla? O tu non lo comprendi ancora
il fuoco che possente mi divora?…
e tu l’accendi…

Non trovo pace che se a te vicino:
io ti vorrei seguir per ogni dove
e bever l’aria che da te si muove
né mai lasciarti.

Personaggi e destino nel romanzo del ‘900

“Un divorzio si è consumato tra il protagonista e ciò che gli succede. Si è rotto il rapporto di pertinenza, di legalità tra personaggio e vicenda. Come dire: tra l’uomo e il suo destino”. Queste parole del critico Giacomo Debenedetti registrano acutamente i mutamenti dell’assetto del romanzo del ‘900, muovendosi in quella terra di nessuno nella quale pare essersi lacerato il ruolo storico dell’“epica della realtà” senza che vi abbia trovato spazio l’“epica dell’esistenza”.

Debenedetti ha indicato in Proust, Pirandello, Kafka, Svevo, Joyce i testimoni esemplari di una crisi dell’epica della realtà, epica che ha caratterizzato il romanzo ottocentesco con il suo naturalismo e che nel ‘900 si risolve in “rivolta dei personaggi“, non più disposti ad accettare i loro precedenti rapporti con l’autore. I personaggi “scioperano”, desiderano l’autonomia letteraria. Tale tema, già analizzato da Debenedetti nel saggio L’avventura dell’uomo d’occidente (1946), è oggetto in Personaggi e destino, “di un ripensamento non neutrale alla luce delle risposte successivamente offerte dalla psicoanalisi e dall’esistenzialismo: la ratifica dello scarto che separa l’ottimismo progressivo di Freud dalle diverse filosofie dell’assurdo è compiuta da Debenedetti opponendo alla distruzione di ogni nesso tra personaggio e vicenda prodotta dalla morale provvisoria degli esistenzialisti” (F. Contorbia).

Nell’epica moderna quindi vi sono due specie di romanzo, la prima è rappresentata dall’epica della realtà, la seconda dall’epica dell’esistenza. Nella prima vediamo il personaggio muoversi in un mondo con il quale c’è ancora una possibilità di intesa reciproca, l’uomo è fiducioso, riesce a concepire un collegamento tra se e il mondo, riuscendo a dare delle spiegazioni ai problemi che gli si presentano. Nell’epica dell’esistenza invece il personaggio è abbandonato da tutto e ciò che gli succede è visto come qualcosa di assurdo e inspiegabile. Non c’è più un collegamento, una possibile intesa tra uomo e mondo. Ma la stessa epica della realtà, è davvero riuscita a trovare le favole giuste per i propri personaggi? Per un po’ di tempo era sembrato che l’America avesse inventato un nuovo repertorio di queste favole, ma anche quel tipo di mitologia moderna ha accusato i colpi del tempo e appare stanca, usurata. L’epica della realtà ha trovato i suoi più validi protagonisti in Zola, Vittorini, Pavese, Flaubert e ha vinto ma come le è accaduto di morire?

Sono stati tentati dei prestiti di linguaggio, innesti di vite americane, per sollecitare il punto di intesa tra romanzo nostrano e quello d’oltreoceano. Pensiamo ad esempio a Paesi tuoi di Pavese: il passo all’americana impresso ad alcuni contadini piemontesi consente che il loro muoversi risuoni come qualcosa di straniero, ma la persuasione è più nell’autore che nei personaggi. Il Vittorini della Conversazione in Sicilia ha vinto la sua partita sfogando nel surreale la carica che il linguaggio aveva addensato nel protagonista. L’epica della realtà dunque ha avuto una scossa. Ma poi ha fatto capolino il problema dell’assurdo: l‘epica della realtà e dell’esistenza possono apparentemente influenzarsi, ma sostanzialmente si escludono. Si giunge inevitabilmente a Proust, tra gli scrittori più amati da Debenedetti: ci aiuta infatti la piccola lapide in memoriam che l’autore de La Recherche ha posto all’epica della realtà in uno dei saloni della Marchesa di St. Euverte, mentre si svolge la scena dei monocoli. M. de Breauté domanda: “Come, caro, voi qui? Ma che potete aver da fare voi qui?” ad un romanziere mondano da poco installatosi all’angolo dell’occhio di un monocolo e che risponde con aria misteriosa: “Osservo”. I personaggi di Dalla parte di Swann appartengono all’ultimo ventennio del secolo scorso ma Proust scriveva nel primo ventennio del nostro ed è palese che proietta su quel passato le opinioni del suo presente. E allora cosa è accaduto in meno di quarant’anni? Quel fatto, dice il critico piemontese, che si chiama Proust, Pirandello, Joyce nelle cui opere si pronuncia una rivolta dei personaggi i quali non sono più disposti ad accettare i loro precedenti rapporti con l’autore. Il personaggio reclama i propri diritti, non vuole più essere trattato come un fenomeno di fisica; Proust seguita a dichiarare che sta cercando delle leggi, ma in lui si è potuto vedere quasi immediatamente il cosiddetto“sciopero dei personaggi”. In effetti i personaggi di Proust, vivi come sono, finiscono col fare coro per testimoniare una finalità, una destinazione del vivere che non vale per essi, ma per il loro autore. Proust conduce l’autore ad una delle più alte esperienze religiose del ventesimo secolo.

Pirandello invece è lui ad esigere la rivolta dei personaggi, animato da profondo dolore e passione per le sue creature troppo smaniose e vive, che, pur di stare nel mondo, accettano di contraddirsi e si sa quale sentenza di patimento il grande scrittore siciliano pronunciava contro quella smania di vivere. Joyce invece, nel suo Ulisse, usa il metodo opposto: cerca di lenire il male dei personaggi che hanno perso il mondo della sicurezza, i destini a chiusura garantita, di cui godevano al tempo di Zola e di Maupassant, ed esprimono la loro sofferenza, appunto, con la rivolta. E cosa propone Joyce ai suoi personaggi? Di identificarsi psicologicamente con gli eroi dell’Odissea; sulle ermetiche pagine dell’Ulisse, questa soluzione “magica” dello scrittore irlandese può apparire complicata ma in realtà è molto semplice. Nel punto stesso che constata la crisi dei personaggi, Joyce offre anche una via di accomodamento, perlomeno provvisoria. La soluzione provvisoria di Joyce è stata ripresa anche dai nostri contemporanei, nota Debenedetti, ogni volta che la crisi dei personaggi diventava sempre più aggrovigliata.

Una grande stagione di epica della realtà era morta di questa crisi, probabilmente, solo Zola, distinguendo un tempo dell’immaginazione e un tempo di senso della realtà, segnava i corsi e ricorsi della storia dell’epica. Tocca infatti all’immaginazione prestare i suoi servizi, inventando storie piacevoli affinché l’homo sapiens, accetti l’invasione nello spazio della propria vita, dell’homo fictus, nato da una massa di parole. Ma se il personaggio è tornato uno sconosciuto e il patto è rotto, è necessario riconciliarsi nuovamente. L’epica della realtà cerca di prolungare i suoi giorni guardando stupita le risposte dei suoi personaggi, mentre l’epica dell’esistenza approfitta della condizione di “sconosciuto” dei propri personaggi, compiendo il lavoro che toccherebbe all’immaginazione.

Vi è una sola famiglia di nuovi personaggi che consolida l’epica della propria realtà ma probabilmente Kafka è riuscito proprio per le ragioni per le quali altri hanno fallito. Egli ha obbedito con grande zelo al dettame dell’Antico Testamento: “Non ti farai simulacri del dio ignoto”. Ha avuto il coraggio di rinunciare a ogni garanzia e aiuto della realtà prestabilita; dietro la materia opaca e invisibile, il personaggio di Kafka somiglia solo all’invisibile delle proprie angoscie e conflitti. La differenza tra Kafka e i romanzieri esistenzialisti italiani, è che lui, arrivato sugli orli dove si apre lo spazio non più euclideo,, ha guardato senza soffrire di vertigini e non ha più chiesto riferimenti alle forme della buona geometria che misurava la Terra. In parole povere, e qui entra in gioca la psicoanalisi di Freud (“Tu soffri, ti incolpi e ti umilii del tuo male di vivere. Danne invece la colpa al padre; è stato lui a fabbricare il coperchio di divieti, con cui reprime il naturale, sacro ribollire dei tuoi istinti e lo ricaccia nel fondo a fare da corpo estraneo”. Non è vero che il padre se ne sia andato, è stato più maligno. Si è nascosto nell’angolo buio per continuare a farti soffrire con i suoi divieti, senza più aiutarti con la sua presenza”), è il figlio che ha perso il padre e della propria orfanezza e degli squallori della solitudine, fa la sua nuova condizione umana, con uno spietato coraggio che non scende a compromessi con la nostalgia.

 

Bibliografia: G. Debenedetti, Saggi, a cura di F. Contorbia.

Ugo Betti, poeta, giudice e drammaturgo

Nato a Camerino nel 1892, Ugo Betti trascorre l’infanzia a Parma, dove si laurea in legge nel 1914 con una tesi di filosofia del diritto, La rivoluzione e il diritto. Allo scoppio della guerra, Betti si arruola volontario come ufficiale di artiglieria di campagna. Nel 1920 Betti torna in patria e scrive per il concorso di avvocato delle Ferrovie dello Stato, un’opera di carattere giuridico, Considerazioni sulla forza maggiore come limite di responsabilità del vettore ferroviario. Contemporaneamente si prepara per il concorso nella magistratura, che vince e nel 1921 viene nominato pretore a Bedonia (Parma). Nel frattempo si fa conoscere nel mondo delle lettere con la pubblicazione, nel 1922, della raccolta di liriche Il re pensieroso, e nel 1925 si cimenta nel teatro con dramma di impianto realistico in tre atti, La padrona, vincendo il concorso drammatico bandito dalla rivista teatrale Le scimmie e lo specchio.

Con Frana allo scalo Nord (1932), tra le più riuscite opere dello scrittore, Ugo Betti approda a moduli drammatici più aperti. Il tema tipicamente bettiano della Legge che non riesce a farsi Giustizia è calato in’un’atmosfera sospesa, per sottolineare l’inappagatezza della legge, ottenuta per mezzo della forma del dramma-processo dove i personaggi si confessano. Nel 1938, con Notte in casa del ricco,”tragedia moderna in un prologo e tre atti”. Betti torna, dopo la parentesi della commedia commerciale, al tema  dell’inestricabile miscuglio di bene e di male che è nel cuore dell’uomo e a quello della pietà come unica forma di giustizia.

Nel 1944 lo scrittore parmense ottiene la nomina a bibliotecario del ministero di Grazia e Giustizia  e nello stesso anno scrive Corruzione al Palazzo di Giustizia, il suo dramma più famoso in Italia e all’estero che gli consente di vincere  il premio dell’Istituto Nazionale del Dramma (1949) ed il Premio Roma (1950).  Nel 1950, Ugo Betti è nominato consigliere di Corte d’Appello e passa a far parte dell’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio e nel frattempo si riaccosta alla pratica cattolica, fatto che avrà delle ripercussioni anche sulla sua produzione drammaturgica, con l’opera Il giocatore.

Soffermandoci in particolare sulla poetica di Ugo Betti, possiamo notare come il fiabesco e il drammatico sono stati i principali temi intorno ai quali ha ruotato la poesia del giudice e drammaturgo. Fiabesco era infatti il tema del Re pensieroso, il suo primo libro in versi, degli ultimi racconti del Caino, dell’Isola meravigliosa fino ad arrivare alle Canzonette; drammatico, quello della Padrona, delle novelle di Case e della seconda parte di Canzonette, La Morte. Tuttavia un tema sorge dall’altro, sono due facce della stessa medaglia, e lo stesso tema fiabesco del Re pensieroso, le cui favole sono state scritte durante la prigionia di Betti dopo Caporetto (e internato a Rastatt con gli scrittori Gadda e Tecchi), presume quello drammatico. Si parte dunque da uno slancio fantastico dietro al quale si avverte una realtà amara.

Ugo Betti ha compiuto un grande passo dal punto di vista letterario con Re pensieroso, opera che sente ancora l’influsso della poesia crepuscolare e impressionista, nel quale alterna squisitezze letterarie a cadute di tono, parole d’uso comune e parlato a parole eleganti. Per quanto riguarda le Canzonette, bisogna sottolineare come il loro significato, il simbolo, diviene più chiaro; ad esempio nella Canzonetta del pescatore senza conforto prevale maggiormente una visione notturna piuttosto che il senso di questo che si concentra nella domanda:

Da chi, perché, padre Priore,

fu formato tanto dolore,

fu creato tanto male?

Qui l’elemento drammatico cede il posto al pittoresco: come in altre canzonette, alla pena della solitudine o dell’amore si sovrappone il gusto per l’idillio o il tratto descrittivo. Al contrario, a volte, il senso drammatico rimane enunciazione: la sintesi non viene raggiunta:

Di qua risse, laggiù balli

là bisbigli di mezzane,

bocche, occhi, fiati caldi,

bave, urli. Nel carname

l’uomo arraffa. Dà in baratto

quel denaro suo scarlatto.

Da questi pochi versi si capisce subito quali sono stati i lati della poesia di Betti: gusto del pittoresco, appunto, e l’idillio, talvolta leggermente manierato (come dimostrano Caterinella, Selvaggia e il Cantastorie), enunciazione di dati elementari che non giungono alla sintesi poetica. Nella Canzonetta degli Amanti addormentati, ad esempio, gli ultimi quattro versi ci danno la visione del mondo resa con parole quasi immateriali. Ma dopo queste poesie, viene il gruppo che Betti raccoglie sotto il titolo La Terra e in esse il secondo titolo del libro La morte, le quali trovano un significato ed espressioni maggiori; nelle Case, ad esempio, quell’enunciazione di dati elementari fa blocco: è poetica perché diventa visione. E se i quattro ultimi versi sono derivati con qualche freddezza, le prime tre strofe danno il senso cosmico della terra e del fatale destino dell’uomo:

In ogni casa, come in un orto,

ogni tanto matura un morto…

Il poeta contempla da un’altezza serena il mondo, il peccato di Adamo, la vanità, le passioni, il dolore. E proprio questi sono i temi delle sue poesie più belle, tra le quali spicca anche Canto di operai, poesia molto ispirata dove la visione umana e cosmica di Betti, severa, lucida, ma non disperata, appare realizzata al meglio.

Per quanto riguarda il Betti drammaturgo, attività letteraria alla quale è stata rivolta, giustamente, maggiore attenzione rispetto a quella di poeta, è importante dire che essa non si può spiegare se non si tiene conto della sua opera in versi; il teatro di Ugo Betti è, come in Pirandello, una proiezione del poeta e del narratore con la sua visione angosciosa del mondo.

Bibliografia: G. Titta Rosa, Vita letteraria del Novecento, V. III.

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