Ricordando la poetessa Antonia Pozzi a 110 anni dalla sua nascita

Antonia Pozzi nasce a Milano il 13 Febbraio 1912. Figlia di Roberto Pozzi, rinomato avvocato, e della contessa  Lina Cavagna Sangiuliani trascorre un’infanzia serena e ricca di stimoli intellettuali. Antonia, infatti, appartiene a una delle più facoltose famiglie lombarde; dapprima, risiede a Milano nei pressi di Corso Magenta. Solo nel 1917 la famiglia decide di acquistare una villa settecentesca  a Pasturo, in Valsassina (Lecco).

L’antica villa sarà un luogo cardine per Antonia: il famigerato nido pascoliano in cui amerà tornare, di volta in volta, sia per immergersi nello studio della sua biblioteca sia per trovare gli spunti adatti alla sua poesia: la natura e le adorate montagne. La parentesi adolescenziale della poetessa lombarda produce i primi tormenti all’interno del suo animo; Antonia Pozzi studia al liceo classico Manzoni, ed è proprio qui che intreccia una passione amorosa con il suo insegnante di latino e greco, Antonio Maria Cervi. La relazione dura fino al 1933 e, fino a quel periodo, i genitori cercano di osteggiarla in ogni modo.

Antonia Pozzi: un animo ipersensibile

La grande italianista Maria Corti descrive Antonia Pozzi come un vortice di ipersensibilità, dalla cui sommessa e dolce inquietudine estrapolava una potente angoscia creativa; la Corti paragonava il suo animo alla selvaggia vegetazione di montagna, quelle piante che crescono lungo i crepacci e che per necessità devono essere libere di espandersi, sempre in bilico sull’orlo dell’abisso. Una comparazione lineare con lo spirito della poetessa poiché erano proprio gli elementi presenti in natura a consolarla << più dei suoi simili>>.

Nel 1930 si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia, frequentando il corso di Filologia Moderna: gli anni universitari sono fondamentali per la giovane Antonia poiché non solo acuisce e intensifica i suoi interessi culturali ma conosce nomi importantissimi del futuro panorama letterario: i filosofi  Enzo Paci ,Remo Cantoni e Dino Formaggio. Qui stringerà un’amicizia fraterna con un altro grande nome della poesia italiana, Vittorio Sereni. Di lui, la Pozzi, dirà:

<<Quell’essere di sesso diverso, così vicino che pare abbia nelle vene lo stesso tuo sangue, che puoi guardare negli occhi senza turbamento, che non ti è né di sopra né di fronte, ma a lato, e cammina con te per la stessa pianura>>.

Si laurea con Antonio Banfi nel 1935, discutendo una tesi su Gustave Flaubert.

 

Le leggi razziali e le prime avvertenze di cupa inquietudine

Antonia viaggia, coltiva la passione della fotografia, ama le escursioni in bicicletta immersa nella natura, progetta un romanzo storico sulla Lombardia e studia il tedesco, l’inglese e il francese. Tuttavia, appartengono a questo momento storico le prime sfumature di cupa inquietudine.

Antonia sente che il clima politico si è incupito; quasi profetica, immagina la tragedia, la sente avanzare. Nel 1937, nel tentativo di trovare un equilibro, ricostruire sé stessa ed emanciparsi dai genitori, inizia a insegnare letteratura presso l ‘Istituto Schiaparelli di Milano. Dopo aver trascorso l’estate del 1938 fra Pasturo e Misurina, progettando il grande romanzo storico lombardo che aveva in mente, l’avvento delle Leggi razziali nell’autunno 1938 si  scaraventa ingiustamente contro molti dei suoi amici, alcuni dei quali espatriano o si trasferiscono.

La sua migliore amica, Elvira Gandini, si è sposata e si è trasferita in Valtellina; un’altra sua cara amica, Lucia Bozzi, insegna a Brescia. Quasi accorata e impotente scrive al suo caro amico Vittorio Sereni, costretto a frequentare un corso ufficiali presso Fano:

«Forse l’età delle parole è finita per sempre».

Una frase d’effetto che, sicuramente, si riferiva all’angoscia provata per la situazione cupa del tempo, ma che probabilmente presagiva anche quel gesto che, di lì a poco, avrebbe compiuto. Poco prima del suo suicidio si dichiara all’amico e filosofo Dino Formaggio; Formaggio le dirà che, nonostante l’affetto, quel loro rapporto non potrà mai essere contraddistinto dal sentimento amoroso. Il 2 dicembre 1938, come consuetudine, si reca a scuola; alcuni ragazzi la sorprendono mentre piange, tacitamente.

Sono le 11.00  quando dichiara di avere un malore e, dopo aver salutato gli allievi intimandoli a essere buoni, si dirige nella periferia milanese, presso Chiaravalle. Si adagia, leggiadra, sul prato; tra la neve di quella gelida mattina di dicembre, ingurgita una pesante dose di barbiturici e aspetta che la colga la morte. Un contadino la intravede: tuttavia, è ormai agonizzante e a nulla servono i soccorsi. Muore la stessa sera, il 3 dicembre nella sua casa.

Antonia aveva premeditato quel gesto, probabilmente divorata da un malessere vivido e fattosi carne, a poco a poco. Lascia tre messaggi: uno all’amico amato, Vittorio Sereni, in cui trascrive una sua poesia, Diana; uno a Dino Formaggio; l’ultimo ai genitori:

‘’Ciò che mi è mancato è stato un affetto fermo, costante, fedele, che diventasse lo scopo e riempisse tutta la mia vita. […] Direte alla Nena –  l’amata nonna –  che è stato un male improvviso, e che l’aspetto. Desidero di essere sepolta a Pasturo, sotto un masso della Grigna, fra cespi di rododendro. Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato. E non piangete, perché ora io sono in pace. La vostra Antonia’’.

Una poetica trasfigurata: inquietudine, tragedia personale e asciutte parole

Dopo il suicidio di Antonia, il padre racconta che la scomparsa della figlia è da imputare a una polmonite. Roberto Pozzi, per rendere lindo il ricordo della figlia, decide di pubblicare la prima raccolta di Antonia; elogiata dalla critica e dallo stesso Montale, presto ci si rende conto di qualcosa di oscuro: i testi di Antonia sono stati manipolati.

Il padre, infatti, prima di pubblicare le poesia ha effettuato una revisione tagliando i versi più scabrosi o che potessero inficiare il ricordo della stessa Antonia e della famiglia. Un’evidenza palese, perché quei tagli riemergono prepotenti, svilendo profondamente il vero pensiero della giovane poetessa lombarda. Sarà, agli inizi degli anni ’80, Onorina Dino a documentarsi sui manoscritti originali della poetessa riportando i suoi versi agli antichi splendori conferiti da Antonia. La poesia della Pozzi è, infatti, essenziale, scabra, asciutta: nelle sua parole coesistono gli echi dell’espressionismo tedesco e la semplicità del crepuscolarismo. E’ l’elemento naturale a non mancare mai. In Prati (1931) dice la Pozzi:

Forse la vita è davvero
quale la scopri nei giorni giovani:
un soffio eterno che cerca
di cielo in cielo
chissà che altezza.

Ma noi siamo come l’erba dei prati
che sente sopra sé passare il vento
e tutta canta nel vento
e sempre vive nel vento,
eppure non sa così crescere
da fermare quel volo supremo
né balzare su dalla terra
per annegarsi in lui.

Antonia Pozzi si serve delle immagini della natura per far congiungere come ponte dorato, al loro interno, il riflesso dei suoi sentimenti. Il legame con l’elemento natura si nota anche con un’espressione che, quasi ridondate, ritorna in molti dei suoi componimenti; l’universo lirico pozziano si schiude interamente nell’immagine del cielo, simbolo di ascesi, di brama di luce, di infinito e contemplazione.

Il suo è quasi un tendere costantemente alla luce, una ricerca di bagliore quasi in contrasto con una vita punteggiata di malinconie e delusioni. La poetica è luminosa composta da grovigli esistenziali squarciati da baluginii luminosi: le parole e la natura. E’ una poesia tragica, che non si oppone ma si rassegna al tempo in un’attesa angosciante fatta di amori svaniti e animi turbati: Antonia è la poetessa del silenzio, ossimoro con la sua costante ricerca di luce.

La vita, adesso, è percepita come un nulla: Antonia Pozzi non regge i sentimenti contrastanti che la dilaniano ed è alla continua ricerca di una fede, un sentimento religioso che lenisca il suo dolore. Nella lirica  Grido del 1932 si scorge tutta la sua impotenza, la resa di una donna alla ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi:

Non avere un Dio
non avere una tomba
non avere nulla di fermo
ma solo cose vive che sfuggono.

In Confidare del 1934, troviamo i tre elementi caratterizzanti la sua poetica: la ricerca di fede, la luce costante, la natura:

Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.

Tu sai tutti i segreti,
come il sole:
potresti far fiorire
i gerani e la zàgara selvaggia
sul fondo delle cave
di pietra, delle prigioni
leggendarie.

Ho tanta fede in te. Son quieta
come l’arabo avvolto
nel barracano bianco,
che ascolta Dio maturargli
l’orzo intorno alla casa.

 

L’indissolubile legame con la natura, una geografia lirica alla costante ricerca di luce

La natura è lo specchio del mondo in cui Antonia trova conforto e si riflette, mescolando pulsioni di vita e di morte in un continuo dialogo dei contrari, testimonianza di un’anima imbevuta di oscurità ma anelante al bagliore, sinonimo di eventuale e auspicato calore umano. La lirica Bellezza del 1934 è il manifesto della sua anima, dove la sua amata natura e la sua continua ricerca si susseguono in immagini arcadiche e bucoliche, le uniche capace di lenire le sofferenze di Antonia:

Ti do me stessa,
le mie notti insonni,
i lunghi sorsi
di cielo e stelle – bevuti
sulle montagne,
la brezza dei mari percorsi
verso albe remote.

Ti do me stessa,
il sole vergine dei miei mattini
su favolose rive
tra superstiti colonne
e ulivi e spighe.

Ti do me stessa,
i meriggi
sul ciglio delle cascate,
i tramonti
ai piedi delle statue, sulle colline,
fra tronchi di cipressi animati
di nidi –

E tu accogli la mia meraviglia
di creatura,
il mio tremito di stelo
vivo nel cerchio
degli orizzonti,
piegato al vento
limpido – della bellezza:
e tu lascia ch’io guardi questi occhi
che Dio ti ha dati,
così densi di cielo –
profondi come secoli di luce
inabissati al di là
delle vette –

 

Nella lirica Periferia del 1938, dedicata alla periferia milanese dove faceva volontariato in Via dei Cinquecento, Antonia esprime tutta la sua paura per la vita dicendo << ho paura dei tuoi passi fangosi, cara vita>>; eppure emerge la sottile e reiterata sensibilità della sua anima: le fabbriche  avanzano senza lasciar spazio alla natura e ai suoi elementi soffocati dal cemento:

E già sentiamo
a bordo di betulle spaesate
il fumo dei comignoli morire
roseo sui pantani.

Il silenzioso avanzamento delle fabbriche, come un rombo distruttivo dal passo felpato che sovrasta la natura, provoca in Antonia un turbamento doloroso; l’uccisione della sua fonte di consolazione primaria che scalpita, nella potente immagine che dà delle betulle spaesate di fronte a un’irruzione senza sosta di elementi artificiali e asettici. La poesia di Antonia di destreggia in un quotidiano scolorito, fatto di espressioni rudi, linguaggi ruvidi e realistici: la vera Antonia è quella della lirica di Via dei Cinquecento, dove soffre ed empatizza con le sofferenze altrui.

La sua è una voce lucida, attenta, dedita a cogliere le sfumature; un’anima intrisa di tormento che brama leggerezza, come scriverà poi nella lirica Desiderio di cose leggere del 1934:

Ma giungerà una sera
a queste rive
l’anima liberata:
senza piegare i giunchi
senza muovere l’acqua o l’aria
salperà – con le case
dell’isola lontana,
per un’altra scogliera
di stelle.

Antonia Pozzi, quasi profetizzando la sua fine appena quattro anni dopo, libera la sua anima proprio fra i giunchi di un prato, su una riva gelata con il volto rivolto al sua amato cielo. Una delle poetesse più dimenticate del ‘900, riscoperta postuma, la cui vicenda personale ha sporcato e svilito la sua produzione alta, lirica, visionaria,  come spesso accade alle anime di un certo calibro.

 

 

 

Agostino John Sinadino, poeta geniale e sconosciuto

Gian Pietro Lucini, nel suo Ragion poetica e programma del verso libero. Grammatica, ricordi e confidenze per servire alla storia delle lettere contemporanee del 1908, dedica qualche pagina  ad un poeta suo contemporaneo, tanto sconosciuto al tempo quanto oggi. Il suo nome è Agostino John Sinadino, per quanto i suoi scritti compaiano firmati anche come Agostino Giovanni Sinadinò e Agostino John Sinadinò.

Lucini, nelle sue pagine, ne stende una biografia alquanto romanzata e ne elogia  il lavoro in versi, indicandolo come uno degli esempi più felici di libertà e rinnovamento dei canoni stilistici. Queste pagine luciniane sono state per lungo tempo una delle poche tracce del passaggio di Sinadino su questa terra. Si tratta, infatti, di un personaggio sfuggente, la cui opera risulta introvabile sin dalle prime copie, di cui mancano, salvo un caso, ristampe dalle prime edizioni.

Tutto ciò ha contribuito ad adombrare enormemente la fama del poeta, tanto che ancora oggi è sconosciuto non tanto alla massa dei lettori di cultura media, ma anche a una vasta fetta di “addetti ai lavori”. Certo, il mondo della letteratura straripa di poeti dimenticati dalla storia, vuoi per inconsistenza dei versi, vuoi perché troppo legati alle contingenze in cui scrivevano.

Non tutti i tentativi di recupero aggiungono qualcosa al panorama globale della storia della letteratura, rischiando di diventare semplici esercizi di erudizione. Quello di Sinadino, però, è un caso assai particolare, controverso, che merita almeno un poco della nostra attenzione.

Nato al Cairo il 15 febbraio del 1876, Agostino è figlio di un importante banchiere greco, Ioannis Constantin Sinadino, e di una musicista italiana, Carolina Casati. Ioannis era una personalità molto importante nel mondo della finanza, tanto da intrattenere rapporti lavorativi e di amicizia con la famiglia reale d’Egitto.

Per questo, Agostino riceve la sua formazione culturale ad Alessandria d’Egitto, esattamente come altri grandi della letteratura novecentesca nostrana (Marinetti, Ungaretti e Pea). Sin da subito, però, è abituato a viaggiare: Agostino vive la sua giovinezza spostandosi continuamente dall’Egitto all’Italia, con sparute tappe in Grecia, seguendo gli interessi del padre e le esigenze familiari. Questo continuo viaggiare, la formazione ricevuta in una città come Alessandria e la famiglia particolare fanno sì che Agostino riceva una formazione estremamente cosmopolita, testimoniata anche dalle lingue da lui conosciute: oltre all’italiano e il greco, Sinadino parla fluentemente pure il francese e l’inglese, le lingue più diffuse in quel momento in Europa – la prima nel mondo culturale, la seconda nel mondo commerciale, per quanto fosse già da tempo di moda tra gli intellettuali.

Alla morte del padre, avvenuta nel 1890, Agostino si aggiunge, in suo onore, il secondo nome “John”, usando l’inglese, probabilmente, in onore della già citata moda anglofona del tempo. A seguito del tragico evento, la famiglia si stabilisce definitivamente a Milano, luogo di origine della madre, ma Agostino non vuole proprio saperne di mettere radici: nel 1895 torna ad Alessandria, dove si lega ad associazioni culturali del luogo; negli anni successivi, sarà un continuo spostarsi tra Alessandria d’Egitto, Milano e Lugano.

È questo anche un periodo di particolare fervore creativo: nel 1898 pubblica la sua prima silloge ad Alessandria, ovvero Le presenze invisibili, due anni più tardi, La donna dagli specchi a Milano e pure Melodie a Lugano. Sempre a Lugano, nel 1901, Sinadino pubblica il poema intitolato Solennità: La festa. Su quest’ultima opera, è necessario soffermarsi, anche per fornire una panoramica generale dello stile e della poetica di Sinadino.

La festa è considerata dai pochi studiosi di Sinadino l’opera più importante, nonché quella su cui si è creata la “leggenda” di Sinadino. Stampata in cento copie numerate, in carta di lusso (esattamente come tutte le opere di Sinadino), distribuita a pochi “meritevoli” – tra i quali probabilmente Lucini – La festa divenne introvabile già pochi mesi dopo la sua stampa.

Per lunghissimo tempo, l’unica prova dell’esistenza di questo poema ha risieduto nelle note del già citato saggio di Lucini; nei rari ambienti di studio dedicati a Sinadino, La festa, che avrebbe dovuto costituire un esempio importante di sperimentalismo stilistico e linguistico pre-futurista, divenne quasi un oggetto mitologico; qualcuno cominciò pure a sospettare che si trattasse di un’invenzione dello stesso Lucini. Questo, almeno, fin quando nel 2001 – ovvero un secolo esatto dalla sua data di pubblicazione – non è stata recuperata una delle cento copie della Festa.

Sotto l’influenza dell’ultimo Mallarmé, Sinadino crea un poema altamente sperimentale, dove le norme tipografiche – ovvero l’uso di caratteri uniformi, dell’uso uniforme dell’inchiostro nero -, le divisioni tra generi letterari – ovvero tra prosa e poesia – decadono completamente, lasciando piena libertà creativa all’esteta massimo, il poeta. Non è un caso che tutto il prodotto sia riconducibile a Sinadino: non solo il contenuto, ma tutto il volume. È sempre Sinadino, infatti, a scegliere il tipo e il formato della carta, le miscele e il colore degli inchiostri, il tipo di rilegatura, come se tutti questi dettagli fossero parte integrante della sua opera. D’altronde, il poema inizia proprio coi seguenti versi:

«Ogni aspetto della vita – geometricamente – concorre ad una sola Forma, solenne essenziale immutabile:

il libro

Lì dòrmono, inclusi, genitàbili, i germi;

Pane pàlpita, il

Fuoco

la Teogonìa;

le diamantine leggi e la mutévole materia del Mondo: assunte.»

Il libro, dunque, diventa parte integrante di un enorme processo creativo che cerca di inglobare tutta la vita. Di più, il libro diventa strumento per ordinare e cristallizzare «ogni aspetto della vita» in una forma specifica, vitale, fiammeggiante e totale a tal punto da “assumere” in sé tanto le «diamantine leggi» quanto la «mutévole materia».

Con questo, dunque, si spiega l’uso abituale di Sinadino, non solo con questo poema, di pubblicare i suoi lavori in poche copie numerate, in edizioni estremamente curate e lussuose da lui curate sin nei minimi dettagli, fuori dai circuiti delle case editrici del tempo.

 

Nicolò Bindi

Sylvia Plath, all’asta i suoi cimeli. Uccidono la poetessa preferendole la casalinga tormentata e tradita

C’è qualcosa di morboso e mortifero riguardo a quello che sta accadendo intorno alla figura della poetessa Sylvia Plath. Il pubblico di vampiri che non si limita a succhiare la vita altrui – gargarismo infame – ma a insistere sui morti, a mordere gli spettri, a masticarli, a leccarli, in un incestuoso incrocio di crudeltà, viltà, denaro.

La notizia è stata data con fioritura di trombe dai tromboni dell’informazione: il 9 luglio prossimo Sotheby’s batte un mucchio di “oggetti intimi” di Sylvia Plath, la grande poetessa morta suicida, con la testa nel forno (particolare non trascurabile per chi smercia in agiografie), nel febbraio del 1963.

Il catalogo di Sotheby’s, allestito con un titolo ornamentale, “Your Own Sylvia”, manco fosse uno show, è ghiotto, grasso per iene. Quasi tutti gli oggetti fanno riferimento alla relazione tra Sylvia e Ted Hughes, futuro “Poet Laureate”, poeta straordinario, marito fedifrago, forse violento, sciamanico.

All’asta i cimeli di Sylvia Plath

Così, va all’asta il ritratto a penna che Sylvia ha fatto a Ted, di rude bellezza, stimato tra gli 11 e i 17mila euro; un amuleto raffigurante il dio egizio Horus che Ted ha regalato a Sylvia (base d’asta: mille euro); un ritratto fotografico di Ted & Sylvia, realizzato da David Bailey (tra i mille e i 1400 euro); naturalmente, ci sono anche alcune lettere battute a macchina da Sylvia a Dearest love Teddy… (quella del 5 ottobre 1956 ha un valore stimato tra i 17.200 e i 23.300 euro).

Chi è particolarmente famelico si può comprare gli anelli di matrimonio di Sylvia & Ted, stimati tra i 7 e i 9mila euro: emblema, invero, di una unione funestata dalla mania e dal tradimento.

Il mercimonio suo cadaveri eccellenti prosegue. Che strano mondo quello in cui si decapitano le statue e ci si installa nella biografia di un poeta, lo si pone sul piedistallo, si officia il rito agiografico, inchiodando ceri fasulli nell’ossario del caro estinto.

C’è qualcosa di sinistro, di obliquo, di insano in questo scisma del cadavere: la necessità di aspirare la tragedia altrui, di respirarla, traendone un diabolico beneficio.

Passione necrofila

Già, perché di Sylvia Plath, poetessa eccellente, adoriamo quello: la vita tormentata, l’amore sbagliato con un poeta titanico, il catrame caratteriale, la sessualità ferina, lei, spuria icona femminista, un po’ Medea, un po’ Arianna, un po’ regina delle Amazzoni, di cui sappiamo tutto, abbiamo sarchiato tutto, i diari, le lettere, il fottio di pettegolezzi.

Inutile giocare alle belle statuine di sale: di Sylvia più che l’opera – l’unica cosa che interessava a lei, che della propria meridiana quotidianità scrive crocefissa dal dolore – interessa la vita, lo scempio, il fallimento, il suicidio.

Pubblico di livide iene, come quello che si accalca intorno a un incidente stradale, cellulare in mano – la fotografia-monile –, famelico di sangue, urla, morte.

Lasciamo in pace la vita privata di Sylvia Plath

Aneliamo la morte dell’altro, anulare d’argento, non c’è altro da dire, meglio se famoso; il suo oggetto intimo, il suo privato, è la cadaverica testimonianza della nostra vittoria sul regno dei morti, ammantata da studi, beneficienza, portafogli (d’altronde, solo i ricchi pacchiani e gretti si possono comprare le anime morte, e relegarle nel recinto delle regalie, nella gabbia degli spettri che non muoiono mai, condannati dai vivi a replicare in eterno la propria pena).

A forza di speculare sulla sua esistenza, hanno finito per ammazzare la Plath; a furia di scavare nei meandri della sua intimità, ficcandosi nel letto nuziale della Plath, spiando le vergogne, sgusciando tra gli umori appestati, facendo sesso col morto, rivelando l’osceno e il dolore, hanno ucciso la poetessa preferendo la casalinga tormentata.

Proponiamo invece una delle sue poesie più belle, Il colosso

 

Tu forse ti consideri un oracolo,

portavoce dei morti, o di chissà quale dio.

Sono trent’anni ormai che mi affatico

per cavarti la melma dalla gola.

E ne so quanto prima.

Mi arrampico su per scale a pioli con barattoli di colla e di lisolo,

striscio come formica in lutto

sugli acri della tua fronte invasi dalle erbacce

per riparare le immense placche del tuo cranio e ripulire

i bianchi tumuli vuoti dei tuoi occhi.

Un cielo azzurro uscito dall’Orestea

s’incurva su di noi. Oh padre mio, tutto solo

sei essenziale e storico come il Foro Romano.

Tiro fuori il mio pranzo su una collina di cipressi neri.

Le tue ossa incise e i capelli d’acanto sono sparsi

fino all’orizzonte nell’antica anarchia.

Ci vorrebbe ben altro che un fulmine

per creare tanta rovina.

Di notte mi accoccolo nella cornucopia

del tuo orecchio sinistro, al riparo dal vento,

e conto le stelle rosse e quelle color prugna.

Il sole sorge da sotto la colonna della tua lingua.

Le mie ore sono sposate all’ombra.

Non tendo più l’orecchio per sentire il raschio di una chiglia

sulle pietre nude dell’approdo.

 

Fonte Davide Brullo

Vittorio Sereni e T.S. Eliot: un’affinità poetica inesplorata

Quella di Vittorio Sereni  è una delle voci più rappresentative del panorama letterario novecentesco in Italia. Inquieta e irrisolta, la sua opera poetica registra i movimenti (intimi e non) che accompagnano il prepararsi del secondo conflitto mondiale, gli anni della guerra e il periodo postbellico.

Chiamato alle armi nel 1941, nel luglio del ’43 viene fatto prigioniero a Trapani dalle truppe Alleate insieme al suo reparto e trasferito in Nord Africa : iniziano così due anni esatti di prigionia (24 luglio 1943-28 luglio 1945), che Sereni trascorre tra Algeria e Marocco, perennemente attanagliato dalla sensazione di essere stato tagliato fuori dalla Storia, dalla giovinezza e dalla vita.

Gli oscuri presagi che rabbuiano i suoi versi già dalle prime due raccolte («Ma fischiano treni d’arrivi | s’è strozzato nel caldo | il concerto della vita»; «Siamo tutti sospesi | a un tacito evento questa sera | entro quel raggio di torpediniera | che ci scruta poi gira se ne va») si traducono poi nel patologico senso di colpa dell’aver vissuto la guerra, e quindi la storia, soltanto “dal margine”, senza davvero prendervi parte; questa sensazione di estrema inadeguatezza, nota dominante del successivo discorso poetico di Sereni, non verrà mai superata e assurgerà anzi a cifra identitaria dell’uomo e del poeta («dimmi che non furono soltanto | fantasmi espressi dall’afa, | di noi sempre in ritardo sulla guerra | ma sempre nei dintorni | di una vera nostra guerra…»; «[…] prega tu se lo puoi, io sono morto | alla guerra e alla pace» ).

La condizione di prigioniero in perpetua attesa rende il poeta di Luino inadatto e incapace, a suo stesso dire, di partecipare al grande flusso della storia, impedendogli, tra le altre cose, di assumere una posizione ideologica forte e decisa in anni, quelli del dopoguerra italiano, in cui la corrente dominante era quella del realismo “a tutti i costi”, inteso come reazione necessaria al disfacimento dei valori portato dal conflitto.

La poesia di Sereni non pretende mai di farsi portatrice di istanze universali: attraverso un’adesione quasi programmatica (ma che è in realtà una risposta ad un’intimissima e personalissima necessità espressiva) al mondo degli oggetti, il poeta di Luino elegge il reale e il quotidiano a basi costitutive e ispirazioni prime dei suoi versi. Alessandro Parronchi, poeta ermetico fiorentino con cui Sereni intrattiene un fitto ed entusiasta rapporto epistolare, commenta la prima raccolta dell’amico, Frontiera (uscita nel ’41), rilevandone la capacità di rimanere «vicinissimo agli oggetti e ai movimenti del cuore» , mentre all’invio di Pin-up girl (contenuta in Diario d’Algeria, la raccolta successiva), risponde nel novembre del ’45 con una sincera sorpresa per come l’autore sia stato in grado di «concreta[re] questo sentimento che qui traspare in immagini vive». E prosegue: «Questo sì è il regno delle cose che veramente ci appartiene […] ma che poeticamente è la tua scoperta e costituisce la tua originalità» .

Di fatto, fin dalla composizione delle prime poesie poi confluite in Frontiera, l’atmosfera lacustre e la condizione di liminarità (anche geograficamente intesa; Luino si trova sulla riva lombarda del Lago Maggiore, non lontano dal confine con la Svizzera) alimentano i versi di Sereni andando a costuire un vero e proprio tòpos e luogo interiore , e l’ispirazione della sua opera si fonda sempre sulla sua personale esperienza umana. A questo proposito, si esprime bene Mengaldo in una nota in “Ricordo di Vittorio Sereni”:“[…] Ungaretti o Montale […] sono poeti che ancora pretendono di comunicare, attraverso la poesia, una verità. […] Per Sereni, e così per Bertolucci o per Caproni […] si tratta di molto meno: di comunicare un’esperienza”.

Il percorso poetico di Sereni non è mai facile né immediato, e la sua appropriazione del mondo esterno richiede sempre un lento processo di assorbimento e stratificazione di significati ed emozioni.

L’ultima raccolta di Sereni, edita nel 1980 e ripubblicata nell’82, registra già dal titolo l’avvento di un profondo mutamento di prospettiva dal mondo degli umili “strumenti umani” a quello astronomico delle stelle, rappresentazione di quell’altrove metafisico (sia esso il regno della memoria, del sogno o della morte) già abbozzato, come abbiamo visto, in chiusura della raccolta precedente .

La struttura di Stella Variabile seguita a sfaldarsi, l’io poetico fatica a saldare il discorso entro una struttura compatta, l’andamento si fa sempre più narrativo, e i componimenti accolgono un numero sempre maggiore di stimoli mutuati dall’esterno (citazioni colte, auto-citazioni, frammenti di testi in lingua straniera); è interessante considerare che, mentre per Eliot questo tipo di strutturazione risulta essere la cifra identitaria delle prime opere, ancora completamente immerse nella crisi , per venire poi risolta e rinsaldata nei poemi successivi grazie alla fiducia in una possibile risoluzione futura, per Sereni questo procedimento emerge proprio come approdo finale del percorso di un soggetto che, essendosi visto negare qualsiasi certezza e assolutezza di valori (dal punto di vista esistenziale, ma anche da quello più propriamente poetico), non è più in grado di ritrovare una voce unitaria per potersi esprimere.

Nonostante questa sostanziale differenza, è ancora l’opera del poeta inglese a trasparire in sottotesto a molti dei componimenti che vanno a formare l’ultima raccolta sereniana. Abbiamo già detto dell’introduzione di elementi eterogenei nel tessuto poetico (versi, versicoli, epigrafi), spesso in lingua straniera.

La terza sezione di Stella Variabile è interamente occupata dal poemetto sul posto di vacanza , ambientato a Bocca di Magra, località ligure «tra fiume e mare» in cui Sereni usa trascorrere i periodi estivi negli anni Cinquanta. Questa forte caratterizzazione spazio-temporale («Anno: il ’51») rende il discorso poetico sereniano certamente indipendente dall’intertesto dei Quartets (contraddistinti da una sostanziale mancanza di riferimenti specifici e concreti); tuttavia la rimodulazione dei principali nuclei tematici dei poemetti eliotiani è evidente .

Il componimento nasce da «uno dei tanti ritorni a Bocca di Magra in un giorno di fine autunno prossimo al gelo, che ridesta […] le tracce dell’estate ormai trascorsa» , e trova dunque già nella sua genesi il motivo della compresenza di passato e presente, tipico dei Quartetti (di Burnt Norton in particolare), che viene inoltre efficacemente espresso dall’immagine del «giorno concavo che è prima di esistere», con cui si apre la prima sezione; sembra, questa, un’appropriazione – o, meglio, una rielaborazione – dell’eliotiano «all time is eternally present» ; tale “sentimento del tempo” attraversa tutto il poemetto («Passano […] tutti assieme gli anni | e in un punto s’incendiano»; «Del tempo che forse cambia discorrono voci sotto casa»).

Il ritorno del poeta al luogo familiare innesca un meccanismo di ricordi («Qua sopra c’era la linea, l’estrema destra della Gotica, | si vedono ancora – ancora oggi lo ripeto […]») e di sovrapposizioni temporali («Ma intanto […] si dichiarò autunnale il tocco delle foglie»), proprio come accade nel caso della prima sezione di Burnt Norton, in cui «la visita al castello [del Gloucestershire] disabitato riporta al poeta le memorie della sua fanciullezza. […]

 

Fonte: https://www.academia.edu/23717978/T._S._ELIOT_e_VITTORIO_SERENI_unaffinità_inesplorata?sm=b

             Rossella Bugliesi | Università degli Studi di Torino – Academia.edu

‘Frammenti di un precario’ di Giuseppe di Matteo: i dolori e le gioie di una generazione

Il precario gioca la sua poetica finale, da outsider, come sempre, ma lasciando una scia profonda d’insegnamento ai posteri. Frammenti di un precario (Les Flâneurs Edizioni, 2019), del giornalista barese Giuseppe Di Matteo, già collaboratore de «Il Giorno», Telenorba e «La Gazzetta del Mezzogiorno», rappresenta una carezza sul capo dolente degli Ungaretti, Quasimodo e Saba: la sua poesia pianta nel panorama letterario ultra-contemporaneo un ermetismo 2.0 dallo stile godibile, pervaso d’attualità, che si esprime in schegge pregne di ricordi di viaggio, spinte da pavide emozioni della disillusa generazione “Z” e illuminate da fasci di luce di un lessico mescolato tra classicismo fondante e calembours transalpini.

Nella raccolta balza subito all’occhio il palpitante viaggio a Cuba dell’autore, nel quale la miseria terrificante delle classi sociali meno abbienti si scontra con le oasi occidentali che hanno soppiantato l’ideologia dittatoriale di Fidel Castro. L’autore ricorda i frangenti caraibici con un’immagine paradossale a trionfare inquieta su tutte:

Sono andato a Cuba una sola volta, nel 2016. Ma è stata per me un’esperienza fortissima. Avrebbe dovuto trattarsi di un viaggio di piacere, ma alla fine si è rivelato un castigo. E dov’era il “delitto” (per citare il romanzo forse più bello di Fëdor Dostoevskij)? Probabilmente in un peccato di gioventù: ero infatti convinto che Cuba fosse il luogo più bello del mondo. Beh, mi accorsi che si trattava di un’illusione. Posso dirlo anche perché credo di averla vissuta davvero, e con un occhio abbastanza giornalistico. A differenza di tanti turisti, che si fermano solo a L’Avana e a Varadero, io ho scelto di partire dalla spiaggia di Santa Lucia, che si trova nel sud dell’isola, a circa 550 km dalla capitale. Da lì poi mi sono spostato prevalentemente in auto. L’Avana è stata l’ultima tappa del mio viaggio, ma non mi ha entusiasmato per nulla. Ho incontrato tanta povertà e molta tristezza. Costanti per altro riscontrate durante l’intero cammino. Perché a Cuba si balla e si canta molto meno di quanto si creda in Europa. Ed è difficilissimo autodeterminarsi, emergere. Lo Stato controlla tutto e mortifica qualsiasi iniziativa individuale. […]

I versi che esplodono nella mente dell’autore hanno il sapore amaro delle lacrime del ragazzo che scorgeva dalla figura di Ernesto Che Guevara, portata sulla maglia secondo un ideale di libera ribellione e concitata uguaglianza, il proprio futuro, ma che nella realtà geopolitica vissuta sul campo si pone come castrazione filosofica al servizio dei meccanismi economici dominanti.

…E di quest’isola
dondolante tra i giganti
romanticamente mitizzata
da una gioventù senza pudore
ricorderò le palme piegate
dal vento che come oracoli
sussurrano profezie dolenti
quando la brezza si fa lieve. […]
rimesterò l’età dei muri
sgarrupati di L’Avana,
dove uomini e mestieri
muoiono al sole
e mi stenderò sul Malecón
vissuto di salsedine
che alla sua bruttezza
sopravvive nel ricordo
consumato dei poeti.

Ma l’ermetismo di Di Matteo si pone nell’accecante spirale nord-sud della storia d’Italia come meridionalismo poetico delle piccole cose. Il giovane barese grida al mondo dei padroni di tutto, «Ho fame / di domani / in una città / mai costruita», sognando l’irrealizzabile: l’apologia della meritocrazia nella terra più corrotta di sempre. La sindrome di Stendhal lo abbatte sensualmente, quando attonito osserva il simbolo frainteso del capitalismo italiano, il Duomo della Milano, in grado, coi suoi marmi gotici, di masturbarlo artisticamente, consegnandolo a una nuova avventura: Di te / meraviglia nuda / sul mio fiato.

Il poeta è patriota della sua casa natia, così odiata, così pretesa, così dura nel percuoterlo quotidianamente con imbarazzanti mancanze. Ciononostante, lui, per quel sud contrastante e contrastato, ci morirebbe, in un soffio stellato di foglie d’ulivo:

Morirei di Sud
per il Sud
prigioniero tra le macerie
di un pianto inerte
ostaggio inerme di un amore
che mi chiede di restare.

Si è sempre sud di qualcuno, bisogna accettarlo. Ma la lotta, nei versi di chi ama con dolore, è infinitamente rigenerante. La partita che investe il precario nel libro di Di Matteo racconta un primo e secondo tempo psicofisico, nei quali il gusto bucolico dei panorami circostanti e del buon sesso riconciliano il viaggiatore con un Dio perennemente assente.

I tempi supplementari portano il primattore a tracciare un bilancio obbiettivo di un’esistenza per nulla garrula, ma che lascia un incontrovertibile amaro in bocca. I calci di rigore, della finale intramontabile nella mente del lettore, sollevano il ruolo dei vincitori e degli sconfitti nella società che illumina i pochi e lascia i molti all’ombra, senza curarsi di coloro che infrangono le massime del fair play:
Posso dire con certezza chi vince: la voglia di riscatto di chi, pur se eternamente precario, continua a combattere. E la poesia. Che è un antidoto efficace per combattere la precarietà. E la solitudine.

Vince la poesia. Il precario non deve mollare, nonostante le umiliazioni dell’alienazione vigente. Certo, tra gli sbalzi ottimistici e melanconici di versi vissuti in prima persona da chi li ha cesellati, rimbalza, come una granata su campi di pace, il conflitto interiore di uno spirito irrequieto, portabandiera del disagio e del disadattamento sociale: «E con me / che non riesco / a parlare».

 

Annibale Gagliani

Sotirios Pastakas, autore della nuova raccolta poetica ‘Jorge’: “l’amore è diventato un lusso”

Ogni volta che qualcuno si chiede se questa vita abbia un senso, Jorge si lecca i baffi. Mentre il mondo corre e si affanna per sfuggire al “debito quotidiano”, Sotirios Pastakas – considerato da parte della critica come il più grande poeta greco vivente – guarda negli occhi il suo gatto Jorge e scopre un nuovo universo, più lento e meno violento.
Pastakas che in una vecchia raccolta scriveva: “Non mi lamento. / Mi è andata bene / nella vita: sono riuscito / ad acquistare un attico. / Finalmente posso piangere / con vista sul Partenone”, ha abbandonato il suo passato, la sua professione da psichiatra, e molte delle sue certezze.

Grazie alla collana Zeta de I Quaderni del Bardo Edizioni, curata da Nicola Vacca, Pastakas torna in Italia con la sua nuova raccolta intitolata appunto Jorge.

 

Lei scrive che nulla è reale per il suo gatto, ma cosa è reale per lei?

Il corpo. Questo bellissimo verso di Walt Whitman: “cosa sarebbe l’anima senza il corpo”, ha segnato la mia vita sia di psichiatra, sia di uomo. Non dimentichiamoci pure l’assioma di Fachinelli quando affermava che “il corpo è politico”.
Il corpo come produttore di pensieri, di sogni, di letteratura e, col suo permesso, di poesia. Non abbiamo altra ricchezza che il nostro corpo, l’unico nostro bene.

In diversi punti sembra esserci quasi un’identificazione fra lei e Jorge, il gatto protagonista dei suoi versi. Questa raccolta è anche una prova per guardare il mondo attraverso una nuova e insolita angolazione?

Ti sono grato per la tua rigorosa lettura di Jorge. Hai colto proprio il punto della “simbiosi” tra felino e umano. Abituato a mettere in pratica l’empatia nei miei rapporti con i pazienti, il mettersi continuamente nei panni dell’altro (un esercizio che mi ha bruciato come psichiatra), ho avvertito la necessità inconscia di guardare me stesso attraverso gli occhi del non-umano.

Naturalmente, tutto questo è venuto fuori a posteriori. Come sai, quando uno si mette a scrivere non sa mai dove andrà a parare. Il poemetto Jorge è stato scritto nello spazio di una settimana nel 2007, durante un mio viaggio in Cile, agli antipodi del mondo, nel mondo capovolto.

Nonostante i dialoghi con Jorge, si percepisce nella raccolta un sentimento di solitudine universale. Gli uomini fuori dalla finestra inconsapevolmente soli e lei dentro che avverte il silenzio di una tavola vuota. È d’accordo? 

Da Kafka, a Celan attraverso il massimo poeta del Novecento Samuel Beckett, e una miriade di poeti minori, sappiamo che l’unico modo di affrontare l’onere di chiamarsi uomo è quello di continuare a sperare. Sperare distruggendo. La distruzione dei punti di vista e la creazione di una nuova prospettiva li avverto come gli obblighi assoluti del poeta.

Teme che la traduzione in un’altra lingua possa tradire il senso e le sfumature della sua poesia?

Il rischio è ovvio. Saba diceva che la traduzione di una poesia è guardare e toccare una bellissima stoffa di velluto dalla parte della fodera. Nella lingua greca abbiamo l’esempio di Kavafis che viene tradotto e apprezzato in tutte le lingue del mondo.
Un segno di grandezza, come ha insegnato Borges, è quando l’opera sopravvive ai maltrattamenti di curatori e traduttori, come e successo a Don Chisciotte per almeno quattro secoli. Jorge arriva in doppia versione (inglese-italiano) e sono fiero di questa edizione.

Si può amare un animale allo stesso modo di una persona? E cos’è per lei l’amore, questa parola oggi così inflazionata?

Assolutamente no: non bisogna cadere nel patetico, gli animali sono animali. Prendersi cura di un altro essere, è una forma di amore. L’amore scarseggia perché nessuno vuol farsi carico di un altro essere. Nessuno si sacrifica più, e alle prime difficoltà si scompare. Dobbiamo ammettere che il sesso ha stravinto la sua partita con l’amore. L’uomo dei nostri giorni vuole fottere e basta. L’amore tra esseri umani è diventato un lusso in assoluto.

Si dice che i gatti abbiano sette vite, quante ne occorrerebbero all’uomo per trovare la felicità?

Bisognerebbe immigrare tutti negli Stati Uniti! L’unico paese che ha programmato la felicità nella sua costituzione, il famoso articolo 4, se non ricordo male. Una volta in America però, si scopre che il capitalismo ha fallito perché al posto della felicità proclamata per i suoi cittadini produce solo degli esseri infelici.
Come aveva già previsto Antonio Gramsci questa nostra civiltà ha fallito proprio perché non produce felicità. Bisogna reinventarsi da capo e essere felici, e non spendere sette vite in speranze.

 

https://www.tpi.it/2018/12/24/sotorios-pastakas-poesie-intervista/

 

Boris Vian, tra musica e letteratura, sperimentatore ineffabile

In nemmeno quarant’anni di vita, Boris Vian si è inserito nel panorama culturale parigino del primo Novecento nelle vesti più disparate: ingegnere, musicista, scrittore impegnato ed ironico. Un malato di cuore che per questo non è mai sazio di una vita di cui già presagisce la brevità. Nato nel 1920 a Ville-d’Avray e morto nel 1959 a Parigi, egli è al contempo figlio e padre del proprio tempo, subendone le tendenze e al contempo ravvivando queste ultime negli aspetti più prolifici. Con la sua variegata produzione artistica, tra musica e letteratura, sperimenta ogni possibilità di innovazione, indaga le profondità dell’animo umano in maniera insolita, ineffabile, sottendendo messaggi malinconici e reali, così attuali che si stenta a non classificare la produzione di Vian come profetica e futurista nel suo genere.

“Un poeta / è un essere unico / in tanti esemplari, / che pensa solamente in versi / e non scrive che in musica / su soggetti diversi / sia rossi che verdi / ma sempre magnifici.”
Boris Vian e la musica sono figli di una stessa epoca. Quando alleva un Vian adolescente, trombettista in erba, la musica riveste un ruolo materno; diverrà invece quasi una figlia, una protetta, quando sarà seguita, animata, promossa nelle sue forme più innovative da un Vian maturo, che di musica s’intende, che musica produce e promuove. Dall’acquisto, nel 1934, della prima tromba con la quale suona nel complesso costituito da amici e dai fratelli Lélio e Alain, a quando ingaggia Miles Davis nel 1957, di tempo ne è passato.

Le evoluzioni di Boris Vian in campo musicale sono da ascrivere al clima di generale rinnovamento artistico in cui il Jazz la fa da padrone, configurandosi come nuova tradizione, destinata a porsi come erede del Charleston degli Anni ‘20. Se la felice temperie culturale parigina ha contribuito ad attirare in Francia musicisti come Duke Ellington, ben presto si assiste al fiorire di nuovi gruppi Jazz quali il Quartet du Hot Club de France, oltre alle riviste settoriali nelle quali lo stesso Vian scrive numerosi articoli di critica e ritratti di artisti dell’epoca. Quando il jazz prende piede, a dispetto delle critiche antimoderniste ed antiamericaniste che rifiutavano il cosiddetto bepop, Boris Vian si colloca nei club del quartiere parigino di Saint-Germain, pian piano sostituitosi nella sua funzione a Montmartre. Cafè de Flore, Tabou, Saint-German (di proprietà dello stesso Vian) sono i club che si configurano come incubatori di una tradizione, punto di ritrovo non solo per musicisti ma anche per intellettuali (Quenau, Merleau-Ponty, Lemarchand, Camus, Sartre).

Se il Jazz degli Anni ’20, ai tempi della sua prima importazione, si inserisce a latere di una tradizione secondo la quale nei club si ballano ancora Tango e Valzer, ai margini di ciò che è comune e istituzionalizzato rimane anche più tardi, negli Anni ’40,  quando il governo di Vichy, collaborazionista e conservatore, tra le sue riforme moralizzatrici inserisce l’imperativo “rasare gli zazous”- i giovani con capelli lunghi raccolti in un codino, vestiti di giacche lunghe, pantaloni attillati e ombrello. Ancora una volta ai confini del divertissement si colloca dunque le zazou, un jazz che è una forma di resistenza, un passatempo contestatario, avverso al regime poiché sospettato di simpatizzare con gli alleati e i neri americani. Scampato ai rastrellamenti a causa dei problemi di cuore, Vian emblema della Saint-German di quell’epoca non fa nulla per mettere a tacere le voci che gridano allo scandalo del preteso libertinismo caratteristico dei club, degli orari d’apertura prolungati nella notte, dell’immaginario del club come catacomba moderna dove la buona gioventù si dissolve assieme ai buoni costumi. Proprio quei luoghi, tutt’altro che ricettacolo di corruttela e depravazione, sono stati banco di prova unico di un Boris Vian (divenuto direttore del reparto jazzistico della Philips) ormai punto di riferimento per i musicisti americani di transito in Francia, e al contempo banco di prova ultimo per una Parigi che dopo il periodo di Saint-Germain, a partire dalla metà degli Anni ’50 non sarà più un’attrattiva per i musicisti come lo era per le vecchie generazioni e non potrà più competere con una New York che si avviava ad essere l’indiscussa capitale del Jazz.

Se fin qui si può pensare che ci sia molta storia e poco Boris Vian, si è destinati a ricredersi. Nel momento stesso in cui l’attività artistica di Vian non può essere nettamente definita in un preciso ruolo, un determinato genere, una cronologia costante, si vede come ciò che rimane da considerare è il tempo inteso come “lunghezza”, se si considera l’arco della sua vita (1920-1959) come “epoca”, se si considera che la temperie culturale in cui l’akmè di Boris Vian va collocata influenza e contemporaneamente è influenzata da quest’ultimo, che ne è parimenti figlio e padre. Ecco come Vian non è solo nella Saint-Germain del jazz e della cultura, ma è la Saint-Germain del jazz e della cultura.
Qualora si tenti di definire entro confini netti la produzione di Vian, ci si accorge di trovarsi a camminare su un terreno paludoso. Difficile inquadrare, riassumere, sintetizzare i prodotti della sua attività, restia ad essere soggetta ad etichettature. Ineffabile è l’aggettivo che per certi versi risulta adeguato a descrivere lo stesso Vian autore, lontano dal voler essere digerito dalla critica in una determinata veste o in un determinato ruolo. In meno di quarant’anni è vissuto un Vian “imprenditore” (proprietario del club Saint-German), come un Vian laureato in ingegneria metallurgica; c’è poi il giornalista critico, il traduttore, il romanziere, lo sceneggiatore teatrale, il Patafisico. A ben guardare, se musica e letteratura non sono le uniche componenti della sua vita, sono senz’altro i campi in cui l’estro di Vian si esprime in maniera più prolifica e completa. Autore di più di cinquecento canzoni, dieci romanzi, sette opere teatrali, è senz’altro al suo lettore che  Boris Vian fornisce la più funzionale chiave d’accesso per la comprensione della sua poetica e della sua persona. L’aspetto più affascinante che emerge dalla lettura delle sue opere è la contraddizione tra l’uno e il molteplice.

La spiccata tendenza alla poliedricità che si riscontra nella sua biografia, la si può trovare nella stessa produzione letteraria. Le sue molte vite si intravedono forse nella eteronimia degli pseudonimi: si pensi al famoso Vernon Sullivan col quale, per sfuggire alla censura, pubblicò romanzi hard boiled (neonato genere americano di noir caratterizzato da lessico e descrizioni forti e crude). L’eclettismo si coglie nei romanzi in cui l’intreccio tendente all’assurdo e all’inverosimile, è intriso di particolari, indizi, sfumature senza cogliere i quali la comprensione del romanzo risulterebbe parziale e manomessa. La stessa tecnica di allusione, le atmosfere surreali e quasi oniriche, le metafore, la retorica dell’assurdo, vogliono deliberatamente stravolgere la prosa canonica, la classica comprensibilità del buon romanzo borghese.

In Autunno a Pechino ad esempio, si nota un utilizzo del titolo e delle citazioni improntato al non-sense: se da una parte le citazioni introduttive a ciascun capitolo sembrano non aver nulla a che vedere con l’argomento del capitolo che segue, dall’altra non c’è alcuna pertinenza fra contenuto del romanzo e un autunno a Pechino. Anzi, una dimensione parallela e desertica denominata Exopotamia fa da sfondo desolante alle vicende che coinvolgono i personaggi, giunti lì per contribuire alla costruzione di una ferrovia destinata a non portare in nessun luogo. Il romanzo trasmette un messaggio ineffabile, che inizialmente si stenta a cogliere nel suo significato più profondo ma di cui si sente l’eco tremendamente malinconico. Di nuovo, unicità e molteplicità si ravvedono ne La schiuma dei giorni, storia d’amore che letteralmente inghiotte i due protagonisti. E’ solo una trama a sfondo sentimentale? In esso c’è il germe di una critica sociale? Trasmette una visione tragica, una morale nichilista, pessimista? Probabilmente tutte queste domande costituiscono possibili chiavi di lettura e di ri-lettura. Ognuna di esse fornisce una lettura pluralista, uno sguardo focale sul molteplice. L’irrealismo e l’assurdo non si configurano dunque come contrapposizione alla realtà, rifugio da essa, negazione di essa ma al contrario sono sua lucida rappresentazione. Ineffabilità mista a concretezza, singolarità e molteplicità, sono affiancate da un linguaggio del tutto originale e talvolta straniante, caratterizzato da giochi di parole e neologismi. Con Boris Vian sembra quasi che la poesia e i suoi stilemi siano penetrati nella prosa. Insolito narratore ed abile dissacratore, conduce una sottile critica ad ogni forma di diktat culturale. Da animatore del club di Saint-Germain, alla velata parodia dell’erudizione fine a se stessa, dell’esistenzialismo ormai divenuto di moda in quegli anni – lo ridicolizza proprio lui che collaborava con la rivista Les Temps Modernes e che era amico di Sartre.

Le sue peculiarità sono distorsione, straniamento, manomissione assieme a straordinaria profondità di riflessione, sensibilità, originalità. Artista engagé ma al contempo ironico, è caratterizzato dal rifiuto di ogni economia, ogni astensione, da uno spirito vitalistico sfrenato che non scade mai nell’esaltazione o nell’autodistruzione.
Un sano e sfrenato desiderio di vivere che si spense con lui la mattina del 23 giugno 1959, a trentanove anni, nel Cinema Marbeuf dove Boris Vian assisteva alla prima cinematografica di J’irai cracher sur vos tombes (Sputerò sulle vostre tombe),controverso romanzo edito sotto pseudonimo.

“Distruggono il mondo / In pez i /Distruggono il mondo / A colpi di martello / Ma non mi importa / Non mi importa davvero/| Ne rimane abbastanza per me / Ne rimane abbastanza / Basta che io ami / Una piuma azzurra / Una pista di sabbia / Un uccello pauroso / Basta che io ami / Un filo d’erba sottile/| Una goccia di rugiada / Un grillo di bosco / Possono rompere il mondo / In frantumi / Ne rimane abbastanza per me […].”

 

Fonte: BorisVian-L’intellettuale dissidente

Ezra Pound, rinnovatore poetico e profeta anticapitalista della crisi economica

Tra i poeti che nel periodo delle due guerre si interrogano sulla crisi politica e letteraria del proprio tempo, approfondendo soprattutto le possibilità di un perfezionamento e di un aggiornamento delle forme della poesia, spicca Ezra Pound (1885-1972), nostalgico dell’Europa e dell’America di Jefferson, nonché profeta dell’attuale crisi economica, il quale si trasferisce dall’America all’Europa nel 1908, soggiornando tra Parigi, Londra e l’Italia, dove si stabilirà definitivamente a partire dagli anni venti. A Londra, negli anni dieci, Ezra Pound si impegna attivamente nei dibattiti inglesi d’avanguardia, in particolare all’imagismo (che rompeva con il linguaggio della tradizione per privilegiare la trascrizione della realtà più profonda dell’Io e al vorticismo, che suggeriva la possibilità di assecondare lo slancio creativo, rifiutando le convenzioni poetiche e retoriche usuali.

Ezra Pound e la tradizione classica italiana e orientale

Al primo libro di versi di Ezra Pound, A lume spento (1908), seguono numerose raccolte come Exultations, Canzoni e Ripostes, ma è con il volume del Cantos, avviato nel 1919 e pubblicato a più riprese, che Pound contribuisce al rinnovamento della poesia. In essi infatti si manifesta la ricchezza culturale dell’autore americano, grande conoscitore sia della tradizione classica italiana, soprattutto della poesia di Dante, sia di quella orientale, giapponese e cinese. I rimandi alle diverse letterature e culture si accavallano, si intrecciano, si fondono in una scrittura continuamente mutevole, nella quale Ezra Pound sembra voler abolire ogni elementonon essenziale. L’accumulo di molteplici citazioni nelle lingue originali, l’abbandono al flusso di coscienza, la descrizione di avvenimenti  pubblici, il richiamo a esperienze personali danno vita ad un testo molto complesso, di difficile lettura.

I centoventi Cantos si ispirano alla forma epico-lirica della Divina Commedia e si propongono di rappresentare gli eroi di epoche lontane e vicine, di differeti aree geografiche e culturali: si spazia dall’antica Grecia all’antica Cina, da Medioevo, alla storia americana più recente. L’intento di Ezra Pound è quello di mettere a confronto il passato e il presente, condannando la contemporaneità in nome di una ricchezza e di una purezza ormai perdute, per altro confinate in una dimensione edenica. In questa direzione la scelta di ua versificazione fortemente innovativa si accompagna alla volontà di affermare una concezione sociale e politica personale e rivoluzionaria. Considerando l’usura, la causa dello sfruttamento economico e l’origine delle disuguaglianze, Ezra Pound, seguendo le teorie dell’economista Douglas, sostiene il progetto di un socialismo interclassista che lo porta ad avvicinarsi al fascismo, nel cui “Stato corporativo”, egli crede di trovare la realizzazione dei propri ideali.

Un pensatore oggetto di giudizi sommari

Sempre più ostile al sistema americano, la cui economia si sarebbe avvelenata seguendo la teoria filobritannica di Hamilton che indebitò il popolo americano e lo asservì al potere dell’usura, Ezra Pound trasmette alla radio, durante la guerra, alcuni discorsi violentemente anticapitalisti e antimilitaristi, per i quali, nel 1945, viene arrestato come traditore dalle truppe statunitensi, e rinchiuso, prima in un campo di concentramento, poi in un manicomio criminale. Solo nel 1958 verrà liberato, anche per le numerose manifestazioni di protesta provenienti da tutto il mondo in suo favore. Pound tornerà allora in Italia, restandovi fino alla morte. La sua vena sperimentale ha influenzato le ricerche d’avanguardia di tutto il Novecento; in Italia ha trovato attenti cultori come Montale e Sanguineti.

Per la ricchezza dei riferimenti pubblici i Cantos di Ezra Pound si propongono come esempio di una poesia intertestuale, apertamente rivolta al dialogo con i lettori, ma allo stesso tempo l’autore americano dà vita ad una poesia chiusa sul modello dei trovatori medievali, da lui tanto amati, cercando di trovare il sacro nella realtà. Ezra Pound viene spesso ricordato per la sua celebre frase: “Se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale nulla lui”, che vediamo facilmente campeggiare sulle bacheche di facebook e come tweet, ma è bene ricordare a chi etichetta questo grande poeta come un “fascista” e traditore della sua patria, che Pound sognava una civiltà totalitaria, nel senso in cui ne parlava in Italia Giovanni Gentile, non nel senso oppressivo di cui ne parliamo oggi a proposito di totalitarismo, collegandolo alle tragiche esperienze nazista e comuniste.

L’aspirazione di Ezra Pound, la sua utopia, è una società fondata sul bene comune e ispirata a un ordine intelligente dell’universo, idea espressa da San Tommaso e ripresa anche da Eliot, sodale di Pound. Una visione gerarchica della realtà dunque, dove però la gerarchia non si oppone all’uguaglianza, come purtroppo alcuni sostengono, ma all’opposizione manichea tra un paradiso immaginario e l’infernale realtà.

 

 

 

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