Silvio Berlusconi. L’intruso della politica che voleva piacere a tutti

A poche settimane dalla morte di Silvio Berlusconi, sono ancora frequenti gli attacchi al Cavaliere da parte di giornali che sembrano confermare la loro vocazione a riviste di gossip giudiziario e sfogatoi di livore personale. Il lietmotiv è: “E’ stato santificato, non è stato raccontato chi fosse davvero!”, come se in tutti questi anni non si sia parlato dei guai giudiziari di Berlusconi, del suo privato, delle sue amicizie, del conflitto di interessi, delle leggi ad personam; come se qualcuno conoscesse davvero a fondo la vita e qiò che pensava l’uomo, l’imprenditore e il politico più influente, più discusso e più importante dell’Italia degli ultimi decenni. Piaccia o meno con la morte di Silvio Berlusconi se n’è andato un pezzo di storia italiana e ricordare ciò che ha fatto come imprenditore, nella televisione, nell’edilizia e nel calcio non significa farne un ritratto agiografico.

Berlusconi era divisivo; certo ma è la politica ad essere divisiva. Ma perché era ed è ancora odiato e amato? Chi lo odia e chi lo ama? Chi lo ama spesso sostiene che chi lo odia lo fa per invidia e chi lo odio sostiene che chi lo ama è perché fa parte di un pezzo poco onesto del Paese. Troppo semplicistico.

Silvio Berlusconi è stato, pur senza saperlo e volerlo, il primo vero neo-reazionario d’Italia più che un liberale: nella diatriba che a destra vede liberali, conservatori e moderati contendersi la paternità ideologica di Berlusconi e nella sinistra progressista, che non affronta la questione virando su altre dimensioni e affermando che è stato una rovina per l’Italia e un pericolo per la democrazia, il neo-reazionarismo di Berlusconi potrebbe costituire un elemento di novità nel dibattito storico-politico, anche tra le vedovelle antiberlusconiane che hanno perso il loro nemico giurato.

L’ex premier è stato un intruso nella politica italiana, uno che ha scombussolato i piani del “come doveva andare” dopo la presunta rivoluzione giudiziaria di Mani pulite: era esito scontato che, morta la Dc, esiliato Craxi, a dominare sarebbe stata la gioiosa macchina da guerra degli ex comunisti e cattolici democratici. E l’estroso imprenditore milanese ha continuato per circa trent’anni a fare grandi trambusti e grandi cose, mischiando il personale con il politico.

Berlusconi ha concepito la democrazia come un metodo di esercizio del potere. In Occidente i partiti, le burocrazie, la magistratura e i media fanno leva sulle infrastrutture politiche per mantenere ben saldo il loro potere e controllo, vogliono essere tutto; in Italia, però, questa spinta propulsiva ecumenica ha dovuto fare i conti con quella accentratrice di Silvio Berlusconi, un self-made man che ha trasferito il proprio atteggiamento dall’imprenditoria al campo elettorale, proponendo la sua persona, non il suo partito.

Berlusconi, contro il quale si sono celebrati 36 processi, quattro dei quali sono ancora in corso e il cui conto finale segna 11 sentenze di assoluzione, è stato condannato una sola volta per frode fiscale nel processo Mediaset, per la quale condanna il Tribunale civile di Milano ha parlato di un piano politico, smontando la sentenza della Cassazione che portò nel 2013 all’unica condanna di Berlusconi.

È stato vituperato in tutti i modi, gli hanno spaccato persino un duomo in faccia, a Milano, e lui ha esibito il suo volto sanguinante salendo sul predellino dell’auto, per poi continuare con le sue gaffe, barzellette e performance da showman. Ha subito attacchi imprenditoriali di ogni tipo, assalti finanziari, ha intrapreso guerre difensive persino contro: Merkel e Sarkozy ridacchianti, la troika, le agenzie di rating, i giornali. Ma Berlusconi non ha ricambiato l’odio, non è mai sembrato servasse rancore ai suoi detrattori.

I suoi governi non hanno lasciato opere memorabili ma nemmeno danni irreparabili, non è stato un grande statista, ma nemmeno il Caimano: non ha fatto la rivoluzione liberale che aveva annunciato, ha per primo lanciato in Italia il populismo antipolitico, e da lui derivano il grillismo, e l’opportunismo piacionesco di Giuseppe Conte che per differenziarsi più nettamente dalla sinistra, non è andato al funerale del Cavaliere; le sue tv hanno veicolato consumi, banalità, superficialità, e americanizzazione.

È interessante notare quanto più Berlusconi venisse aggredito da coloro che vogliono essere tutto, la sua presenza diventasse più evidente, in virtù dell’insofferenza provata da molti italiani nei confronti degli apparati del potere, il comune cittadino non poteva fare a meno di chiedersi cosa ne sarebbe stato di lui, se addirittura il multimiliardario di Arcore doveva faticosamente resistere al peso degli apparati a lui ostili. A queste persone il Berlusconi ha offerto un’alternativa concreta, la sua prospettata rivoluzione liberale una via d’uscita dai tentacoli della chiesa degli intellettuali progressisti, la Cattedrale come la chiamava Nick Land, un sistema diffuso di distribuzione del potere da parte di un ristretto gruppo di nodi istituzionali che si collegano tra di loro, trascendendo i normali limiti della democrazia. Questo, e non la propaganda delle sue TV come erroneamente pensano molti, spiega la carriera politica di Silvio Berlusconi, il quale, un po’ grande Gatsby che però vuole conquistare gli italiani e non la Daisy di turno, un po’interprete dell’anima popolare e cristiana italiana, non ha voluto correggere i suoi connazionali, sebbene la sua televisione abbia trasformato questo pensiero in mentalità comune. Eterogenesi dei fini.

Berlusconi era odiato perché ha rotto le uova nel paniere della sinistra comunista e degli aspiranti repubblicani togati, e perché è più facile credere che un uomo ricco, vincente e di successo, sia per forza un delinquente. Berlusconi era odiato da coloro che ritengono che la Magistratura sia un bene supremo e infallibile, dalle élite sprezzanti del popolo e di chi si realizza da solo. Berlusconi era amato dai piccoli e medi imprenditori, non dall’alta finanza, è stato votato dagli operai, dai pensionati, dai poveri. Berlusconi ha vinto più volte le elezioni perché molti italiani si sono rispecchiati in lui, combattente contro l’espansione infinita dello Stato, cui è legato il concetto di democrazia.

Il fenomeno Berlusconi è certamente anomalo e complesso e non può essere ridotto a un filmetto pornografico o alle cronache giudiziarie, né si può asserire che chi ha votato negli anni passati Berlusconi sia un malfattore, un evasore, un affossatore della cultura! Tipico di molti italiani che si sentono lord inglesi illuminati, esterofili, onestissimi, nati per sbaglio nella penisola dei populisti e degli ignoranti da educare.

Domanda esistenziale: il desiderio di Silvio Berlusconi di piacere a tutti era un sentimento puro o soprattutto una sorta di sublimazione del proprio successo e della propria fama? Era lo scopo del raggiungimento della sua ricchezza e potere? Non è insito nella natura umana sentirsi sempre e costantemente i capofila di un’idea, di una visione, e di esseri stimati e amati, perché no, invidiati, per ottenere l’immortalità?

 

 

 

Lo Zan, Fedez e il tiro all’opinione

Tra Fedez e Pillon, tutti a grugnire intorno alla proposta di legge del deputato PD. In democrazia, più si rispetta la diversità, meglio è. Nella finta democrazia liberale, invece, funziona come nella Fattoria degli animali di Orwell: c’è sempre qualcuno che vuol essere più uguale degli altri.

Il diritto liberale funziona così: ogni minoranza deve poter chiedere e, prontamente, da parte della maggioranza esserle dato. Norme, soldi (4 milioni di euro per centri di assistenza a vittime delle violenze di genere), visibilità, riconoscimento sociale. Si sviluppa ad abundantiam, per proliferazione.

Non è una critica, è una constatazione. Tutto quel saltare di nervi, poi, per gli incontri nelle scuole abbinate a una futura Giornata nazionale contro le varie fobie, pare, suvvia, un tantinello sfasato: con tutta l’orgia di materiali di varia natura di cui un ragazzino può ingozzarsi quando gli pare e piace, guardando una qualunque serie su Netflix, o navigando solitario in cameretta sul telefonino (che certi disastrati genitori gli danno in mano quando ancora non sa la differenza fra il coso e la cosina), il terrore che imparino dalla maestra la legittima esistenza degli omosessuali o dei trans suona, diciamo, leggerissimamente fuori dal mondo.

Secondo i seguaci di Fedez, la proposta (già passata alla Camera, bloccata in commissione al Senato dalla Lega) non mette affatto a rischio la libertà di manifestare un’opinione diversa o critica su matrimonio gay o utero in affitto, anche perché è stata munita di un’aggiunta, la cosiddetta “clausola salva-idee”, che salvaguarda la libera espressione di punti di vista purché non vengano “a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”.

L’ambiguità, in effetti, c’è. Ma come in tutte le pandette, del resto, specie in Italia. Sarà ulteriore lavoro per i giudici nonché per i giornalisti, ghiotti di casi dell’offeso di turno che schizza in tribunale non appena sente un prurito alla propria personale fobia.

Ora, posto che non è in discussione punire chi discrimina un qualsivoglia cittadino a prescindere dalla categoria o dall’appartenenza (se dimostro, per esempio, che pur avendo i titoli mi scarti al lavoro perché non gradisci con chi mi accompagno, vai sanzionato per violazione della basilare uguaglianza, non per altro), specificare, settorializzare, parcellizzare reati di comportamento che dovrebbero valere per tutti è una battaglia che non dovrebbe sfiorare nemmeno un’aula di giustizia, perché è culturale e politica.

Tramite il Dl Zan i promotori intendono far avanzare la loro linea, e ci sta. Ma qua il problema non è il singolo comma del dettato legislativo, è che non dovrebbero proprio esistere i reati di opinione. Chiunque dovrebbe poter sostenere la propria, fosse anche la più indecente, a patto che non agisca per imporla a nessuno.

Si poteva benissimo pensare a giornate celebrative o centri anti-violenza o a inasprire le aggravanti, senza alimentare la dinamica opinionicida dell’iper-regolamentazione fobica.

La legge Zan non proteggerà nessuno, con buona pace di Fedez che non sa nemmeno di cosa parla. Al meglio, non cambierà niente; al peggio, rafforzerà le parti politiche che li discriminano. La legge introduce aggravanti, cioè pene appesantite per reati che già esistono. L’idea che inasprire le pene faccia diminuire il crimine è una delle numerose credenze intuitive ma false, ormai ampiamente smentite dagli studi. Per amor di brevità, citiamo solo la posizione del National Institute of Justice, l’agenzia di ricerca del Dipartimento di Giustizia americano:

“Le leggi pensate per ridurre il crimine concentrandosi principalmente sull’inasprimento della pena sono inefficaci, in parte perché i criminali non conoscono le sanzioni specifiche per i crimini. Pene più severe non correggono i condannati, e il carcere può aumentare la recidiva”.

Inoltre, tralasciando l’ipocrisia e la pochezza intellettuale di alcuni politici che dicono di “stare” con il rapper (fatto che ci dice che la politica ormai è quasi deceduta), il paladino dei trans e dei lavoratori Fedez, “dimentica” quelli di Amazon, multinazionale di cui è sponsor, come dimentica quella canzone in cui ironizzava sull’outing di Tiziano Ferro (uno che sa cantare), o le sue bordate sui carabinieri. L’impressione è che al cantante munito di autotune non interessino davvero i diritti civili, ma consolidare la sua immagine pubblica di influencer, magari sollecitato dalla moglie che ha brandizzato la propria famiglia, facendosi ulteriore pubblicità e “dimostrando” di non essere solo un artista (?) ma un artista impegnato, come si conviene oggi.

 

Fonte  Alessio Mannino

Dell’Ilva di Taranto se ne lavano tutti le mani

L’ex Ilva di Taranto è da tempo un ingombrante altoforno i cui gas non asfissiano solamente i lavoratori e la popolazione del capoluogo di provincia pugliese, bensì hanno la capacità di disperdersi nei gangli dei dicasteri governativi romani e di infiammare il dibattito politico come pochi altri temi sul lavoro.

Al governo, che nel palio delle alleanze, delle rivalità e dei colori degli ultimi mesi ha conservato la sua componente gialla, non è evidentemente bastata la lezione di Whirlpool concernente l’unità produttiva di Napoli. Ha dovuto nuovamente sbattere la testa sul muro eretto dai padroni, sull’economia che detta le regole alla politica, sul capitale che giostra le regole del lavoro, perché non possiamo più nascondere l’ennesimo voltafaccia di un colosso industriale all’Italia dietro l’orpello dell’inesperienza di chi governa.

Una minaccia non può essere frutto di una contingenza politica. Le mani che ora si passano la palla avvelenata dell’abrogazione dello scudo penale – il quale avrebbe fatto saltare il banco nelle stanze dei bottoni di ArcelorMittal – sono le stesse che firmavano accordi di riqualificazione e ambientalizzazione dello stabilimento tarantino, mani che gestivano le casse statali che erogavano ammortizzatori sociali per appagare i capricci industriali ed occupazionali dei padroni.

Quando esponenti apicali del governo ci raccontano di rivoluzioni gentili e ci comunicano, attraverso smorfie, la loro sorpresa nel non veder rispettati accordi con una multinazionale che ha un utile operativo di 6 miliardi e mezzo di dollari l’anno, abbiamo la consapevolezza che nessuno di loro è rimasto in una fonderia oltre il tempo necessario per un comizio tra gli operai.

Nessuno di loro, prima di pensare se armare o meno la parte datoriale di uno scudo penale, ha mai pensato alle reali condizioni di lavoro dopo l’abolizione dell’articolo 18 e la defenestrazione del contratto a tempo indeterminato. Così come nel quartier generale lussemburghese della ArcelorMittal riescono benissimo a fare gli indiani, fingendo di non capire quale bomba sociale ed ambientale rappresenti la dismissione incontrollata dello stabilimento di Taranto, a Palazzo Chigi reiterano lo stesso comportamento, derubricando l’emergenza in una penosa individuazione di responsabilità cronologica nei confronti di chi ha portato sui banchi del Parlamento la norma sull’immunità penale ai gestori dell’acciaieria.

D’altra parte nel circo mediatico che viene allestito quando ballano diecimila posti di lavoro è più vendibile e ricreativo sbranarsi sotto gli occhi del domatore che offrire spettacoli edificanti, in un’ottica di unità nazionale. Che la rimozione dello scudo penale e le prescrizioni del tribunale di Taranto siano per la ArcelorMittal solo il casus belli per abbandonare un impianto non remunerativo come da aspettative, non ne parla quasi nessuno.

La crisi di acciaio in Europa è già realtà: i grandi colossi che divorano capitale finanziario e umano hanno un’oggettiva difficoltà nel trovare manovalanza a basso costo in un continente dalle grandi tradizioni industriali e sindacali. In aggiunta, l’economia stagnante del Vecchio Continente ha compresso la richiesta di acciaio e permesso alla Via della Seta – anche nel settore della siderurgia – di diventare un’arteria radiale per l’ingresso dei suoi prodotti in Europa.

Malgrado ciò e i loschi tentativi di promuovere nuove cordate di acquirenti dell’Ilva che succedano ad ArcelorMittal, in cambio di appoggio politico, lo scenario dell’ex Ilva sarebbe la tempesta perfetta per rispolverare l’ombrello costituzionale, in riferimento alla disciplina dei rapporti economici.

L’articolo 43 della Costituzione Italiana detta chiaramente che “la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazione di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”.

L’ex Ilva non fa forse parte di questa categoria di imprese? Siamo sicuri che i lavoratori non sappiano gestire e realizzare un piano industriale – nel rispetto delle prescrizioni ambientali – meglio di manager prezzolati i quali, se non vengono debitamente assecondati nei loro bluff, buttano le carte e si siedono tranquilli su un altro tavolo da gioco?

Sino a quando nelle politiche e nelle relazioni industriali non tornerà centrale l’assioma che è il lavoro ad essere in vendita e non il lavoratore, lo Stato Italiano giammai potrà essere in grado di affrontare seriamente il tema della gestione privata delle grosse imprese. Se nazionalizzare è un’utopia – o una distopia per i fan delle liberalizzazioni – bonificare il sito e salvaguardare i piani occupazionali rilanciando una produzione ecosostenibile deve essere il centro di gravità permanente su sui fissare il futuro di Taranto. Chi ha paura di lottare continua a morire ogni giorno invece che una volta sola.

 

Andrea Angelini

La Magistratura migrante da riformare, e l’inchiesta contro Salvini

Un’inchiesta da manuale, quella del procuratore capo di Agrigento Luigi Patronaggio. Secondo la migliore tradizione italiana. Leggasi infatti: inchiesta dai risvolti politici. Anzi, politicissimi. La vicenda ha inizio dopo Ferragosto, quando un’imbarcazione carica di extracomunitari viene intercettata dalla Squadra marittima delle Forze armate di Malta in acque maltesi. La nave, proveniente dalla Libia, non corre il rischio di affondare e perciò viene rimbalzata dalle faine isolane. Lasciata al proprio destino in mezzo al mare, è lì che viene rinvenuta dal pattuglia-barconi Diciotti, unità della Guardia costiera italiana. Alla richiesta di individuare un porto sicuro dove poter far sbarcare gli immigrati, La Valletta risponde niet. Tradotto: li avete salvati voi, ve li tenete voi. Da far invidia a Ponzio Pilato. E in barba al fatto che si trovassero nell’area Sar dell’isola, di competenza maltese.

A quel punto, la Diciotti ha fatto rotta verso Catania. Certo, quegli extracomunitari potevano finire a mollo a causa della negligenza di Malta, ma i magistrati non metteranno mai sotto accusa l’isoletta di Muscat. Perché, per i magistrati, Matteo Salvini è preda molto più ambita. È infatti notizia di sabato scorso che il procuratore capo Luigi Patronaggio, accompagnato dal procuratore aggiunto Salvatore Vella, si è recato a Roma per ascoltare i dirigenti del servizio Libertà civili del Viminale e alcuni funzionari della Guardia costiera. Il tutto dopo aver aperto un fascicolo per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio a carico del Ministro dell’Interno, reo di aver impedito lo sbarco degli immigrati dal pattugliatore Diciotti. Fascicolo aperto evidentemente non sulla base di sole valutazioni penali, date le personali vedute del procuratore, il quale ritiene, come riporta Il Giornale, che si debba fare i conti col fenomeno immigratorio tenendo a mente che “si tratta di persone costrette a lasciare con dolore terra e affetti, a fuggire da guerra e miseria.”

E non importa se non è vero che la maggior parte degli extracomunitari fugge dalla guerra e che è contro la legge non rimpatriare coloro che non hanno diritto a rimanere in Italia. Perché l’unica cosa importante, per certi apparati dello Stato, sembra esser quella di far naufragare l’esecutivo giallo-verde, in anticipo persino rispetto al paventato attacco dei mercati. E mettendo nel mirino l’uomo forte dell’esecutivo, colpevole soltanto di voler far rispettare la legge, ovviamente con l’appoggio morale del popolo degli arancini, appendice portuale dell’annaspante Partito Democratico, che nemmeno si è presentato in tutti i suoi ranghi per i funerali di Stato a Genova. Senza però farsi sfuggire la passerella catanese: ecco le priorità di una compagine politica ormai allo sfascio. Di una compagine politica che non ha compreso (o che ha volontariamente ignorato?) le cause e le implicazioni dell’attuale fenomeno immigratorio, parte di una strategia che mira a privare di coesione il sistema socio-politico italiano con un obiettivo ben preciso: appropriarsi del nostro capitale.

Lo spiega anche la Prof.ssa Greenhill nel suo libro Armi di migrazione di massa. Quante figuracce avrebbero evitato le anime belle del Nazareno, se solo l’avessero letto! Quel che è certo è che con avversari simili Salvini può permettersi qualunque cosa. Anche vincere quando sembra perdere. Infatti, nonostante i suoi limiti in materia di geopolitica, continuerà a mietere consensi. Soprattutto se continueranno a piovere inchieste ad hoc.

Claudio Davini

Da Virzì a Balotelli, inventarsi un’arte: come, quando e perché si è preso a trattare il film come oggetto artistico, il divo come maître à penser e il regista come autore

Virzì è stremato, non sa più con quali nuove formule lessicali esprimere il proprio disgusto verso chiunque. Eppure continuano a tartassarlo. Lo intervistano, facce ride sembrano dirgli, e lui stanco esegue come chi ha ripetuto troppe volte la stessa barzelletta: quello è fascista, quest’altro razzista, questo qui neonazista e quello mi sta antipatico per fatti miei. E giù applausi. Loro chiedono, lui legittimamente replica e dice apertis verbis quello che pensa. A puntare il dito contro uno che risponde a delle domande – specialmente nel caso di specie – si registra però l’ennesima adesione di certi ambienti al solito orientamento politico e intellettuale, senza procedere oltre. Per farlo andrebbe ricercato il motivo per cui il suo giudizio venga imposto in maniera così autorevole nonostante un’opinione pubblica collocata ormai da tempo su posizioni opposte. Semplice: fa i film, è un artista, si dirà. Sì, e con questo? Cos’è che rende un professionista dell’estetica un filosofo, un analista politico, un sacerdote?

Le recenti critiche di Balotelli e Corona ai nuovi ministri sono state prese ovunque a pernacchie non tanto per il contenuto quanto per il ruolo che ricoprono nella nostra gerarchia di rispettabilità. Mica vorremo farci spiegare le cose serie da un calciatore e da un paparazzo. Però all’opinione personale di un regista diamo credito, e anche se questo ricicla banalità e inesattezze scendiamo sul suo terreno di gioco e lo discutiamo nel merito, quantomeno legittimandolo, rendendolo cioè un interlocutore. Il suo giudizio – così come quello dell’attrice x sul conflitto siriano e dello sceneggiatore y sulla democratica elezione del dittatore di turno (sic!) – vanta una tale onorabilità a seguito di un lungo processo di intellettualizzazione del cinema partito prima nel vecchio continente e poi consolidatosi definitivamente alla fine degli anni Sessanta in America. Il risultato è sotto gli occhi di tutti da un pezzo: i professionisti più in vista del mondo cinematografico non possono non avere opinioni su questioni intricate anche per chi se ne occupa di mestiere, ed è allora normale ripiegare sulla versione mainstream, più legittimata e spesso più semplice, benché qualcuno faccia eccezione.

Risalendo alle origini si nota che in Europa l’assenza di una consolidata industria cinematografica ha sempre lasciato aperta la porta all’autorialità, spianando dunque la strada a quell’intellettualizzazione cui si faceva cenno, mentre negli Stati Uniti il cinema è passato già negli anni Venti da mezzo tecnico capace di duplicare il mondo meglio ancora della macchina fotografica a strumento in mano a banche e imprenditori al fine di intrattenere le masse. In un tale contesto lo statuto artistico della pellicola non è nemmeno un’opzione immaginabile: si produce per generi in modo da agevolare tanto chi realizza i film quanto chi li guarda, si nasconde il più possibile il soggetto dell’enunciazione quasi a fingere che il film emerga dal nulla e si specula sulle vite private dei divi per alimentare il baraccone.
Tutto è funzionale al consumo e al rapido adattamento ai gusti che mutano, così i registi eseguono ciò che lo studio ha chiesto loro e si prestano a qualsiasi tipo di produzione, da quella riempitiva a quella più ambiziosa. Il fine è sempre e solo l’incasso. Il film è difatti per natura il mezzo di intrattenimento mercificato intrinsecamente, non soltanto quindi a partire dalla sua distribuzione, poiché le parti stesse che lo compongono (sceneggiatura, costumi, colonna sonora) sono a loro volta commercializzate, rendendo la pellicola l’incubo ricorrente di chi denuncia una generale svendita della cultura. In altre parole, le opinioni personali dei vari Ford, Capra, Hawks e Wilder non riempiono i giornali degli anni Quaranta, e non li riempiono perché a nessuno importano. Il film è industria e filosofeggiare non è il mestiere di chi lo realizza.

Un tempo essi firmavano le loro lettere, come Kant e Hume, ‘servo umilissimo’, e intanto minavano le basi del trono e dell’altare. Oggi chiamano per nome i capi di governo […]
(Adorno e Horkheimer)

Lo scenario muta col secondo dopoguerra. Il cinema classico va in soffitta e una ventata artistica modifica lentamente la percezione del film fino agli anni Sessanta citati. I registi della Nouvelle vague con la loro Teoria dell’autore iniziano a diffondersi anche negli Stati Uniti, dove la Tv ha già preso il posto del grande schermo come mezzo privilegiato dalle masse, il cinema entra nel discorso accademico, i festival ribadiscono la sua natura artistica, il pubblico diventa giovane e scolarizzato e la critica utilizza artifici retorici per elevare il proprio oggetto di lavoro. Tra tutti i fattori è senza dubbio l’ultimo a contribuire più degli altri all’attribuzione di uno statuto artistico al prodotto cinematografico, riabilitando quei registi della Hollywood classica e convertendoli da mestieranti in autori, per poi creare nelle decadi successive una generazione di attori-intellettuali e cineasti-filosofi.

Il caso di Hitchcock è in questo senso uno dei più significativi proprio perché figlio tanto di un lavoro personale sulla propria reputazione quanto dell’idolatria di quei critici francesi che poi diventeranno i registi sulla bocca di tutti. Le sue interviste a Truffaut lo rendono un mostro sacro, e quando i suoi ultimi film escono nelle sale già molti studenti hanno letto saggi accademici che lo riguardano, i musei d’arte contemporanea proiettano le sue vecchie pellicole e lui si diverte ad alimentare aneddoti, a realizzare backstage e ad ammiccare al linguaggio del cinema europeo più autoriale. È qui che i nuovi critici sfoderano un repertorio di artifici retorici capaci in pochi anni di elevare qualsiasi pellicola ad arte. Shyon Baumann ne individua alcuni:
1) Trattare il film come un testo complesso, cercare cioè il buono anche nella pellicola più deludente e il punto debole in quella più riuscita;
2) Trovare significati impliciti, sintomatici o volontariamente nascosti;
3) Chiamare in causa direttamente il regista all’interno della recensione e personificare il film;
4) Paragonare il regista ad altri suoi colleghi e il suo lavoro ad altre filmografie, in modo da rintracciare o creare artificialmente una rete di riferimenti;
5) Insistere con termini come opera e autore, e contribuire a creare un linguaggio specifico e autonomo.

Con gli anni Settanta questa impalcatura sarà consolidata dalla fondazione di numerosi festival che non faranno che alimentare l’idea del regista come un genio creativo e dell’attore sempre meno divo e più personaggio da interrogare su qualunque argomento complesso. Tutti diventano artisti impegnati e tutti giocano a farlo, il festival diventa tanto arbitro di chi possa essere autore quanto dispositivo che per la propria sussistenza spaccia tutto per arte, dal film che realmente lo è a quello puramente industriale. Ed ecco che torniamo al nostro cineasta livornese, regista di commedie di successo interrogato negli studi tv e nelle redazioni dei giornali come fosse, in quanto regista, depositario di riflessioni interessanti. L’impressione è che se non fosse per un tale, mostruoso, enorme e bellissimo apparato paratestuale, le opinioni degli operatori del cinema cadrebbero nel nulla come quelle del giocatore di calcio sopra citato.

Quando ancora questi avevano voglia di giocare in estate, per esempio, qualcuno chiese a quello più forte cosa pensasse dei colleghi omosessuali. Gettata l’esca, lui abboccò col fare ruspante di chi non segue la sensibilità del proprio tempo. Figuraccia doveva essere e figuraccia fu. Al contrario, cineasti e attori vengono imbeccati per dire ciò che pensano (o che credono sia giusto pensare) e far la figura degli impegnati, mentre il calciatore lo è per essere messo in difficoltà: chissà cosa ne pensa è la matrice della domanda nel primo caso, chissà come la spara grossa nel secondo. Al netto del finto statuto autoriale di alcune produzioni molto commerciali e poco artistiche – che comunque tengono in piedi economicamente i deliri art house del cinema d’essai – viene da rilevare più genio creativo nel lavoro di Balotelli che in quello di certi attori e registi, per cui o respingiamo le opinioni di entrambi in quanto giudizi poco autorevoli – tanto quella di chi tira il pallone da mane a sera quanto quella di chi filma delle scene da ridere – o le prendiamo sul serio tutte e due ed eventualmente le mettiamo in discussione sullo stesso piano. La terza e più probabile alternativa è quella che ci vede continuare con la manfrina dell’opera e dell’artista anche laddove – per fortuna – vi è solo intrattenimento ben applicato ai codici del cinema. Il giochino probabilmente continuerà: nuovo giro, nuova batosta elettorale/guerra/provvedimento politico, nuova intervista-oracolo all’attore sulla cresta dell’onda.

 

Alessandro Fiesoli

“Loro 2” di Sorrentino: Ecce Homo

Forse è il caso di ringraziare i film di Paolo Sorrentino perché ogni volta risvegliano gli ardori non solo di tanti spettatori sonnacchiosi, ma anche delle persone che al cinema non ci vanno mai e di Bigelow o Nolan non sanno dire se siano musicisti o calciatori. Qualcuno potrà certo maledire gli zeli modaioli, ma diverte, invece, il fatto che il conoscente inaspettato o il vicino di treno s’improvvisino cinéfili; anche se poi tali esternazioni servono a poco perché il giudizio è quasi sempre espresso negli estremi anchilosati di ottimo o pessimo. Finendo, così, per fare contento il maestro sempre più convinto del paradosso preferito, ossia che hanno tutti ragione e la sfumatura è l’unica discriminante che conta e gli interessa. (“Pas la Couleur. Rienque de la nuance!”, Paul Verlaine). Come si era concluso il primo capitolo di Loro? Con l’epifania di Fabio Concato che sbuca sul prato di villa Certosa intonando la canzone del cuore della coppia scoppiata Silvio & Veronica: smarcatosi con uno dei suoi tipici dribbling autoriali dall’overdose di baccanali, il regista riusciva, così, a prendere ancora una volta in contropiede il controllo ideologico della storia e la leggenda del Grande Seduttore. Il secondo capitolo aumenta la pressione politica, dando a lungo l’impressione di volere correggere il tiro e dare un po’ di soddisfazione all’antiberlusconismo militante disorientato dal carnevale no-stop di sesso, droga e zingarate: prima allestendo lo show virtuosistico di Servillo/Silvio che, dopo avere dialogato con il proprio doppio, s’esibisce nel ruolo primigenio del venditore irresistibile, il rateizzatore dei sogni del minimo comun risparmiatore, il mini Citizen Kane di Milano 2; poi tornando a concedere allo stesso il ruolo del cantante piacione, l’intrattenitore irresistibile che ammalia la fauna dei applauditori pronti peraltro a trasformarsi in sicofanti o traditori a seconda della circostanza, metaforici serpenti danteschi che a un certo punto costringono il segretario tuttofare Paolo a decapitarne uno vero strisciante in primo piano.

Ma via via che il trattato visionario/antropologico Loro 2 procede, il piglio nuovamente svaria, si stempera, si sfrangia e Sorrentino torna a fare capolino appena può da un angolino dell’inquadratura per strizzare l’occhio allo spettatore e fare boccacce ai recensori: per fare solo un esempio, il languido trasporto per la Napoli canzonettistica e ruffiana provato da Silvio trasmutato in Old Pope non può che evocare dalle nostre parti la nota e non meno retorica solfa della città ribelle nel segno dell’”ammore”, quando si reca al compleanno della neo-diciottenne Noemi Letizia. Quando poi riprendono le feste più scatenate che eleganti in Costa Smeralda, alternate alle sfolgoranti coreografie kitsch sulle note di “Meno male che Silvio c’è”, al Cavaliere tocca organizzare il contrattacco contro le requisitorie in stile grillino-giustizialista che la sceneggiatura mette in bocca alla vigorosa e convincente performance di Elena Sofia Ricci/Veronica Lario. I risultati, come piace a Sorrentino, ma certo non a tutti i suoi spettatori, saranno volutamente contraddittori: sul piano storico la sinistra non riesce mai a “metterlo a fuoco” pensando che sia troppo complesso, ma la nascita delle sue fortune resta avvolta nel mistero; la virginale escort che dovrebbe concederglisi lo smonta con un pragmatismo scevro di moralistica acredine (“Io ho 20 anni e lei 70, è patetico quando fa il giovane. Lei è triste e con la tristezza non si costruisce niente, neanche una sc…..a”); i veri o falsi scoop che non danno tregua a Berlusconi sembrano generati dagli stereotipi epidermici seppur allegri ed accattivanti della commedia erotica all’italiana. Sino ad arrivare al finalissimo debitamente e apparentemente enigmatico: la quadratura del cerchio del resto, il lieto fine con messaggio incorporato non è previsto in nessun caso dal metodo sorrentiniano tutto fondato sul tentativo di smascheramento del falso ordine in cui il mondo si spiega davanti ai nostri occhi e la presa d’atto di un’ormai integrale desacralizzazione dei rapporti societari. Loro 2 è un film convulso e intenzionalmente discontinuo, a metà tra dramma e parodia del dramma, dove il regista sembra a tratti disinteressarsi dei destini dei suoi personaggi, mostrandoci le dinamiche del potere e come esso produca al contempo opportunismo, innamoramento, fascino, carisma malinconia.

Emblematica, seducente e di cocteauiana memoria (La voce umana) la scena che ci fa vedere un Silvio innamorato che cerca disperatamente la voce dell’altro, che è anche l’Italia stessa, “il paese che ama” e che ora sembra non ascoltarlo più, ovvero una spettatrice, una cliente, un’elettrice ideale da imbonire, una donna, tanto per cambiare. E poi il dialogo è un confronto tra Silvio, l’attore che vuole farsi amare solo per il bisogno della conquista, e Augusto Pallotta, il personaggio che crea sul momento per non farsi riconoscere. E, ancora, una gara tra Servillo che interpreta il milanese Berlusconi il quale, a poco a poco, comincia a parlare nel napoletano tanto caro a Servillo, senza un’apparente ragione che non sia la vocazione allo sdoppiamento di Loro, di lui, di Sorrentino.

Prendere o lasciare. Loro 2, come Loro 1 e tutta la filmografia sorrentiniana divide. La fotografia magnifica, i movimenti di macchina più eloquenti degli acuti e profetici dialoghi, giochi di luci ed ombre, la performance di Servillo che con la propria bravura esorcizza la caricatura contano sino a un certo punto. Tanto, come ribadiscono il lungo e accorato colloquio con Pagliai/Mike Bongiorno, l’apologo della dentiera fatta trovare alla vecchina terremotata dell’Aquila e il recupero del Cristo ligneo dalle macerie, il film si rifiuta di fornire altre chiavi d’accesso oltre a quella apertamente rivendicata della tenerezza e pietas rivoluzionarie per un finale apertissimo. Ecce Homo. L’Homo che sta alla base del politico, le cui passioni muovono la Storia, l’Homo che in fondo sono tutti gli italiani che sognano l’America qui.

 

Valerio Caprara

La realtà è una fake news

I social network e il web sono ufficialmente luoghi insicuri. La crociata dell’establishment contro il sistema delle cosiddette “fake news” è stata lanciata dal palco della Leopolda 8. Il frontman è Matteo Renzi ma la regia è di un certo Andrea Stroppa, ragazzetto di 23 anni che ha lavorato come capo del reparto ricerca e sviluppo di una società di consulenza, la Cys4, di cui Marco Carrai, fedelissimo del segretario del PD, era socio, supportato dalla piattaforma Buzzfeed. Peccato però che l’inchiesta – firmata a quattro mani da Alberto Nardelli e Craig Silverman – che presumeva svelare l’intreccio tra movimenti nazionalisti e populisti con una rete di siti internet rei di fabbricare e diffondere “fake news” abbia ricondotto – come ha ammesso lo stesso New York Times qualche giorno dopo – a Davide e Giancarlo Colono, proprietari attraverso le loro società con scopo di lucro ma senza alcun collegamento partitico di DirettaNews e iNews24 (con annesse pagine Facebook con milioni di “mi piace” chiuse senza preavviso dallo staff di Zuckerberg!), due quotidiani online che non pretendevano fare libera informazione ma raccogliere clic riportando (e non fabbricando!) notizie e fatti, il più delle volte, con titoli incendiari e strillati. Se ci si pensa bene non c’è nulla di sensazionalistico in tutta questa storia dato che ilclickbaiting – una tecnica per attirare il maggior numero possibile d’internauti per generare rendite pubblicitarie – viene sfruttata da tutti, persino dalle testate “autorevoli”, da Repubblica al Corriere della Sera, da Il Giornale a Libero, dal Fatto Quotidiano a La Stampa. Insomma se la legge fosse uguale per tutti oggi non potremmo più informarci in rete. Ma andiamo avanti.

La produzione di “fake news” è una questione ben più seria che va oltre il flusso statistico e diventa pericolosa quando viene inserita in un’agenda giornalistica in funzione di un’agenda politica (ad esempio l’invenzione delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein per giustificare l’intervento miltiare statunitense in Iraq oppure l’enfatizzazione dell’incremento dello spread per far cadere il governo Berlusconi nel 2011 e far insediare quello tecnico di Mario Monti). In questo caso specifico, a pochi mesi dalle elezioni politiche in Italia e, vista la vittoria di Donald Trump contro il sistema dell’informazione mainstream negli Usa, serviva una capro espiatorio – due siti apartitici con milioni e milioni di utenze – da gettare nella spirale della liquidazione coatta (di “censura” non è corretto parlarne per quanto non ci sia stata la possibilità di replica sui social) per spianare la strada ad una vera e propria strategia che mira ad arginare il dissenso mediatico camuffandola come campagna “angelica” – con il supporto di Facebook – contro le bufale. In Senato sarebbe già pronto un disegno di legge presentato dal Partito Democratico a firma del capogruppo Luigi Zanda e di Rosanna Filippin, per contrastare il fenomeno “della diffusione su internet sui social network di contenuti illeciti e delle fake news”.

Un ddl che sarebbe condivisibile oltre che legittimo se non fosse in realtà un meccanismo sofisticato di auto-celebrazione e di auto-difesa funzionale alla strategia scritta sopra oltre che a scaricare la produzione di notizie false sul web ed evitare furbescamente il mea culpa. Perché diciamocelo questi presunti “nemici della disinformazione” hanno inquinato il dibattito politico-culturale per tutti questi anni con notizie orientate, faziose, manipolate, commissionate, silenziate, copiate e incollate senza nessuna verifica della fonte. Di esempi se ne potrebbero fare all’infinito ma il fact-checking ferisce a targhe alterne, quando fa più comodo, a colpi di algoritmi studiati da nerd rinchiusi nelle università che sul campo non ci sono mai andati perché la realtà, impietosa, cruda, con tutta la sua violenza simbolica, non esiste.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

Enzo Biagi intervista Fantozzi, che ormai lo ha raggiunto, sul libro ‘Avanti’ di Renzi

Titolo della puntata di Biagi: Scrivere un libro fa di Renzi uno scrittore? Ospite il ragionier Ugo Fantozzi

Biagi: Fantozzi si segghi la prego.
Fantozzi: Chi? Ioooo?
Biagi: Sì lei Fantocci, venghi, non temi nulla, avanti.
Fantozzi: Allora mi sedio, segghio, siedo.
Biagi: Bene, allora, io sono Enzo Biagi.
Fantozzi: Megacapo direttore di qualcosa?
Biagi: Di nulla, volevo commentare con lei questo nuovo scrittore, Renzi, pubblicherà Avanti.
Fantozzi si alza.
Biagi: Ma che fa, Fantocci? Si segghi, la prego.
Fantozzi: No, vado avanti mi ha detto, no, mi sedio di nuovo allora.
Biagi: Lei lo conosce l’autore?
Fantozzi: Chi?
Biagi: Renzi.

Fantozzi: Pina aiutami ti prego.
Filini interviene: Ma certo che lo conosce, glielo dica ragioniere.
Fantozzi: Ma Ingegner Filini non mi metti in mezzo, la prego.
Filini: Ma su, avanti, glielo dichi, certo che lo conosce, e l’ha sempre votato.
Biagi fa una faccia…
Fantozzi: Votato? No no.
Biagi continua a fare una faccia…
Fantozzi: Allora sì… – poi si arrende – non mi guardi così, la prego.
Biagi: Su Fantocci, mi dica cosa pensa di Renzi. Lei è stato scrittore, Fantocci è un personaggio letterario prima che televisivo, Fantocci nasce di carta, Fantozzi è il romanzo che ha mostrato noi italiani per quello che siamo.
Fantozzi: Ridicoli?
Biagi: Tipo l’autore di Avanti. Su, Renzi è uno scrittore?
Fantozzi: Renzi è uno scrittore e lo sa perché? Perché chi scrive dice cose vere, anche se forse mai accadute, Renzi fa uguale. Racconta, dice cose giuste, poi non le fa, o le fa diverse, o male, o anche le fa come aveva detto, questo è il punto che lo rende simile a me: dice, ma che poi faccia dopo o abbia fatto prima, non conta più.
Biagi: Quindi sarebbe simile a Fantocci?

Fantozzi: Esatto, all’italiano Fantozzi. Fantozzi vorrebbe essere più di quel che è, sia umanamente che lavorativamente, ma è egli stesso causa di ciò che è, ha sposato Pina, ma chi lo obbligava? Si lamenta del posto di lavoro ma perché non lo cambia? L’italiano non cambia anche quando può, finora almeno è andata così. Per questo siamo un popolo che merita e vuole uno scrittore al potere.
Biagi: Ma non capisco, quindi lo stima o no come scrittore?
Fantozzi: Ho detto che è uno scrittore che è italiano come me e gli altri e che gli italiani ne ridono per condivisione, non per estraneità. Renzi e Fantozzi sono la stesa cosa.
Biagi: Quindi cosa direbbe oggi Fantozzi a Renzi?
Fantozzi: Gli direi che alcune proposte del suo passato governo erano… delle cagate pazzesche!

92 minuti di applausi da parte di Biagi.

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