‘Se devo essere una mela’: il romanzo di successo di Emma Saponaro che trae spunto dal mito delle due metà di Platone

Se devo essere una mela è il secondo romanzo di Emma Saponaro. Il libro, presentato in occasione della manifestazione Più libri più liberi, ha riscosso un notevole successo, anche in termini di copie vendute.

Emma Saponaro, romana, è laureata in pedagogia ed esperta nelle tematiche dell’adozione, su questo tema ha tenuto cicli di lezioni. È stata coordinatrice del Comitato di redazione della rivista semestrale Famiglia e Minori, per la quale ha pubblicato articoli a carattere psico-giuridico sulle tematiche legate all’adozione, all’abbandono e sulle violenze sulle donne. È stata co-ideatrice e co-curatrice di Parole di Pane conclusosi con la pubblicazione di due antologie omonime (Farnesi Editore, 2013; Giulio Perrone Editore, 2014), i cui proventi sono stati interamente devoluti in beneficenza. Suoi racconti sono stati pubblicati in riviste online e in diverse antologie raccogliendo un buon successo di critica e di pubblico. Prima di Se devo essere una mela ha pubblicato Come il profumo (Castelvecchi, 2017).

Pubblicato da Les Flaneurs Edizioni prefazione di Marina Pierri, copertina realizzata da Alessandro Arrigo, il romanzo racconta in chiave ironica e divertente il percorso di liberazione di una giovane donna da un matrimonio rivelatosi solo una macchina capace di stritolare ogni possibilità di crescita personale.

Marina Pierri è co-fondatrice e direttrice artistica di FeST – Il Festival delle Serie Tv. Si occupa di critica televisiva con particolare attenzione alla rappresentazione di genere. Studiosa di narratologia, il suo primo libro Eroine (Edizioni Tlon) esplora gli archetipi narrativi nel Viaggio dell’Eroina. Il suo podcast intitolato Le dodici dee delle storie è prodotto da Storytel. Fa parte del coordinamento scientifico della scuola digitale di solidarietà fondata da Francesco Trento e insegna Storia dell’innovazione televisiva nel Master in Series Development di Netflix della Civica Scuola di Cinema di Milano. Ha scritto o scrive per Rolling Stone, Vanity Fair, Grazia, Wired, Il Corriere della Sera.

Alessandro Arrigo è grafico e illustratore. Sue illustrazioni sono divenute complementi d’arredo. I suoi progetti di fotografia e illustrazione “Ritratto Camaleontico” e “ri·flès·si /à·ni·ma“ sono stati inseriti nel 3° volume de “Il corpo Solitario”, di Giorgio Bonomi, edizioni Rubbettino. Ha partecipato a mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Ricordiamo quelle al Salón internacional de Arte a Melilla, con Goyart, alla Biennale del libro d’artista a Castel dell’Ovo, a Napoli, al MACRO, museo d’arte contemporanea di Roma, al Festival di fotografia Les Rencontres di Arles, con la Tevere Art Gallery. Sue illustrazioni sono state esposte al Museo Orto Botanico di Roma. Nel 2020 è stato selezionato al Miami New Media Festival per il Doral Contemporary Art Museum, ha inoltre partecipato, con Incinque Open Art Monti, al Lucca Art Fair. Suoi disegni sono apparsi su 7 – Sette, settimanale del Corriere della Sera, Buduar, almanacco dell’arte leggera, Hashyapu Harivillu – Humor Toons, We Wealth Magazine. Ha pubblicato con Andrea Pugliese il libro POP TEN, Lozzi Editori, realizzando il concept e le illustrazioni legate ai racconti.

Se devo essere una mela: sinossi

C’era una volta un bellissimo principe azzurro che, come in
tutte le favole che si rispettino, arrivò in sella a un superbo cavallo bianco dopo aver attraversato al galoppo impervi
sentieri di una boscaglia. Fu per puro miracolo se riuscì a superare illeso i tanti ostacoli. Tuttavia, il nobile proposito che
lo animava era quello di raggiungere e salvare la principessa dalla cupa inquietudine che la affliggeva ormai da tempo.
Perché perché perché, ma è ovvio: perché era single, e a volte
accade che una single sia anche attempatella.
E così avvenne ciò che sappiamo debba verificarsi perché
si rompa l’incantesimo di una principessa addormentata.
D’altra parte, per lei era difficile ignorare cotanta passione
racchiusa in un solo bacio. Immagino come possa far l’amore, avrà pensato. Così, non rimanendone indifferente, ebbe
la sensazione di respirare un vento torrido del deserto sahariano il cui soffio possiede il potere di sciogliere tutto, anche
l’asfalto, e pure il sonno di una principessa, dicevamo. E fu
così che si destò da quel torpore che per troppo tempo l’aveva inchiodata su credenze ritenute così convincenti da non
poterle mai contestare. Sì, si destò.

Nel suo viaggio Rebecca, questo il nome della protagonista, incontrerà le grandi possibilità offerte dal web, diventando affermata e ricercata blogger di ricette che lei stessa inventa, soprattutto si avvarrà dei consigli e degli spunti di riflessione offerti da una divertente galleria di personaggi che altri non sono se non la reincarnazione dei principali filosofi della storia.

Se devo essere una mela deve il titolo alla celebre metafora di Platone, secondo la quale gli esseri umani sono delle mezze mele che vivono irrisolte alla ricerca della metà mancante. Secondo Rebecca, invece, ogni essere umano è una mela intera e può incontrare l’amore solo quando trova partner capaci di rispettare la sua interezza.

Se devo essere una mela fa seguito a Come il profumo (Castelvecchi Editore), un noir psicologico sul tema del doppio ispirato dal grande amore di Emma Saponaro per il mondo dei profumi e delle fragranze.

“Devo molto a Marina Pierri, perché proprio mentre scrivevo questo romanzo ho incontrato lei e le sue riflessioni su ‘Il Viaggio dell’Eroina’”, dice Emma Saponaro. “Sono riflessioni che mi hanno aiutato a focalizzare al meglio i temi che stavo trattando. L’idea dei filosofi reincarnati che sono idraulici, fruttivendoli, informatici non saprei proprio dire come mi è venuta. Però mi sono molto divertita scrivendo di questi buffi personaggi, e spero che allo stesso modo si divertano i miei lettori–  e prosegue dicendo- Invece per il blog mi sono riferita a mie esperienze personali, non nel senso che ho avuto un blog di cucina, però ho gestito e gestisco diversi blog, quindi conosco l’argomento. Invece le ricette le ho tutte inventate cercando di assecondare lo spirito della protagonista. Non credo che siano utilizzabili, a meno che non abbiate un partner come quello di Rebecca”.

“Al di là della chiave comica — conclude l’autrice – il romanzo parla di temi molto seri, perché troppe persone si fanno ancora schiacciare in rapporti di coppia che opprimono invece di aiutare a crescere. Ecco, il messaggio vorrei che fosse: mele di tutto il mondo, svegliatevi e guardatevi bene, non siete a metà, siete intere”.

 

https://www.lesflaneursedizioni.it/product/se-devo-essere-una-mela/

 

 

 

 

 

 

 

Mito: fascino e magia senza tempo

Nonostante la familiarità che tutti abbiamo con i racconti della mitologia, il mito rimane un oggetto misterioso che ogni cultura sembra forgiare secondo criteri propri e che non smette di affascinare; perché il mito è un qualcosa che accade ogni giorno.

Mito: origini

L’idea di una sfera mitologica come universo organico di racconti che precederebbe il nascere del logos e della filosofia è tuttavia estranea ai greci. L’opposizione tra mito e logos si svolge in modo lento e tortuoso: la Grecia rimane una terra di frontiera, dove il “favoloso” sopravvive accanto alla ragione “scientifica”.

Nel progetto politico di Platone, l’identità del mito e della parola parlata acquista un’evidenza estrema che investe la vita della città. Il parlato deve essere al servizio degli ideali della città.

Perché continuiamo ad essere affascinato dal mito, dal “c’era una volta”, tanto che spesso lo facciamo entrare nel nostro quotidiano?

Tra linguaggio e memoria

Se la prima mitologia è considerata da molto l’effetto di una malattia parassitaria del linguaggio, le cui tracce sono ancora riconoscibili sulla superficie scritta delle società più razionali, la mitologia in senso moderno è quindi un’invenzione della scrittura: nasce quando il segno scritto immobilizza il flusso della parola viva che si ripete in una infinità di varianti.

Per salvare una certa idea di mitologia, come sostiene Marcel Detienne, si evoca fin troppo spesso, l’inventività della memoria e dell’oblio, vissuti in perfetta unione con la naturalezza di Filemone e Bauci, favola contenuta nelle Metamorfosi di Ovidio, in cui si racconta della virtù dell’ospitalità che viene ricompensata.

Il mito nella modernità

Solo oggi è diventata viva e presente in modo quasi veemente la lotta della memoria e dell’oblio, da quando si sono moltiplicate le società, dove gli storici non sono diventati altro che dei funzionari e dei burocrati ufficiali, in cui la lotta contro il potere costringe uomini e donne ad alzarsi di notte, per ripetere, contro ogni speranza, le parole dei loro defunti privati della scrittura, o i versi fuggitivi e indimenticabili dei poeti messi al bando e assassinati?

Ma c’è paradiso per la memoria e per l’oblio? O forse non vi è altro che il lavoro dell’una e dell’altra  e i modi di lavoro che hanno una storia. Una storia ancora da iniziare. Ma nulla è più familiare del mitologia, perché come sosteneva Levi-Strauss, “un mito è riconosciuto come tale da ogni lettore, in ogni parte del mondo”.

Cos’è che ci affascina maggiormente della mitologia in un mondo senza miti, dove nello spazio di due o tre generazioni, tutto ciò che viene detto è soggetto a cambiamenti continui e inevitabili, qualunque siano l’autorità e il numero “dei ministri della memoria”?

Forse proprio questo flusso di parole, storie e racconti a cui ognuno di noi può togliere o aggiungere qualcosa, magari di più gradevole, come diceva Fontanelle, ma non con lo scopo di colorare qualcosa di già “falso”.

Alle nostre orecchie, il memorabile è inconsciamente e necessariamente vero e mai ci stancheremo di ripetere e ascoltare certe storie.

La mitologia allora non sarà proprio frutto di una memoria estranea ai processi della scrittura e libera dalla tirannia del testo? Solo la memoria inventiva, sorella dell’oblio, potrebbe salvare del tutto la mitologia o sottrarla all’erranza in cui i greci l’hanno condotta, durante le nostre letture.

L’opinione di Barthes

Su questo particolare aspetto, può venirci in soccorso Roland Barthes secondo il quale la mitologia può avere solo un fondamento storico, perché il mito è una parola scelta dalla storia e non può sorgere dalla ‘natura’ delle cose”.

In sintesi Barhes vuole dirci che il mito è un sistema di comunicazione, avendo tutte le caratteristiche di un messaggio. “Il mito – afferma – non nega le cose, anzi, la sua funzione è di parlarne; semplicemente le purifica, le fa innocenti, le istituisce come natura e come eternità”.

Di una cosa si è sicuri, il mito non è un qualcosa di negativo negativo, ma, come farlo vivere in modo “eterno” in una società idolatra e non più iconoclasta come la nostra?

Sempre sulla scia di Barthes, per il quale vi è bisogno di una scienza della mitologia basata sulla semi-oclastia, probabilmente sarebbe opportuno riconoscere nelle narrazioni mito-logiche un elemento eternizzante da demitizzare, riconducendo tali favole al loro inaggirabile fondamento storico.

In fondo la nostra ragione si fonda anche su alcune finzioni. E nemmeno questo può rappresentare qualcosa di necessariamente negativo.

 

Fonte: L’invenzione della mitologia, Marcel Detienne

 

Mythology: timeless fascination

 

‘San Tommaso d’Aquino’ di Chesterton: chiarimenti di alcuni equivoci sul tomismo che hanno compromesso la reputazione del cristianesimo in Europa

Ma se la crisi dell’Occidente, l’epoca del nichilismo e l’era della tecnica non fossero il capolinea definitivo, l’alba dell’apocalisse? Se dietro a quest’epoca di spaesamento e obsolescenza di tutti i valori si preparassero una rinascita, una redenzione e una riscossa? E se questa rinascita non passasse da simboli ed ideologie nuove, ma dalla Fede cristiana, dalla promessa di redenzione della Croce e di salvezza della resurrezione? Non stiamo fantasticando, ma solo cercando di riportare, in modo forse un po’ troppo ottimistico, ma comunque lucido, una sensazione che riscontriamo, un sentore diffuso che ci sembra di cogliere, una percezione di reale e concreta inversione di tendenza. Si notano molti ragazzi che, stanchi dello sballo da discoteche, ritornano in oratorio a costruire progetti e a rinsaldare comunità vive; altri che ritornano a sposarsi in Chiesa, guardando con diffidenza o con insoddisfazione la semplice convivenza; perfino in merito alle vocazioni – pur in un tempo di calo verticale delle ordinazioni – ci sembra di vedere in giro più preti giovani, freschi di sacerdozio e con un entusiasmo diverso nella predicazione e nell’aggregazione di ragazzi.

Ora, non vogliamo sembrare ingenui: la situazione ad oggi è ancora profondamente buia, notiamo ancora la mentalità diffusa che indica la Fede come qualcosa di sorpassato, che ripiega verso il relativismo mondano o verso la spiritualità orientale, quando non proprio verso l’Islam. Ma quello che notiamo non è un fenomeno attuale, ma potenziale; non è ancora una rinascita, ma i primi vagiti di una rinascita. Abbiamo come la sensazione che, mentre il Papa fa discutere con le sue uscite pubbliche controverse e con le sue biografie un po’ equivoche, i giovani stiano abbracciando un cristianesimo più forte, non mediatico e flessibile, ma risoluto e combattivo, a dispetto del mondo.
Paradossalmente, non è la popolarità mediatica del Papa regnante ad averli spinti al cristianesimo, ma è la profonda ripugnanza per il cristianesimo della società attuale, fatua e superficiale, ad averli ricondotti al cristianesimo come risposta esistenziale profonda e radicale, proibita e scandalosa. Non vogliamo dire che sia sorto un movimento contro Papa Francesco, ma che questo sia completamente indipendente dal Papa; serpeggi in tutta Europa silenzioso ma pregnante, solido ma sommesso. In un certo senso, preferiamo pensare che sia parallelo al Papa, nel senso che va nella stessa direzione, ma ad altezze e gradi differenti. Si pensa a queste cose leggendo la biografia di San Tommaso d’Aquino di Chesterton, nella versione ristampata dalla Lindau, con la prefazione di Monsignor Luigi Negri. Chesterton scrisse quest’opera nel 1933, quando la crisi del ’29 ancora dava i suoi tremendi colpi al mondo anglosassone ed americano e nell’anno in cui Hitler vinceva le elezioni in Germania. Qualche anno prima si era cimentato nella agiografia di San Francesco, che era stata l’opera prima dopo la sua conversione al cattolicesimo. L’opera su San Tommaso è breve ma densissima, complicata ma a tratti di vera genialità, tant’è che riscosse la stupefatta ammirazione di tomisti di lungo corso e di chiara autorevolezza, come Jacques Maritain e Anton C. Pegis.

Perché quest’opera è così importante? Come si riallaccia al discorso sulla riscossa europea grazie alla rinascita della Fede cristiana? In che modo quest’opera ha a che fare con la convinzione che la Fede cristiana possa tornare ad essere cardine e fondamento della civiltà europea, e non soltanto un orpello vuoto al servizio dei politicanti, come lo è stato quasi sempre nell’ultimo secolo? Perché Chesterton parlando di Tommaso parla del tomismo, e chiarendo alcuni equivoci sul tomismo chiarisce alcuni equivoci che hanno compromesso moltissimo la reputazione del cristianesimo in Europa, che si sono annidati come pregiudizi e si sono insidiati nella mentalità condivisa. Quello di Chesterton è più di una biografia di Tommaso: è un libro fondamentale (definitivo, dice Luigi Negri nella prefazione) sul cattolicesimo, su cosa sia e cosa debba rappresentare, lontano dalle mistificazioni e dagli equivoci che l’hanno screditato negli ultimi secoli. In realtà l’opera di Chesterton parte dalla vita di Tommaso, così densa di pensieri ma relativamente povera di fatti, per approdare ad una disamina, breve e folgorante, della dottrina tomista. Il racconto della sua vita sfocia nell’incontro con la sua opera, perché l’uomo fu tutto devoto all’opera, alla sua missione per conto di Dio: rendere giustizia al tomismo è il modo migliore di omaggiare la vita di San Tommaso.

E allora, attraverso l’analisi dell’opera di Tommaso, Chesterton ci mostra davvero cosa sia il cattolicesimo. Il più grande equivoco sul cristianesimo oggi, e quello che non a caso è con maggiore forza chiarito da Chesterton nel libro, ma anche da San Tommaso nella sua opera, è quello secondo il quale il cattolicesimo sarebbe una religione fondata sull’astensione dalla vita, sull’ascesi, sul disprezzo della carne e della corporeità. In realtà, tutti questi erano caratteristiche dell’eresia manichea, quella che, non a caso, Tommaso combatté con maggior vigore.
Chesterton sostiene che la Chiesa dei primi secoli avesse effettivamente ceduto ad una visione troppo spiritualistica, diffidente rispetto ai sensi e alla carnalità, troppo debitrice nei confronti di Platone e della sua concezione del corpo come gabbia da cui emanciparsi. Lo stesso Agostino viene guardato da Chesterton con un misto di ammirazione e di apprensione, perché la sua ascesi verso Dio, solitaria e verticale, fondata sulla grazia e sulla predestinazione, a suo giudizio per i discepoli troppo fanatici diventò una suggestione verso il manicheismo (di cui Agostino era stato adepto) e più tardi sarà il viatico che condurrà molti al luteranesimo. Ad Agostino, che recuperò Platone, fa da bilancia con forza Tommaso, che recuperò Aristotele.

Se Agostino aveva tentato un percorso diretto verso il cielo, per Chesterton, Tommaso è l’uomo che riconcilia il cattolicesimo con la terra, che è viatico del cielo; con il corpo, che è unito all’anima. E la legittimazione più chiara con cui Tommaso riabilita Aristotele, il corpo ed i sensi non è, come non si stanca di ripetere Chesterton, anticristiana, paganeggiante o orientale, ma all’opposto è il fondamento, il centro stesso della Fede cristiana: ovvero l’incarnazione. A ben vedere, non esiste nessuna religione come il cristianesimo che stimi il corpo, lo apprezzi e lo valuti, perché non esiste nessun’altra religione fondata sulla convinzione che Dio, da trascendente e celeste che era, si sia fatto carne e sangue. Come si può affermare che il cristianesimo disprezzi la carne, se è una religione fondata sull’incarnazione? Come si può affermare seriamente che il cristianesimo disprezzi il corpo, quando è il Corpo di Cristo che ogni domenica i cristiani ricevono?

Chesterton qui chiarisce ciò che, ad esempio, Nietzsche non riuscì mai a capire: ovvero che Cristo non è il Dio dell’astensione dalla vita, della rinuncia e della repressione; ma all’opposto è il Dio del corpo e del sangue, dal pane e del vino. La rinuncia alla volontà, la ricerca del Nulla, l’ascetismo che combatte la vita ed i suoi impulsi, non fanno parte dell’eredità e della testimonianza di Gesù, dice Chesterton, ma di quello di Buddha. È il buddismo la religione dell’astensione dalla vita, della soppressione degli istinti vitali, della fuga della vita per fuggire dal dolore; quando al contrario il cristianesimo prescrive di portare il proprio dolore, accettare di essere presi di mira per aver aderito al messaggio di Gesù, per arrivare ad una vita più piena, più forte e redenta. A ben vedere Nietzsche, com’è stato molto osservato da alcuni esegeti cattolici acuti, criticando il cristianesimo critica in realtà il buddismo (diceva che il pericolo che vedeva per l’Europa era quello di un’Europa buddista…), mentre i suoi ammonimenti a vivere una vita fedele alla terra, ai sensi ed alla realtà sono quanto di più simile ci possa essere alla predicazione di Gesù: a ben vedere Cristo assomiglia molto più a Dioniso che non a Buddha. Questo è davvero il principale equivoco che pende sul cristianesimo, che però è bastato a screditarlo agli occhi di intere generazioni, a farlo apparire qualcosa di mortifero e putrido, di violento ed innaturale. Chesterton ride ad esempio quando dice che gli è capitato di leggere in un serio commento di un critico che la Chiesa cattolica vedrebbe il sesso come un peccato. Poi però commenta pungente:

Lascio risolvere al critico la questione riguardo a come mai il matrimonio sia un sacramento se il sesso è peccato, e come mai siano i cattolici ad essere a favore delle nascite ed i loro avversari ad essere in favore del controllo demografico.

La Chiesa non mortifica gli istinti naturali dell’uomo, e se si fa carico di irreggimentarli, limitarli, circoscriverli, non è per una mortificazione gratuita, per disprezzo della vita o volontà di affrancarsene, come in certe tradizioni orientali; ma perché, come spiega Chesterton citando Tommaso, accanto al piano della creazione, lo spirito cattolico si muove anche su quello della caduta. In questo senso, l’ascetismo cattolico (o, più in generale, certi precetti di castità e di astensione temporanea dal piacere dei sensi) rappresentano una più o meno saggia precauzione contro il pericolo della caduta, ma mai un dubbio riguardo alla creazione. È per questo che, pur non somigliando a Buddha, Cristo non può essere neppure identificato con Dioniso. È troppo facile, come si fa oggi, abbandonarsi in tutto e per tutto alla sensualità, fingendo di non vedere che la morbosità, il libertinismo esasperato e l’iper-sessualità conducono dovunque ad istinti masochistici, violenti o autodistruttivi. È troppo facile rimpiangere un fantomatico naturalismo pagano precedente al cristianesimo senza vedere il lato oscuro e tremendo di quelli che dovevano essere i riti orgiastici, quel godimento così vicino alla voluttà mortale. E però questa prescrizione di un ordine ai sensi non scade mai in una mortificazione fine a se stessa della vita, e la grande eredità di Tommaso è proprio questa: aver riabilitato Aristotele, aver chiarito che nel cristianesimo non c’è contrapposizione, come nel platonismo, tra corpo e anima, tra terra e cielo; perché il corpo è la casa dell’anima, non la sua gabbia, e la terra è la strada per il cielo, non la sua copia sbiadita. Ed è così appunto perché è Dio che si è fatto corpo, è Dio ad aver vissuto in terra.

Il corpo non era più lo stesso di quando Platone, Porfirio e gli antichi mistici l’avevano dato per morto. Era stato appeso ad un patibolo. Era risorto da una tomba. L’anima non poteva più disprezzare i sensi che erano stati gli organi di qualcuno che non era soltanto un uomo. Platone poteva disprezzare la carne, ma Dio non l’aveva disprezzata.
San Tommaso restituisce Cristo alla sua più compiuta eredità, depurandolo dall’ascetismo eccessivo, mortifero di certi agostiniani eccessivi, che sarebbero poi confluiti nei manichei e, secondo Chesterton, nei luterani. Ma più ancora: secondo Chesterton San Tommaso è il primo a chiarire, in modo inequivocabile, l’unicità e la specificità del cristianesimo, ovvero la congiunzione perfetta di vita terrena e vita ultraterrena, di Dio e prossimo, di anima e corpo, di intelletto e realtà. È per questo che, secondo Chesterton, una rinascita dell’Europa sotto il segno del crocefisso è possibile solo attraverso una nuova presa di coscienza, che passa dalla comprensione di Tommaso, di che cosa sia il cristianesimo: non una scelta tra le tante, in un pluralismo che porta le religioni ad un piano di uguale insignificanza, ma la sola scelta sempre, coerentemente, contro il nichilismo, a favore della vita.

Altrove ci sono solo monoteismi severi e distanti, troppo facili da trasformare in ideologia; o panteismi irenici, che ci promettono di naufragare in un tutto organico, che ci fanno perseguire il piacere e schivare il dolore, ma non sopiscono le nostre angosce e non ci indicano vie per salvarci:

Più si capisce la grandezza delle reazioni improvvise e delle rinunce di Buddha, più ci si rende conto che intellettualmente egli era agli antipodi del concetto di redenzione universale del Cristo. Uno vorrebbe annientarsi, l’altro vorrebbe tornare alla sua creazione: al suo Creatore. (…). In un certo senso sono complementari e si equivalgono, come un dosso e una cunetta, come una valle ed una collina. (…). C’è ben poco al mondo che si possa confrontare a queste due alternative in quanto a completezza. E chi non si sentirà di scalare la montagna di Cristo, precipiterà fatalmente nel baratro di Buddha.

Ecco, saremo troppo ottimisti, o forse ingenuamente proiettiamo le buone impressioni che abbiamo ricevuto su scala più ampia, ma abbiamo la sensazione che nelle nuove generazioni si stia affermando un’idea di cristianesimo più vicina al suo significato originario, cioè di vita, salute, gioventù, fecondità; e questo quanto più si vedono coloro che imboccano altre strade, perdersi su vie sterili e sentieri perdenti.

 

 

‘Conclave dei sogni’: il rifiuto della modernità di Vigolo

Conclave dei sogni è il libro con cui il poeta Giorgio Vigolo ha radunato le sue poesie nel 1935. La raccolta non appare tesa verso una deliberata ricerca di <<modernità>> nello spirito e nella forma. In alcuni passaggi dell’opera si avverte un sapore ungarettiano, in altri non si può fare a meno di pensare a Palazzeschi. Ma da quella modernità poetica, Giorgio Vigolo si esenta, obbedendo ad una diversa idea della poesia. Viceversa, una tipica contemporaneità possiamo trovarla nella sua cultura, nel sostrato teorico, di cui il suo sentimento ha bisogno di liberarsi. La cultura di Vigolo infatti si colloca tra due tipi categorici, quelli di “filosofo” e di “poeta”, di filosofo che serve al poeta e si fa poeta egli stesso.

In Conclave dei sogni, il poeta romano è mosso verso la sua più matura espressione da un’ansia profonda di ritrovare quell’armonia increata, preesistente al tempo, a cui le parvenze esteriori ed effimere del mondo sembrano alludere, mentre nel loro aspetto la tradiscono: <<Questo è convento/di monaci veri:/cimitero,/monastero/clausura per l’eternità>>. Ansia che potrebbe essere filosofica o comunque di natura conoscitiva, ed ecco che la conoscenza speculativa porge a un certo punto un’utile nomenclatura, una suggestione di immagini o di allegorie alla poesia che sta nascondendo. Alla sua radice c’è sempre la pregante favola platonica della caverna in fondo alla quale si disegnano le ombre, parvenze della vera realtà; più che un mondo organico, dunque, Conclave dei sogni disegna un movimento: le vicende di un’attesa e di un raggiungimento, di volta in volta rinnovate dalle varie occasioni ispiratrici.

Vigolo cerca la nascita di una determnata poesia, di “quella che ritrova la misura e la schiera, l’agmine dei segni primieri” e li restituisce al “dettato antico”. A rappresentare quest’ansia di ricerca non basterà più un simbolo esterno e oggettivo; occorrerà una figura che abbia l’intima esperienza della caduta e la figura del corpo rievoca contnuamente quell’armonia da dove esso è disceso: <<Malinconia di esistere con questo/ volto remoto che ci esprime l’anima/ e la sua storia e i giorni alti e perduti/senza più averne la memoria e il senso>>. Assunto a simbolo inconscio e oscuro protagonista di quelle corrispondenze in cui Vigolo cerca rivelazione e poesia, il corpo indirizza anche dall’interno e verso l’interno i suoi richiami. In questo senso non è un caso che in un’epoca ossessionata dai propri sogni, un poeta, per vie parallele, interroghi anch’egli la psiche. Conclave dei sogni rappresenta in fondo, una chiave per interpretare i sogni, spiegati in immagini:

<<Mura ch’io vidi in un sogno d’infanzia

cadermi addosso a strapiombo di torri, a blocchi d’ocrafulva e di tufo

sulla silenziosa via del sonno>>.

Queste mura e ruderi, l’ocra fulva e il tufo, devono assumersi in un spazio definito da tale musica, magica, ineluttabile che ci porta tutti ad abitarlo, come accade per la famosa ‘siepe’ sul colle dell’Infinito di Leopardi. In Conclave dei sogni, Giorgio Vigolo “petrarchizza” i paesaggi e si dimostra un abile illustratore, basterebbe  leggere solo il poemetto Erebo per rendersene conto, in cui l’aldilà è visto come in una serie di vignette che accompagnano il racconto di un giullare; il poeta le trascrive come altrettanti “dal vero” innalzandole a dono letterario. Al lettore più attento non sfuggirà un’altra caratteristica di Vigolo: la capacità di richiamare la tragedia classica, per cui i personaggi, per entrare nel gioco delle passioni, devono essere eroi, re e sacerdoti.

 

Bibliografia: G. Debenedetti, Saggi critici, seconda serie, Marsilio.

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