La Transilvania di Octavian Goga è un quadro dipinto coi pastelli arcadici di verdi boschi di abeti e di campi falciati, morbidi e lisci come la seta, inondati dal sole sotto l’azzurro del cielo trapunto di farfalle svolazzanti. Ma il genius loci transilvano si rivela anche nelle tinte fosche di un paesaggio inospitale:
“Alle pendici oscure dei Carpazi
dove c’è suono di campane e accette
ed esce l’orso a passeggiare”
Qui, nel villaggio di Rășinari, lungo il confine rumeno dell’Impero asburgico, nasce nel 1881 Octavian Goga da Iosif, pope, e Aurelia, maestra. Studia con difficoltà al liceo ungherese di Sibiu: i risultati deludenti e uno scontro con il professore di storia lo spingono a trasferirsi al liceo rumeno di Brasov. Intraprende gli studi presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Budapest. Lascia l’università nel 1904 senza aver conseguito alcuna qualifica accademica. Un avvenimento fondamentale per la sua evoluzione intellettuale è rappresentato dalla collaborazione con la rivista Luceafărul, pubblicata nella capitale ungherese dagli esuli rumeni.
Al soggiorno nella antica città ungherese risale anche la maggior parte della sua produzione poetica. Un periodo di profonda crisi esistenziale lo spinge a tornare al villaggio natio. Viaggia in Germania, Francia ed Italia. Ritornato infine in patria, nella Romania interbellica ricopre più volte l’incarico di ministro, nel 1937 riceve dal re Carlo II, come presidente del Partito Nazionale Cristiano, l’incarico di primo ministro in un governo che ha il compito di indire nuove elezioni e che vedranno poi un inaspettato exploit elettorale della Guardia di Ferro di Corneliu Codreanu. Ritiratosi dalla vita politica, muore nel 1938 nella sua villa di Ciucea, nel distretto di Cluj.
Le principali raccolte poetiche di Goga – Canti, La terra ci chiama, Canti senza patria – dimostrano, sotto le varie articolazioni dei singoli componimenti, una notevole unità tematica dominata da un precipuo sentimento irredentista, nel desiderio di emendare il ruolo politicamente e socialmente subalterno della popolazione rumena della Transilvania, sognando l’unione coi fratelli del Regno di Romania. La regione storica della Transilvania, abitata dai Magiari e gli affini Siculi, dai Sassoni e dai Valacchi, dopo la battaglia di Mohács del 1526 si costituì come principato indipendente sottoposto al vassallaggio della Sublime Porta; dopo la pace di Carlowitz del 1699 venne inglobata nell’Impero d’Austria.
Durante tutte queste traversie storiche durate secoli, i contadini rumeni rimasero sempre legati in un rapporto feudale di sottomissione ai nobili magiari, che esercitavano il loro dominio dai castelli appollaiati sulle alture. La rivolta di contadini capeggiata da Vasile Ursu Nicola, noto come Horea, nel 1784 rappresentò solo un violento, ma effimero tentativo di riscossa. Grande impressione su Goga fanciullo provocò la vicenda e il processo che venne avviato dal “Memorandum”, documento col quale i rumeni di Transilvania, nel 1892, presentarono all’imperatore d’Austria le loro condizioni precarie di popolo oppresso dai Magiari.
Al centro del mondo goghiano vi è il microcosmo, che è allo stesso tempo macrocosmo, del villaggio rurale transilvano. L’autore, infatti, parlò della sua prima raccolta poetica come della “monografia di un villaggio”: qui si può sperimentare un mondo vero di sentimenti genuini e di idealità spontanee non compromesse dal cerebralismo cittadino. Riflette Goga:
“Il villaggio è il più grande serbatoio di energia nazionale e la sintesi che rappresenta il grande tutto: la stirpe. In questo microcosmo ho scoperto rispecchiata una vita spirituale molto ricca. Se qualcuno volesse cercare nel villaggio tutte le figure rese eterne dalle grandi letterature, le troverebbe certamente sia pure in forma rudimentale. Esistono in campagna Amleto e Tartufo, esiste l’Avaro, esiste Otello; tutte le figure complicate e tutte le grandi passioni ribollono in profondità”
L’esaltazione delle caratteristiche individuali nelle relazioni comunitarie è resa possibile proprio dalla dimensione raccolta ed unificante del villaggio. Questo mondo trova la sua nemesi nel mondo della città. Le grandi passioni “ribollono in profondità” nel villaggio, anche in forme violente ed eccessive come nella poesia “Gianni l’oste”. L’oste viene abbandonato dalla moglie e disperato decide di offrire tutto ciò che ha in cantina agli avventori. Si brinda e si festeggia: alla fine appicca il fuoco al tetto di paglia dell’osteria.
Il villaggio vive nella fissità quasi ieratica di un’icona, in un presente che è contemporaneamente passato, ma allo stesso tempo si articola internamente in individualità ben definite, come il pope, il vecchio maestro, la maestra bionda. Tra questi personaggi protagonisti degli idilli rustici goghiani, troviamo il vecchio suonatore zingaro, Nicolino l’Orbo, uomo dotato di grande umanità e protagonista di un trittico: alla sua morte, arriva in cielo e davanti a Dio e San Pietro attorniati da un coro angelico, intona nel suo canto la tristezza che tormenta l’animo del contadino transilvano.
La poesia di Goga in questo senso sviluppa una linea di pensiero eminentemente rumena, dove il mondo contadino non ha mai assunto un ruolo in contrapposizione con la cultura alta o accademica indigena. Anzi, entrambi i mondi erano accomunati dalla feroce opposizione alla cultura straniera, vuota, seriale e cosmopolita. La grande voce del romanticismo rumeno, Mihai Eminescu, alludeva a questa dicotomia dalla valenza quasi ontologica quando nell’Epistola III, faceva pronunciare queste parole al sovrano Mircea il Vecchio. Il re si rivolge al sultano ottomano Baiazid che aveva invaso il Paese:
“Io? Difendo la povertà e i bisogni del mio popolo…
E quindi tutto ciò che si muove in questa terra, acque, fronde,
È amico solo a me, ma di te è nemico,
Sarai avversato da tutto e da tutti senza nemmeno accorgertene;
Non abbiamo eserciti, ma l’amore di patria è un muro
Che non rabbrividisce per terrore di te, o Baiazid”
Nella seconda parte del componimento, Eminescu si scagliava contro i ricchi borghesi che dilapidavano le ricchezze estorte sfruttando i contadini in patria:
“A Parigi, nell’accidia di cinici lupanari,
Con quelle femmine perdute in orge oscene,
Là avete giocato all’azzardo gli averi e la giovinezza”
Anche Goga riflette sul problema del cosmopolitismo e delle influenze straniere, giungendo alla conclusione che una acritica accettazione di queste tendenze rischia di risolversi ben presto in un appianamento delle specificità individuali e nazionali. Anzi, alla piena comprensione dell’umanità si può giungere solo esaltando le peculiarità nazionali, poiché l’amore per l’umanità inizia dall’amore per il proprio popolo e per la sua storia:
“Io ho creduto sin dall’inizio nello specifico nazionale, ho creduto cioè che non si accede all’universalità che attraverso una porta propria. Ho creduto nel diritto alla vita del valore autoctono, come complemento del principio di universalità. Ho detto che opprimere e sopprimere una manifestazione di particolarismo locale, spirituale, significa rubare dal grande tesoro dell’universalità. Ecco perché io considero gli oppressori che stanno strangolando i popoli una sorta di briganti dell’umanità”.
Nei componimenti di Goga viene elaborato con originalità ed un inconfondibile tono personale quest’ordine di idee. Il mondo contadino, le sue tradizioni, il villaggio, epifanie dell’anima rumena, si presentano sì come ideale a cui aspirare, ma nello stesso tempo come un mondo perduto per sempre, forse anche tradito dallo stesso poeta. Goga non intona un soddisfatto peana di restaurazione del passato, ma sussurra accompagnato dalla corda elegiaca del rimpianto:
“Mi riappare un mondo antico,
Non ciò che accadde mi torna alla mente,
Ma ciò che sarebbe potuto accadere” (Canta la morte)