‘Sillabari dal cortile’, la poesia civile di Fernando Della Posta

Fernando Della Posta in “Sillabari dal cortile”, titolo che richiama quello del racconto di Goffredo Parise, dà voce alla poesia di contenuto civile su un piano, reale. È infatti presente un chiaro riferimento alla realtà storica contemporanea, segnata dalla pandemia e dal desiderio di reagire a una condizione di inerzia per maturare una coscienza dei propri doveri e della necessità di un impegno attivo. Ma è anche attraverso gli incontri e i rapporti con gli altri, come ha giustamente notato la Prof.ssa Maria Allo:

Fernando della Posta

 

Nei chiusi mondi della porta accanto

giacciono personalità che si danno

scoperte e date per sempre. Ma non colte,

colorate, sfilano per le strade

occasioni nuove.

e con i luoghi che si possono stabilire rapporti affettivi autentici e impegni costruttivi, prosegue Maria Allo. Roma è il luogo di cui si sostanzia la sezione Sillabari nel cortile, è il luogo da cui Della Posta osserva e registra un mondo con vigile coscienza tesa a decifrare la sua contraddittoria realtà e la volontà di operare per modificarlo, implicita nell’essere poeta. Così si esprime nei suoi versi:

 

(…) Proprio per questo

le ideologie di morte non avranno mai

l’ultima parola. Anche il boia è fatto di vita.

 

La forza della poesia di della Posta sta nella capacità di dare luce alle parole che diventano immagini, fotografate da un testimone dei nostri giorni che rivaluta la figura del boia in chiave “antimoderna”, alla De Maistre, per il quale il boia è una figura fondante della società, in quanto fa compiere un sacrificio per purificare tutta l’umanità. Anche da questa pandemia, oltre che da alcune ideologie mortifere che ancora persistono.

Come nota ancora Maria Allo, nella sezione Terra e lavoro emerge la consapevolezza di quanto sia alienante per il singolo la ricerca di una meta che non c’è e l’accettazione a muoversi in una terra disabitata, e non c’è retorica nella voce nuda del poeta che non si lascia ridurre al silenzio. Poesia esistenziale in cui l’identità personale vacilla e ciascuno è un disperso, così in Terra di lavoro scrive:

 

(…)

Il vago sentore di appartenere

alla tribù sbagliata.

Tutta questa voglia di urlare

con puntiglio e costanza

di farsi notare, di farsi dire:

“dove sbagliamo?

Perché non siamo tra voi?”

L’autore fa autocritica, è come se puntasse il dito contro la sua generazione che ha scelto una casa sbagliata in cui abitare e urlare per farsi sentire.

Della Posta non denuncia ma riflette il ripiegamento di una generazione che sta attraversando un periodo di tensioni ideali e si sente fallita e delusa, dichiara la propria stanchezza di fronte a un domani nel quale si consumano, virtù e giovinezza:

 

(…)

Ma torni ogni deluso dalla vita

a chiedere un futuro che non sia

rovina di un cortile abbandonato!

 

Il sentimento dominante è una nostalgia di futuro che proietta un sentimento destinato al passato, quindi assimila il futuro al passato, cioè gli anni ancora da vivere, ignoti e imprevisti, a quelli già vissuti, noti e scontati.

La vita è come un cortile abbandonato, cosa ci può essere di più triste e desolante? La rovina di questo cortile che è costituito dal nostro futuri fatto di delusioni.

La presa di posizione di Della Posta, che traduce la sua tensione morale in versi lucidi e fermi, rifacendosi alla lezione di Brecht, è a favore di una nuova cultura che non si limiti a consolare ma che protegga perché “Amore è concedere possibilità”.  E la poesia deve essere anche impegno civile come sosteneva Manzoni.

In un mondo reso sempre meno leggibile dal moltiplicarsi dei linguaggi, “Il lievito madre è oppresso/ dallo straripare dei contesti”, la poesia può attraversare la crisi di una cultura e di una società e del loro linguaggio, afferma Della Posta, e può muovere alla riconquista di un ordine razionale per far maturare sempre più le riflessioni e i significati dai sillabari dei cortili, come un seguito di onde o cerchi concentrici che da essi si irradiano.

Scrive nella densa prefazione, che spazia tra le varie sezioni del libro, Nicola Grato: “Ricerca di parole vere, questa è la poesia di Fernando Della Posta; nessuna concessione al bel verso all’immagine strabiliante, al triplo salto dei nessi”  perché la poesia con la sua “inutilità” rappresenta qualcosa di autenticamente umano, rifiuta di essere ridotta a produzione e a merce e incarna il valore del raccoglimento di fronte all’universo chiassoso e dispersivo delle comunicazioni di massa, lasciando spazio a interrogativi profondi “dove sbagliamo? Perché non siamo tra voi?”

La poesia di Della Posta in tal senso richiama l’approccio di Gozzano e Palazzeschi: pur conservando il suo impegno civile non si lascia sedurre da virtuosismi e barocchismi, perché, secondo l’autore, il “nostro cortile” oggi non ne ha bisogno, non lo capirebbe.

 

L’autore

 

Fernando Della Posta è nato nel 1984 a Pontecorvo in provincia di Frosinone e vive e lavora a Roma. Tra i tanti riconoscimenti ottenuti in poesia nel 2011 è arrivato tra i finalisti al concorso di poesia “Ulteriora Mirari” nella sezione silloge poetica inedita; nel 2015 è risultato tra i finalisti del concorso letterario “Sistemi d’Attrazione”, legato al festival “Bologna in lettere 2015”, nella sezione dedicata a Pier Paolo Pasolini; nel 2016 vince il concorso “Stratificazioni: Arte-fatti Contemporanei” legato al festival letterario di Bologna in Lettere 2016 nella sezione B poesia inedita a tema libero e ottiene una menzione al XXX premio Montano per la silloge inedita. Nel 2017 vince il Premio Nazionale Poetika nella sezione silloge inedita.

Nel 2018 si classifica secondo nella sezione inediti di poesia al Premio “Andrea Torresano”, ottiene una segnalazione al premio Lorenzo Montano per la silloge inedita e vince il Premio Letterario Zeno nella sezione poesia. Nel 2019 ottiene piazzamenti da finalista per la raccolta inedita ai concorsi: “Paul Celan”, “Pietro Carrera” e menzioni speciali al premio nazionale editoriale “Arcipelago Itaca”.

Nel 2021 ottiene il terzo posto per la poesia inedita al Premio Umbertide XXV Aprile. Numerose sono le sue recensioni e le sue sillogi reperibili su diversi blog letterari come Neobar, di cui è redattore, Words Social Forum, Viadellebelledonne, Poetarum Silva, L’EstroVerso e Il Giardino dei Poeti.

Nel 2011 ha pubblicato la raccolta di poesie “L’anno, la notte, il viaggio” per Edizioni Progetto Cultura e, sempre in poesia, nel 2015 “Gli aloni del vapore d’Inverno” per Divinafollia Edizioni, nel 2017 “Cronache dall’Armistizio” per Onirica Edizioni, nel 2018 “Gli anelli di Saturno” per Ensemble Edizioni, nel 2019 “Voltacielo” per Oèdipus Edizione, nel 2020 “Sembianze della luce” per Giuliano Ladolfi Editore e nel 2021 Sillabari dal cortile per Macabor Editore.

‘Le Sacerdotesse del quotidiano’, l’omaggio di Donatella Basili a tre grandi poetesse

Le Sacerdotesse del quotidiano è un libello che non deve ingannare per le sue dimensioni. Provoca un piacere inedito leggere pagine dense di poesia, profondità e di eleganza stilistica che omaggiano dignitosamente tre grandi poetesse: Emily Dickinson, Antonia Pozzi e Sylvia Plath.

Donatella Basili, l’autrice di questo sorprendente saggio del 2005, delinea in punta di penna i momenti più significativi della vita e dell’esperienza esistenziale di queste tre donne dotate di un animo delicato e, al tempo stesso, coraggioso. Le Sacerdotesse del quotidiano lascia, senza scadere nella referenzialità saggistica, che sia il suono dei versi di queste tre sacerdotesse a toccare le corde emotive del lettore senza risultare una lezione cattedratica. Donatella Basili non si sostituisce alle poetesse, non fornisce una pedissequa parafrasi dei loro lavori e non si limita ad una fredda biografia. Al contrario ne coglie luci e ombre con la sensibilità necessaria a tracciare delle linee che possano incuriosire e coinvolgere il lettore, sia esso già un affezionato estimatore o un neofita.

La disamina sensibile di tre figure femminili molto diverse ma accomunate da uno sguardo che più che verso il mondo è proiettato sul proprio io interiore, fa ben comprendere perché le voci di Emily Dickinson, Sylvia Plath e Antonia Pozzi ancora oggi abbiano ancora molto da raccontare. L’autrice riesce in modo ineccepibile a dare sostanza a queste voci meravigliose, attraverso un lavoro che si inserisce in una prospettiva prettamente emotiva e che ha come punto di fuga una sorta di tragico sussurro.

Una dimensione sospesa, che non ha tempo e luogo, si delinea come un viaggio estremamente interiore. Donatella Basili indaga nel loro io, scava nelle loro emozioni e attraverso la scrittura asciutta e poetica al contempo, traccia i contorni dell’Io più nascosto. Attraverso le coordinate cartesiane riporta su di un grafico immaginario, che coincide con la coscienza di sé, le percezioni della Dickinson, della Plath e della Pozzi, nel tentativo di dare una forma razionale ad esperienze che fuggono, scivolano tra le dita e che sanciscono la caducità dell’esistere umano.

I punti di contatto con la realtà svaniscono pagina dopo pagina e predomina una poetica surrealtà. La voce narrante calibra le parole in modo che restino aggrappate sulla pagina e rintocchino nel cervello del lettore. Nulla è immediato, c’è un’urgenza che è quella del comprendere ancor prima che del sentire. Lo sguardo è disincantato, l’analisi a volte amara non è per nulla scontata.

In Le Sacerdotesse del quotidiano, uno dei protagonisti è il tempo. Quello della Basili che segue un raffinato file rouge, quello delle tre voci delle poetesse che accompagnano chi legge e quello del lettore stesso, che deve riflettere, assaporare le parole, fermarsi su di esse per comprendere un testo che non può essere divorato, come la narrativa degli ultimi tempi. Appropriarsi dei tempi della lettura per goderne appieno il piacere. Solo allora anche le emozioni comparteciperanno alla comprensione.

Lo sguardo sulla realtà è affidato alle composizioni poetiche, funzionali al testo per determinare un climax che lascia il segno.I versi raccolti con dovizia dall’autrice sono passi in punta di piedi. I movimenti cadenzati accompagnano parole sbriciolate su pagine opache ed evidenziano quanto le tre poetesse, più di altri, abbiano dedicato una ricerca personale che verte anche sulla parola. Quest’ultima è ancella e unica testimone di emozioni,  corrono il rischio di sbiadire nel tempo e la Parola salva dal vuoto di sogni.

Le sacerdotesse del quotidiano si fa necessità e vera urgenza che si manifestano nel tentativo di recuperare la virtù dell’ascolto, del non lasciarsi sopraffare dal vuoto dell’ovvietà. Lo sguardo delle tre poetesse si risolve in brevi tocchi, nel momento in cui nell’impossibilità del dialogo, anche le parole rischiano di precipitare nel nulla. Così i sensi divengono l’unico ausilio sincero, inequivocabile, per afferrare ciò che è destinato a mutare.

Emerge in queste pagine un’estetica del silenzio, il vero rumore di tre anime disabitate. Si avverte a fior di pelle l’amore, il fascino per la parola, per i suoni, sino alle sillabe. Un ulteriore difesa adottata dalle tre sacerdotesse sono i ricordi, i più quotidiani senza particolari iperbole, che appartengono ad una musa silente, la quale si aggira sonnambula tra le pagine di questo piccolo manufatto screpolato.

Gli intrecci di pensieri e i sospiri segnano i contorni di una miniatura impressionista. E in questo sbottonarsi di pensieri, di digiuni infiniti, Le Sacerdotesse del quotidiano recupera una sorta di densità che solo le attese sono in grado di provocare.

Indubbiamente quest’opera è un delicato flusso di pensieri che merita di essere goduto con un adeguato sottofondo musicale e una luce quasi crepuscolare, per valorizzare l’intensità di versi sussurrati.

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