‘’Pianissimo’’, la silloge poetica bisbigliata di Camillo Sbarbaro

Il mondo letterario di Camillo Sbarbaro, poeta ligure con una sconfinata passione per la botanica e per i licheni, pone le sue radici nel lirismo essenziale che imprigiona nei versi il disagio verso il fluire dell’esistenza. Sbarbaro, nonostante tragga ispirazione dalla poetica pascoliana, descrive le brutture esistenziali con placidità e pacatezza; il suo universo poetico, infatti, è una perpetua descrizione dei piccoli accadimenti della vita seppur mai con astio verso l’esistenza ma, anzi, con una modalità sommessa e, si potrebbe dire, quasi bisbigliata. Poeta legato visceralmente alla sua terra, descrisse con maestria i colori suggestivi della sua Liguria creando, nel lettore che si accinge alle sue raccolte, un fluire onomatopeico di suoni, colori e caratteristiche tipiche dei paesaggi liguri.

Camillo Sbarbaro è conosciuto, soprattutto, per la silloge poetica ‘’Pianissimo’’ edita per la prima volta da ‘’La Voce’’, nel 1914,  a Firenze. Di questa raccolta si contano, però, tre edizioni; quella originale del 1914, la seconda edizione edita ‘’Pozza’’ a Venezia nel 1954 e, successivamente,  un’ulteriore edizione dell’editore Scheiwiller di Milano nel 1961.

Il tema predominante della raccolta è, come consuetudine continuativa al mondo letterario del poeta, il disagio esistenziale; quel vuoto interiore creato dall’innata incapacità umana di creare un rapporto di sinergia e armonia fra soggetto e contesto reale, in cui l’essere umano milita durante la sua esistenza.

Gli influssi della poesia francese e di Baudelaire nella raccolta ‘’Pianissimo’’

La raccolta ‘’Pianissimo’’ custodisce, fra i versi che la compongono, numerosi riferimenti alla poesia simbolista francese e, soprattutto, a Baudelaire. La poetica di Camillo Sbarbaro è spesso stata definita ‘’leopardiana’’ ma dai toni crepuscolari, eppure alcune tematiche sono in linea con lo spleen descritto da Charles Baudelaire;  l’espediente letterario che dona alla poesia di Sbarbaro una linea più intimistica, però, è dovuta alla volontà di creare un rapporto contraddittorio fra le tematiche scabrose e i temi familiari. Il poeta ligure utilizza la città come se fosse un riflesso: un grande palcoscenico in cui si rispecchia la sua abulia, un’apatia che diventa un mezzo di cui Sbarbaro si serve  per connettersi e identificarsi agli strati più umili e relegati della società: prostitute, ubriachi, uomini senza fissa dimora. Il poeta tenta di ricreare un percorso interiore autentico attraverso queste tematiche che connette ai temi degli affetti familiari e, ancor prima, all’atmosfera perduta dell’infanzia:

 

«Andando per la strada così solo / tra la gente che m’urta e non mi vede / mi pare d’esser da me stesso assente.»

 

Sbarbaro: il mondo come un deserto e l’inadattabilità dell’Io alla società

 

Spesso relegato ai margini della letteratura, confinato per dar spazio alla grande poesia, si è andato a cristallizzare il pensiero per cui Camillo Sbarbaro fosse un autore di facile comprensione, quasi provinciale o banale. Tuttavia, proprio nella raccolta ‘’Pianissimo’’, il poeta fa luce su una realtà che coinvolge le società di ogni tempo: l’inadattabilità del soggetto al proprio contesto.

 

«… e il mondo è un grande / deserto. / Nel deserto / io guardo con asciutti occhi me stesso».

 

L’autore frammenta sia la figura del poeta che quella stessa di soggetto vivente in un dato contesto: il mondo è inteso come scisso attraverso forme antitetiche che, paradossalmente, convergono nella silloge in una dimensione strutturale coerente e lineare. Ma la genesi emozionale da cui prende vita la raccolta ‘’Pianissimo’’ è la morte del padre di Sbarbaro:

 

«Padre, se anche tu non fossi il mio / padre, se anche fossi a me un estraneo / per te stesso egualmente t’amerei.»

 

Un sentimento luttuoso che tornerà anche nella silloge Trucioli (1920), seppur in altre forme, connesso agli eventi della Prima Guerra Mondiale e allo sgretolamento che la tragedia bellica aveva arrecato al paese. Proprio nella consapevolezza della fugacità degli attimi e dell’effimera sostanza delle cose, Sbarbaro si aggrappa all’elemento naturale che diviene necessario, così come è impellente l’utilizzo di un appellativo da donare al fenomeno naturale, riflessione della piena potenza evocatrice della parola poetica:

 

Capisco, adesso, perché questa passione

ha attecchito in me così durevolmente:

rispondeva a ciò che ho di più vivo,

il senso della provvisorietà.

Sicché, per buona parte della vita, avrei raccolto,

dato nome, amorosamente messo in serbo….

neppure delle nuvole o delle bolle di sapone

– che per un poeta sarebbe già bello;

ma qualcosa di più inconsistente ancora:

delle effervescenze, appunto.

“Licheni”

 

In un certo senso, Camillo Sbarbaro cerca di esorcizzare quel senso di provvisorietà di cui parla nella poesia ‘’Licheni’’, ma che pure permea la sua intera produzione poetica, attraverso la siglatura: il dare un nome alle cose diventa esercizio di placidità per arginare le piccolezze fugaci di cui la vita di ogni uomo è puntellata. In sostanza, Sbarbaro tenta di appagare la sua provvisorietà verso la vita con la tangibilità di ciò che è visibile, dando un nome alle cose che lo circondano.

Quella di Sbarbaro si potrebbe definire una ‘’poesia del risveglio’’. La sua missione consiste nel tentare di scuotere l’uomo ingarbugliato e sopraffatto dalla civiltà moderna, con cui diviene quasi impossibile la comunicazione. “Pianissimo” è  una raccolta che descrive la condizione del poeta, la sua sofferenza, ma che ben si presta nel descrivere le circostanze esistenziali di ogni uomo.

Lo stato di sofferenza individuale diventa voce ‘’sommessamente urlata’’ che pare far affermare al poeta ligure che il dolore sì, è parte integrante del mondo, che esiste un’incomunicabilità di fondo fra l’Io e la realtà circostante ma che un baluginio di speranza, forse, può scorgersi: non afferma questa possibilità, ma nemmeno la nega. Sbarbaro, attraverso la silloge ‘’Pianissimo’’ sembra quasi dire al suo lettore che, magari, è possibile esorcizzare la sofferenza in modo individuale, attraverso appigli soggettivi.

I poeti liguri del ‘900: Sbarbaro, Barile e Montale

Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, che fece da cerniera tra la poesia classicheggiante della tradizione e il simbolismo francese, e Mario Novaro, autore di un solo libro di poesie (ricco di risonanze) e fondatore della rivista antologica più ricca del primo ‘900 “Riviera ligure”, furono indicati da Carlo Bo come poeti che avevano favorito il deciso rinnovamento della nuova poesia del ‘900.

Camillo Sbarbaro pubblicò nel 1914 la sua raccolta di poesie intitolata “Pianissimo”: anche per lui il riferimento culturale più evidente era il simbolismo francese, sul quale aveva innestato i temi che maggiormente gli stavano a cuore: l’assenza di certezze, lo scorrere del tempo, la città come solitudine, la natura come sola occasione di salvezza, il rifugio nei sentimenti familiari.

Per rappresentare tutti questi temi, la sua poesia era composta da una scrittura essenziale e disposta in strofe ampie e ben costruite e voleva verso un tono dimesso.

Esaminiamo il primo testo della raccolta pianissimo, “Taci”: qui il poeta impostava un dialogo intimo con la propria anima “stanca di godere / e di soffrire” e “rassegnata”, quindi sconfitta e piegata dalla misera realtà, senza “rimpianto per la miserabile / giovinezza”, senza speranza per il futuro e tuttavia in questa totale assenza di ragione per vivere, ancora “camminiamo io e te come sonnambuli” e quindi in assoluta estraneità a tutto ciò che è attorno e che non mi/ci appartiene, in una disperata mancanza di comunicabilità, senza che sia possibile stabilire un minimo e reale rapporto con cose e persone in quello che è dunque un ‘deserto’ di sentimenti e di passioni anche perché nessun ideale, nessun obiettivo da raggiungere si manifesta.

La stessa immagine dell’inutile vivere tornerà anche nella successiva poesia della raccolta.
L’affanno del vivere e la solitudine che condannava l’uomo moderno cittadino, erano i temi centrali della poesia di Sbarbaro: il solo conforto possibile era dato dagli affetti familiari.

Nei versi di Angelo Barile invece troviamo una visione profondamente religiosa, in cui i sentimenti di serena compartecipazione alla vita vincevano sulla solitudine e il dolore veniva inteso come preparazione alla felicità eterna.
Questa sua visione positiva è rappresentata nella poesia “Osteria della Bella Brezza”: viene utilizzato un tono molto cordiale e lo scenario è un borgo marinaro (minutamente descritto); tutto è all’insegna della concordia e della laboriosa armonia di un paese accomunato dalla fatica dell’andare per mare.

Barile trasmette al lettore lo stesso senso d’attesa dell’aldilà nella poesia “Lamento per la figlia del pescatore” : qui viene affrontato il tema doloroso della morte di una giovane; quella sventura sconvolgente viene mitigata della certezza che “ora canti sull’altra tua riva” e suo padre affida la sua sofferenza ad un semplice gesto di pescatore: “ha dipinto / le sue barche di un filo di lutto”, così che pensa sempre a sua figlia.
Con Barile ci troviamo davanti ad uno dei pochi poeti del ‘900 che ha una visione positiva della vita e della sua prosecuzione anche dopo la morte.

Da Sbarbaro a Montale, abbiamo una continuità segnata principalmente da due cose: dalla dedica di Montale del suo primo libro “Ossi di seppia”(opera rappresentativa di Montale, nella quale ritroviamo come paesaggio predominante quello ligure della riviera assolata e incolta, che rispecchia il sofferto mondo interiore dello stesso autore) a Sbarbaro, inoltre i due hanno in comune il motivo ispiratore della loro maggiore poesia: il male di vivere dell’uomo moderno che di giorno in giorno si scopre sempre più fragile e privo di certezze, mentre intorno avanza l’apparente progresso che lo soffoca.

Questo è in particolar modo il primo Montale che si dedicò al bel canto; aveva vissuto l’esperienza della guerra e si era dedicato sempre più alla poesia.

“Spesso il male di vivere ho incontrato”  si basa sul contrasto tra il male connaturato alla vita, rappresentato da tre metafore: il ruscello ostacolato dai detriti, la foglia arsa dal caldo e il cavallo stroncato dalla fatica; si basa anche sul bene apparente, rappresentato anch’esso da tre metafore: una statua nella canicola, una nuvola lontana e un falco che vola in alto.

In “Meriggiare pallido e assorto”  il poeta usando dei verbi all’infinito avverte il fastidio fisico procurato dal calore delle ore centrali della giornata e subisce una natura ostile e per nulla consolatrice, simbolo della condizione di solitudine dolorosa e di isolamento dell’uomo moderno, ribadita l’immagine finale della ‘muraglia’ (simbolo di separazione) sopra la quale ci sono dei ‘cocci aguzzi di bottiglia’ così nessuno può scavalcarla.

Montale manifesta la sua idea di poesia e si interroga sul suo ruolo e su ciò che la poesia può valere nel suo tempo e Montale perciò, facendo riferimento al concetto espresso da Palazzeschi nella conclusione della poesia “Lasciatemi divertire”, dice di non avere messaggi, ma ha solo la certezza di non poter offrire certezza.

Nella poesia successiva ad “Ossi di seppia” troviamo un Montale ‘diverso’ poiché si preoccuperà del mondo esterno, anche rispetto alla situazione della guerra; infatti Montale sarà interprete del grande dramma della Seconda Guerra Mondiale vissuto dall’umanità.

Nella raccolta “Le occasioni” passerà un messaggio meno immediato. Per esempio guardiamo “Casa dei doganieri” in cui il destino incerto dell’anonima donna protagonista renderà tutto indecifrabile tanto che non sarà possibile capire chi morirà veramente, chi è partito e chi è invece rimasto nel mondo ingannatore di ciò che appare vivo ed è invece retto da un ingovernabile destino.

Nel dopoguerra Montale si trasferisce a Milano e lavorerà per il “Corriere della sera”. Dopo scritte un terzo libro in cui raccolse tutte le poesie riguardanti la guerra. Per esempio “Primavera hitleriana” è una poesia ultimata nel 1946, ma suggerita dalla visita compiuta a Firenze nel 1938 da Hitler, accolto dalla popolazione con favore e comunque senza che nessuno assumesse posizioni critiche nei suoi confronti, tanto da risultare così indirettamente tutti complici poiché ‘più nessuno è incolpevole’.

Con quest’affermazione Montale volle significare che non solo il consenso ma anche l’indifferenza nei confronti del male è una forma di scelta e dunque nessuno può ritenere di non aver avuto responsabilità nell’aver favorito il nazifascismo e tutti coloro che non vi si opposero nei fatti furono dei ‘miti carnefici’.

La salvezza sarà portata da una donna-angelo che si sacrificherà per l’umanità portando “un’alba che domani per tutti / si riaffacci, bianca ma senz’ali / di raccapriccio”, mentre l’immagine iniziale che aveva accompagnato la visita di Hitler era quella delle falene impazzite attorno ai fanali che cadevano stordite per terra formando un tappeto.

Se il Montale maturo sarà interprete del grande trauma Seconda Guerra Mondiale, il vecchio Montale sarà interprete anche dei sentimenti più intimi e privati anche se troviamo sempre il tema riguardante il senso dell’indefinibile, la consapevolezza dell’assenza di certezze.

 

Fonte Academia.edu

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