‘Il pugnale’: lo stile poetico ambiguo, anticipatore della poesia del Novecento, di Lermontov

Il pugnale è una poesia del russo Lermontov dedicata ai popoli caucasici, in cui il poeta esprime il suo amore per questa bella terra. La poesia fa parte della raccolta scritta alla fine del 1837 con il titolo “The Gift”.
Un’altra immagine assolutamente non convenzionale usata da Lermontov che sembra anticipare alcune corrispondenze ardite del simbolismo e dell’Avanguardismo novecentesco. Non è un caso che in molti abbiano definito questo poema come un serbatoio di immagini per il futurista Majakovskij.
Immagini che trasmettono angoscia ed inquietudine basti pensare soprattutto al capolavoro Il demone che ricorda per certi versi I fiori del male di Baudelaire, rese magnificamente attraverso versi rischiosi, gotici, ambigui, moderni.
Ti amo, mio pugnale di damasco,
compagno luminoso e freddo.
Un pensieroso georgiano ti ha forgiato per una
vendetta,
un libero circasso ti ha affilato per una sporca
battaglia. 
Una mano di lillà ti ha portato a me
in segno del ricordo, per l’attimo del distacco,
e per la prima volta non scorreva sangue su di te,
ma una lucente lacrima, perla della sofferenza.
E neri occhi, fermandosi su di me,
pieni di una stregata tristezza, come il tuo acciaio al fuoco tremante
ora all’improvviso erano opachi, ora scintillavano.
Sei a me presente nei viaggi, il muto pegno
d’amore,
e per un viaggiatore l’esempio non è vano:
Si, io non cambierò e con l’animo sarò duro,
come te, come te, mio amico di ferro
Secondo il modello di analisi di Gasparov, si deve procedere nell’affrontare un testo poetico considerandolo su tre livelli. Il primo è quello delle immagini; il secondo è quello stilistico; il terzo, infine è quello fonico e sonoro.
Ad un primo livello, quello delle idee e delle immagini, il componimento di Lermontov crea nella mente del lettore il dialogo fra il poeta e un oggetto: il pugnale, simbolo di un mondo, quello circasso, quello del Caucaso, emblema dell’esotico e della libertà. L’immagine ricorrente, contenuta nello stesso titolo, elemento essenziale da dover tenere in considerazione, è quella del pugnale, lucente, freddo, longilineo, la cui lama, per la prima volta non è percorsa dal sangue di mille battaglie, ma da una lacrima, storia di sofferenza. 
Esso è il tesoro ed il compagno del poeta; è l’amico da cui prendere esempio e a cui ispirarsi. Continuando su questo primo livello, si entra nel mondo letterario dell’opera.
La descrizione che fa Lermontov è quella di un mondo oggettivo. Fra di essi, la maggioranza fa riferimento a concetti concreti(кинжал, грузин, бой, черкес, кровь, слеза, жемчужина, сталь). Di questi, tuttavia, alcuni sono utilizzati all’interno di figure retoriche, come “ жемчужина” (la perla) utilizzata per una metafora, che dunque le fa perdere la propria concretezza.
Seguono poi i sostantivi utilizzati per il mondo interiore, in tutto sei (душа, любовь, печаль, страдание, расставание, память), che indicano per lo più un animo agitato, scosso dalla sofferenza, dal distacco. I sostantivi che indicano il mondo esteriore (странник, друг, спутник, глаз, рука, товарищ) contribuiscono a creare un immagine di un mondo libero e anelato.
Dei venti aggettivi invece, solo uno (твердый) ha come diretto referente l’io lirico del poeta. Glialtri sono utilizzati per rendere più vivido il mondo descritto.
La maggior parte sono indirizzati al pugnale stesso (булатный, холодный, светлый, железный), per insistere sull’immagine concreta dell’arma/amico del poeta. Un immagine che fa presto a perdere la sua concretezza, divenendo il simbolo del ricordo, del distacco, del sentimento. Gli aggettivi che non si riportano al pugnale fanno riferimento al mondo esotico dal quale esso proviene (задумчивый, usato per il georgiano, грозный, per indicare la battaglia, свободный, per denotare il circasso).
In questo mondo di sporche guerre nelle quali si muovono pensierosi georgiani e liberi circassi, solo lamano che ha portato al poeta l’oggetto del suo canto, è indicata da un aggettivo più delicato(лилейная).Anche nell’analisi dei verbi, nettamente inferiori a sostantivi ed aggettivi, è possibile riscontrare l’immagine del pugnale (ковать, точить), oltre a quella dei neri occhi (тускнеть, сверкать),riconducibili all’universo caucasico.
Il secondo livello d’analisi è quello stilistico. Il tono generale è estremamente studiato e controllato. Pur essendo una lirica nella quale dominano le passioni forti (la sofferenza, l’amore, la tristezza), l’impeto è come se fosse imbrigliato in una fitta rette, formata da segni di interpunzione. Essi sono composti da molte virgole e punti, con l’aggiunta di un trattino (v.8) edue punti (v.14).
La loro funzione è quella di creare delle pause all’interno della struttura generale e dei singoli periodi. Le cesure, interne ad uno stesso verso, o poste alla fine di esso, non sono presenti solo fra i vv.5-6, dove si riscontra l’unico enjambement. Esso è utilizzato per descrivere il passaggio del pugnale nelle mani del poeta.
E’ senz’altro un passaggio importante, nel quale si attesta l’incontro fra il mondo personale di Lermontov e quello dell’universo selvaggio dal quale proviene il pugnale. Un passaggio nel quale vi è, proprio grazie all’assenza di pause, un cambiamento di tono, che si fa d’un tratto, più brusco, per poi tornare subito dopo sotto il controllo della penna del poeta.
Per tutta la poesia è compiuto il processo di personificazione del pugnale, visto come compagno e amico. Resta infine un ultimo livello da analizzare, quello fonico e sonoro. La poesia è composta da un’unica strofa di sedici versi, di varia lunghezza, ma tutti costituiti da giambi. Di essi, la metà è formata da sei piedi ciascuno (vv. 3-5-7-8-9-13-14-15). La restante metà si divide fra tre versi da quattro piedi (vv.2-12-16) e cinque versi da cinque piedi (vv.1-4-6-10-11).
In questa struttura potrebbe esser condotta però una suddivisione interna. E’ possibile infatti notare come il componimento si dividi in tre parti distinte: una sorta di introduzione, costituita dai primi due versi, nei quali si offre un primo accenno delle considerazioni personali, del sentimento del poeta.
Segue dunque uno sviluppo, costituito dai successivi dieci versi, e che ha come motivo portante, la storia legata al pugnale. Infine si può individuare una conclusione con gli ultimi 4versi, nei quali vi è l’unione del poeta e dell’oggetto da egli cantato
Meno libera si presenta infine la struttura rimica, evidenziata dal seguente schema: aBaBcDcDeFeFgHgH. La rima, sempre alternata, segue l’avvicendarsi di quella di tipo maschile (–X), tronca, indicata nello schema dalle lettere minuscole, e femminile (X–), piana, denotata dalle maiuscole.
Volendo fare qualche riferimento al contesto storico nel quale si ritrova la poesia di Lermontov, è doveroso dire anzitutto che esso è riconducibile a tutto un filone incentrato sull’esaltazione della regione caucasica. Il Caucaso iniziò ad essere circondato di un’aura esotica fin dall’epoca di Caterina II (incarica dal 1762 al 1796). Curioso, dunque, è il fatto che per la Russia l’esotico non sia mai stato considerato l’estremo Oriente, che nel XIX sec. sembra invece acquisire una connotazione tutt’altro che positiva.
L’esotico è piuttosto individuabile in quei territori collocati nel meridione dell’impero, dove si compie la fusione fra il territorio russo e quello asiatico. Con l’avvento della corrente romantica, il “mito del Caucaso” sembra sempre più concretizzarsi, essendo poi anche influenzato da altri miti tipicamente romantici. Fra di essi, ad esempio, bisognerebbe notare, quella credenza per la quale il vero spirito romantico sia collocabile nelle popolazioni arabe.
Tutto d’un tratto dunque i russi si ritrovavano, più di ogni altro popolo europeo, vicini alla culla della cultura romantica.
Anche grazie a questo, velocemente si diffusero nella cultura russa grandi influenze riprese dal romanticismo europeo: Madame de Staël, Byron, Schelling ecc.
Iniziano a comparire le prime opere che uniscono i principi della corrente romantica con la regione caucasica. Fra di essi si potrebbero individuare “Il prigioniero del Caucaso (1820-1821) e “La fontana di Bachcisaraj”(1822) di Puskin. Per Lermontov il Caucaso è sempre stato un luogo familiare. Nel 1818, alla tenera età di 4 anni, compie il suo primo viaggio nella regione. Qui ritornerà ripetutamente fra il 1820 e il 1825.

Marina Cvetaeva, la guerriera russa con lo sguardo rivolto verso l’Alto

La parabola esistenziale di Marina Ivanovna Cvetaeva è trama romanzesca, leggenda per sua natura. Impossibile trattarla al pari di quella di altri poeti. Impossibile cercare paragoni e somiglianze. Marina vive delle due uniche categorie dell’anima a lei necessarie: l’amore e il dolore.
Nella Russia della Rivoluzione Bolscevica, il marito, Sergej Jacovlevic Efron, segue gli eserciti dei Bianchi. Lei rimane sola con due figlie, Alja e Irina. Irina muore di stenti. In Boemia, nel 1921, si ricongiunge al marito che vi si è rifugiato.
A Parigi arriva nel Novembre del 1925. Irruente e ribelle, è isolata dalla colonia dei profughi russi. Non si piega a compromessi, non ostenta il suo volto antisovietico.

Non c’è più nulla da fare! Gli emigranti mi cacciano via! . Ma sappiate una cosa: io sarò dalla parte dei perseguitati, e non da quella dei persecutori, sarò con le vittime, e non con i carnefici.

Olga Ivinskaja, (la “Lara” del dottor Zivago):

Dentro ad una sola esistenza di 48 anni, una teoria ininterrotta di morti, amori, miseria, separazioni, rinunce. Una vita tragica, condannata alla poesia come all’infelicità, mossa solo da meccanismi interiori. Un solo abito, due suole assicurate da pezzi di spago e solo raramente, un paio di valenky. Poiché la donna- poeta, disprezza la vita dei calendari terrestri. Unica resistenza il Sogno. Unica “tentazione d’inferno”, la Letteratura. Unica unità di misura, l’Eterno. Unico sguardo, verso l’Alto.

Diventava cieca e sorda a tutto ciò che non fosse il manoscritto, in cui letteralmente si conficcava: con la punta della penna e l’acume del pensiero. (…) Alle lettere rispondeva senza indugio. Se ne riceveva una con la posta del mattino, spesso buttava giù subito in brutta copia
la risposta, nel quaderno, come inserendola nel flusso creativo della giornata. Riservava alle lettere lo stesso atteggiamento creativo e quasi la stessa cura che usava componendo.

Così Ariadna “Asja” Sergeevna Efron descrive la figura della madre, la grande poetessa russa Marina Cvetaeva, nella biografia che le dedica, tradotta in italiano nel 2003: Marina Cvetáeva, mia madre.
Lo sguardo conficcato nelle pagine dei suoi quaderni, una dedizione al lavoro maniacale – come un operaio alla macchina – la definirà ancora la figlia; una capacità di astrazione assoluta; un carattere che, per i suoi critici, si colloca al limite di una mitomania patologica. Una personalità capace di infinita tenerezza e attenzione per i poeti e gli intellettuali a cui si sentiva affine, così come di fronte a tutti gli animali.

Per lei, come rivela Ariadna, il rapporto epistolare non era un “semplice” scambio di pensieri e di parole, ma una forma d’arte.
Detestava il termine letterato: per la Cvetaeva, ogni poeta, ogni scrittore, ogni musicista vivo o morto, noto o ignoto, amico, conoscente o sconosciuto era un “tu” a cui rivolgersi, un’anima da abbracciare.

I suoi epistolari, raccolti da Serena Vitale in una splendida edizione italiana, sono fra le pagine più alte della letteratura russa del primo Novecento. Celebre è la stagione fulminea, trascorsa per la maggior parte in Francia a St-Gilles sur Vie (in Vandea), in cui Marina intesse un legame epistolare intensissimo con Boris Pasternak e con Rainer Maria Rilke. Per quest’ultimo, in particolare, la Cvetaeva concepisce una forma violenta e struggente d’amore che si sprigiona dalla “pancia”, ma si nutre prima di tutto dalla reciproca stima e ammirazione. Nell’estate del 1926, la poetessa scrive al poeta lettere piene di disperazione in cui reclama la sua attenzione: gli chiede un cenno, una risposta all’oceano di parole con cui l’ha investito.

Marina è un mito per se stessa. Le sue fonti sono la sua vita: del resto la stessa natura dell’epistolario, infinito ma estremamente disciplinato, nutrito da un’energia creatrice del tutto paragonabile a quella che impronta la produzione lirica, mostra perfettamente come sia prima di tutto il personaggio Marina a ispirare la poetessa Cvetaeva. E come, proprio tramite il mito classico, per esempio attraverso il mito di Psyche, mettesse in scena una forma consapevole di mitologizzazione esistenziale.

L’ostentazione di una sorta di orgogliosa naïveté ha spinto uno dei critici più influenti dell’opera cvetaeviana, Karlinsky, a giudicare con severità il rapporto di Marina con le fonti classiche: la poetessa farebbe un utilizzo assai ingenuo e superficiale dei precedenti antichi; molto più disinvolto di quanto si possa immaginare pensando al milieu letterario russo dei primi anni venti del Novecento, nutrito alla fonte della tragedia francese di ispirazione neoclassica (già presente in Russia dal Settecento) e, nel contempo, ricettivo al dettato dei grandi modelli antichi. Ivanov del resto era un profondo conoscitore del mito antico: nel 1922 aveva dedicato a Dioniso un saggio importante (Dioniso e i culti predionisiaci); era autore di due tragedie di argomento classico, Tantalo (1905) e Prometeo (1916), e traduttore di Pindaro, Bacchilide, Alceo, Saffo ed Eschilo. Con lui l’altro grande simbolista, Innokentij Annenskij (1856-1909): filologo classico, traduttore di poesia antica e più in generale occidentale; ad Annenskij si deve la traduzione in russo dell’opera di Euripide e quattro tragedie ispirate a drammi perduti di Sofocle ed Euripide: Melanippe filosofa (1901), Il re Issione (1902), Laodamia (1906) e Tamira il citaredo (postumo, 1913) che viene messo in scena dal regista Tairov al Kamernyi teatr (“Teatro da camera”) di Mosca nel 1917.

I personaggi che si muovono nei drammi della Cvetaeva sono in realtà parenti prossimi di un modello più arcaico e ancestrale della Fedra di Racine. Contrariamente a quanto sembra pensare Karlinsky e con lui, almeno in questo caso, una commentatrice assai più attenta all’esegesi delle fonti della Cvetaeva, Rose Lafoy,13 Marina conosceva bene il mondo chiaroscurale degli eroi omerici, come mostra la preghiera, rivolta ad Ariadna Cernova, affinché le vengano inviate le traduzioni di Nikolaj Ivanovič Gnedič (1784-1833) dell’Iliade e quella dell’Odissea di Vasilij Andreevič Žukovskij (1783-1852). In entrambi i casi, si tratta di traduzioni ormai dal sapore antiquario, poco o per nulla interessanti dal punto di vista della fortuna del testo. È importante, tuttavia, che la Cvetaeva si dedicasse alla lettura di Omero, o per lo meno intendesse farlo, proprio nel periodo in cui andava componendo Arianna (la lettera è del luglio del 1924), scritta non senza interruzioni fra l’autunno del 1923 e quello del 1924.

Per comprendere meglio la natura della Cvetaeva possono risultare utili le poetiche parole di Pasternak: «La Cvetaeva fu donna di spirito virile, alacre, risoluto, battagliero, indomabile, nella vita e nell’arte aspirò sempre impetuosamente, avidamente, quasi rapacemente alla finezza e alla perfezione, e nel perseguirle si spinse molto avanti, sorpassò tutti»

Scrive poi Sergej Efron:

Marina è una creatura di passioni [.] Gettarsi a capofitto nell’uragano, è per lei necessità, aria della sua vita. [.]. Quasi sempre, tutto è costruito sull’autoinganno>>. Ogni destinatario della sua passione, diviene nelle sue lettere un eroe onnipotente e fragile, bisognoso di lei. “Convincetemi che vi sono necessaria”, è la preghiera di lei, donna, a Pasternak, come a Rilke. Come agli altri amanti, di cui uno soltanto, fisicamente reale, in una Praga di squallidi rifugi. In lei, il complesso di Teti si fa smisurato e autodistruttivo. “Movente” per gli altri, passaggio necessario e fonte di metamorfosi di un itinerario in salita, Marina si annulla, offre l’incendio di sé che è tappa ineludibile di un lungo viaggio iniziatico. Destino ultimo, l’immortalità. Le voci assenti la attraggono e lei affronta, senza esitare né temere, il diafano spazio dell’immaginazione, l’abisso di potenzialità rappresentato dallo Sconosciuto. Nasce il più epistolare dei romanzi di Marina, causa ed effetto del suo nuovo culto per il regno che, al di là dello sguardo, vive solo dell’assenza e delle parole dell’ assenza. Nessun luogo terrestre, per Marina, possiede questa ineffabile fascinazione. Con Rilke, al quale era stata presentata per lettera da Pasternak, Marina non si vide mai.

 

Fonti: (8) (PDF) Nell’ombra di Afrodite. Arianna e Marina Cvetaeva | silvia romani – Academia.edu

Articolo critico: Marina Ivanovna Cvetaeva, Dell’amore e del dolore (letteratour.it)

La guerra è dichiarata, di V. Majakovskij

La guerra è dichiarata è una poesia scritta nel 1914, proprio all’inizio della prima guerra mondiale, dal poeta e drammaturgo russo Vladimir Vladimirovič Majakovskij, cantore della rivoluzione d’ottobre e grande interprete della cultura russa post-rivoluzionaria.

La poesia fa parte della raccolta Semplice come un muggito del 1916; a differenza di diversi intellettuali europei che accolsero con entusiasmo la guerra, primi fra tutti i futuristi che la esaltarono, per Majakovskij la guerra non è altro che sangue, distruzione e morte. Egli sente risuonare nelle strade gli annunci della dichiarazione della guerra e assiste all’euforia della gente nei caffè e dei soldati che raggiungono la piazza pronti a combattere. A questo entusiasmo vengono contrapposte le immagini che esprimono la condanna del poeta russo, per tale evento infatti egli già vede la piazza di Mosca percorsa da rigagnoli di sangue, dal cielo piovere lacrime di sangue e dal fronte nevicare brandelli di carne umana. La posizione del poeta è pacifista ed umanitaria quindi alla quale corrisponde una posizione anche sul piano artistico, l’artista, secondo il poeta, è assertore di nuove tendenze e concezioni, di un nuovo modo di fare poesia che è contemporaneamente efficace dal punto di vista politico e creativo dal punto di vista linguistico. Le innovazioni riguardano soprattutto il linguaggio, essenziale, arricchito di espressioni popolari; in questo senso l’opera d’arte per Majakovskij è lo specchio della realtà, una sorta di mandato sociale per scuotere le coscienze e smuovere gli animi in un determinato momento storico.

Riportiamo la poesia:

<<Edizione della sera! Della sera! Della sera!

Italia! Germania! Austria>>

E sulla piazza , lugubremente listata di nero,

si effuse un rigagnolo di sangue purpureo!

 

Un caffè infranse il proprio muso a sangue,

imporporato da un grido ferino:

<<Il veleno del sangue nei giuochi del Reno!

I tuoni degli obici sul marmo di Roma!>>

 

Dal cielo lacerato contro gli aculei delle baionette

gocciolavano lacrime di stelle come farina in uno staccio,

e la pietà, schiacciata dalle suole, strillava:

<<Ah, lasciatemi, lasciatemi, lasciatemi!>>

 

I generali di bronzo sullo zoccolo a faccette

supplicavano:<<Sferrateci, e noi andremo!>>

Scalpitavano i baci della cavalleria che prendeva commiato,

e i fanti desideravano la vittoria-assassina.

 

Alla città accatastata giunse mostruosa nel sogno

la voce di basso del cannone sghignazzante,

mentre da occidente cadeva rossa neve

in brandelli succosi di carne umana.

 

La piazza si gonfiava, una compagnia dopo l’altra,

sulla sua fronte stizzita si gonfiavano le vene.

<<Aspettate, noi asciugheremo le sciabole

sulla seta delle cocottes nei viali diVienna!>>

 

Gli strilloni si sgolavano: <<Edizioni della sera!

Italia! Germania! Austria!>>

E dalla notte, lugubremente listata di nero,

scorreva, scorreva un rigagnolo di sangue purpureo.

 

Majakovskij è in polemica con la guerra poichè in essa non vede nulla di eroico ma solo un furore, un entusiasmo bestiale che colora la neve col sangue e coi brandelli di carne umana. Emblematica  è l’immagine del cannone che in quel folle delirio sembra sghignazzare come un mostro terrificante sorprendendo di notte la città mentre dorme.
Da quest’opera al poeta russo può essere accostato il ruolo di agitatore, di disturbatore sociale, in virtù della sua concezione dell’opera d’arte e della funzione che essa deve avere, dato che egli è stato un determinato sostenitore della rivoluzione bolscevica, in nome della quale, ha composto opere sia drammatiche che umoristiche.

La follia che sembra aver invaso tutti è espressa con toni grotteschi dall’immagine assurda delle statue di bronzo dei generali che supplicano addirittura di voler essere liberati per andare a combattere. La poesia, che consta di quartine di versi a rime alternate, è ricca di analogie (scalpitavano i baci della cavalleria), metafore e similitudini (gocciolavano lacrime di stelle come farina in uno staccio) conferendo all’opera maggiore immediatezza e simbolismo. L’ultima strofa ripete la prima con variazione del terzo e quarto verso.

 

 

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