Dalla paranoia di ‘Gravity’s Rainbow’ di Pynchon alla dietrologia di ‘Underworld’ di DeLillo

Quasi venticinque anni trascorrono tra la pubblicazione di Gravity’s Rainbow (1973), il romanzo che ha consacrato Thomas Pynchon a scrittore canonico del postmodernismo americano, e quella di Underworld (1997) di Don DeLillo, a tutt’oggi considerata l’ultima grande epica americana, una vera e propria “biografia culturale” come la definisce Joseph Dewey.

Questo lasso di tempo ha visto svilupparsi negli Stati Uniti la teoria e l’estetica postmoderna in diversi ambiti culturali come la letteratura, l’architettura, l’economia, la filosofia e le scienze sociali. Il romanzo americano, che negli anni Sessanta e Settanta era spesso caratterizzato da una forte autoriflessività metaletteraria, intorno agli anni Ottanta comincia a orientarsi verso il ritorno a un nuovo tipo di realismo, nonché a una rinnovata attenzione nei confronti della trama.

Il postmoderno di Pynchon e DeLillo

Pynchon e DeLillo rappresentano due diverse anime del fenomeno postmoderno, tuttavia i romanzi in questione, pur presentando caratteristiche di struttura, stile e ambientazione temporale piuttosto differenti, condividono non soltanto una mole enciclopedica di contenuti e personaggi, ma soprattutto alcuni nodi strutturali e tematici fondamentali.

In maniera diversa entrambi presentano la cospirazione come sistema di organizzazione della trama – storica, politica o letteraria – e mettono in scena la paranoia che scaturisce dal tentativo del soggetto di rintracciare tutte le possibili connessioni tra eventi disparati per arrivare a una visione unitaria e non contraddittoria della storia. In entrambi figurano personaggi paranoici sia nei confronti della situazione storico-politica in cui vivono, sia, in certa misura, nei confronti della propria condizione individuale.

La possibilità che “tutto è connesso” informa in uguale misura tutte e due le opere; in Gravity’s Rainbow, ambientato alla fine della seconda guerra mondiale nella Londra devastata dai bombardamenti e nella Germania dell’immediato dopoguerra, la possibilità di complotti e connessioni paranoiche pressoché infinite non viene mai del tutto confermata ma rimane un pensiero soggettivo, che si ripiega su se stesso nel testo e nella scrittura, tanto da poter essere ascritto a patologia individuale.

In Underworld, invece, ambientato principalmente nel periodo successivo alla guerra fredda, la paranoia è ormai diventata una patologia nazionale, una realtà quotidiana inevitabile e incontrovertibile, assimilata alla vita di tutti i giorni in maniera silenziosa ma sintomatica.

Ciò avviene perché nei venticinque anni che trascorrono dalla pubblicazione del romanzo di Pynchon a quello di DeLillo avviene un significativo cambiamento nell’immaginario culturale americano. Un’analisi comparata del trattamento riservato alle costruzioni cospiratorie nei due romanzi testimonia il passaggio da una paranoia relativamente “stabile”, basata su un rigido sistema binario di coalizioni e
ideologie nettamente contrapposte – Stati Uniti/Russia, Occidente/Oriente, democrazia/comunismo, o più semplicemente Noi/Loro – a una paranoia insicura e globale, interna anche alla nazione oltre che proiettata verso un comune nemico esterno, alimentata dalla nuova realtà economica delle multinazionali e dalla frammentazione del soggetto e della realtà propria del periodo. Una paranoia che dubita persino di se stessa, che oscilla tra serietà e autoironia, che non riesce mai a prendersi sul serio ma che provoca un significativo cambiamento nei costumi sociali della nazione.

Questo atteggiamento si riflette nella struttura dei romanzi scritti in questo periodo. Peter Knight, teorizzando ciò che molti scrittori postmodernisti avevano cultura della cospirazione”, un reciproco e fecondo scambio tra realtà storica e fiction:

Emerge un reciproco loop di rimandi tra mondo finzionale e mondo reale, con vere spie che imparano il discorso della cospirazione dai romanzieri e viceversa. Più in generale, il fascino per le cospirazioni nell’intrattenimento assorbe e rafforza l’atmosfera di segretezza che struttura la politica americana, generando quella che si può chiamare una “cultura della cospirazione”.

Gravity’s Rainbow e Underworld: due capolavori a confronto

I primi romanzi di Pynchon, come V. (1963), The Crying of Lot (1966) e lo stesso Gravity’s Rainbow, al pari di alcune opere di DeLillo come Running Dog (1978), The Names (1982) e soprattutto Libra (1988), possono essere considerati i romanzi della “grande era della paranoia americana, l’era cominciata subito prima degli omicidi Kennedy/King e svanita da qualche parte nei primi anni Novanta”. Ma
nonostante ciò è possibile rintracciare un’evoluzione nella concezione della paranoia nazionale anche attraverso le opere di uno stesso scrittore: “Nei dieci anni tra il primo e il terzo romanzo di Pynchon, le teorie cospiratorie sono cambiate da stile politico bisognoso di una spiegazione a necessaria e autocosciente assunzione di partenza per la controcultura”.

Al contrario, le opere di entrambi gli autori scritte negli anni Novanta si potrebbero definire “romanzi post-paranoici”. Confrontando Underworld di DeLillo a Mason & Dixon di Pynchon, entrambi pubblicati nel 1997, Michael Wood afferma:

Mentre il romanzo di Pynchon è un lungo, circolare addio all’idea di cospirazione, quasi all’idea di narrativa, quello di DeLillo esplora l’eredità della cospirazione o, più precisamente, un mondo privo di cospirazione, in lutto per la scomparsa del senso minaccioso e costrittivo dato dai vecchi segreti.

Il dibattito politico-culturale sulla paranoia è stato inaugurato negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta dal saggio pionieristico di Richard Hofstadter “The Paranoid Style in American Politics”. L’influente critico identificava come elemento ricorrente nella politica americana un patologico “stile paranoico”, descrivendo le conspiracy theories popolari come rappresentazioni pericolose e distorte di eventi storici dovute al “singolare salto di immaginazione che viene sempre effettuato in un punto critico della narrazione degli eventi”. Hofstadter considerava la paranoia come l’ultima risorsa di coloro che si trovano ai margini dei sistemi di potere per rendere conto di eventi e situazioni politiche la cui causa non riuscivano a spiegare attraverso “ i normali processi politici di scambio, negoziazione e compromesso”.

Superando la logica binaria di Gravity’s Rainbow – il quale, ambientato alla fine della seconda guerra mondiale, drammatizza nella struttura e nelle tematiche la nascita della divisione bipolare che porterà alla guerra fredda – Underworld mette in scena la transizione, nella cultura americana, dalla nevrosi di una fede monolitica e inflessibile in complotti universali a uno stato costante di paranoia contraddittoria, ironica e autoriflessiva che utilizza il linguaggio popolare delle Conspiracy theories per recuperare un perduto senso di soggettività in un’epoca, come quella postmoderna, governata da sistemi la cui complessità travalica qualsiasi attribuzione di agency o responsabilità individuale.

La “pallina bianca sullo schermo” che i lettori/spettatori alla fine di Gravity’s Rainbow sono invitati a seguire mentre intonano “tutti insieme” le parole di una canzone – tristemente profetica – che parla della “luce che abbatté le Torri” (968), colpita dalla mazza da baseball di Thomson raggiunge in Underworld la punta più alta del suo arcobaleno, durante l’ultimo genuino evento pubblico americano. Subito dopo entra a far parte della sfera privata, si perde nella storia sotterranea dell’ultima metà del secolo e non è più rintracciabile se non a fatica e in maniera parziale o superficiale.

La dimensione paranoica pubblica e quella dietrologica privata convergono alla fine del romanzo nell’unica parola forse in grado di tenere insieme la trama della storia e della narrazione nell’iperspazio virtuale della postmodernità.

 

Paolo Simonetti

 

Rorty e l’ironia liberale: tra decostruzionismo e postmodernismo-riflessioni filosofiche

Per alcuni aspetti la filosofia della scrittura di Derrida presenta alcune assonanze con quella dell’ultimo Wittgenstein, con il quale concorda sul fatto che il significato delle parole dipende da come queste sono scritte e pronunciate, crede che il modo di capire noi stessi e il nostro linguaggio cambino con il passare del tempo. Una delle parole di Derrida è différance, differanza, ogni cosa è diversa da ogni altra e nessuna parola usata due volte mantiene lo stesso significato. Derrida decostruisce le teorie classiche e fondazionali della filosofia, da Platone ad Heidegger, sino allo strutturalismo. È il decostruzionismo.
Anche Derrida non confida in un linguaggio unico e con Rorty considera la filosofia un genere di scrittura come altri, ma la pratica decostruttiva di Derrida è radicale (tanto che un filosofo come Feyerabend lo definisce un ottenebratore).

Derrida può richiamare alla memoria l’ultimo Wittgenstein, quello dei giochi di parole, ma è egli stesso a prendere le distanze da quest’ultimo paradigma possibile. Derrida definisce i suoi esercizi di scrittura non giochi di parole ma fuochi di parole, per bruciare i segni sino ad incenerirli, in modo che possano essere usati una sola volta. Si tratta di allontanarsi dalla filosofia intesa come logocentrismo, dal primato della logica.
Ne La pharmacie de Platon è ripreso il mito proposto da Platone nel Fedro, ove attraverso il mito di Thamus e Theuth (il dio Theuth offre il dono della scrittura al faraone Thamus che rifiuta, preferendogli la parola), si attua il rifiuto della scrittura per inaugurare quello che sarà un motivo dominante della filosofia occidentale: il logocentrismo, o metafisica della presenza.
Per Derrida la parola come presenza, come suono, ha dominato la filosofia e la cultura occidentale in contrapposizione alla scrittura, che invece produce negazione della presenza, assenza. Mentre la parola si connette direttamente all’anima, la scrittura è sconnessa e indiretta, risulta poco riconoscibile persino a colui che l’ha prodotta. Derrida si riferisce a un parricidio da parte del testo nei confronti del suo autore.
La parola come voce, fonema è la coscienza stessa e la scrittura gli si contrappone.

L’écriture non lascia nulla oltre i propri margini, non vi sono significati primi da raggiungere attraverso di essa, perché essa è l’unica realtà e ciò che può fare è compiere un’opera di disseminazione dei significati. C’è la distinzione tra libri, espressione della voce dell’autore, e testi, irriconoscibili e neutrali.
Dati questi sviluppi del percorso derridiano viene spontaneo riconoscere una presa di distanza dalla concezione heideggeriana dei fonemi come parole magiche epocali, ma ciò non significa che la proposta di Derrida non sia per Rorty ancora fondazionalista, portandoci dalla parola come presenza alla scrittura dell’assenza. E anche Derrida dissemina il suo cammino intellettuale di parole pesanti come differanza, decostruzione, disseminazione, traccia.

Nel caso del neologismo différance (non différence) avviene in maniera apparentemente casuale e attraverso una ricerca sui termini originali in latino (differre) e greco (diapherein). Sicché différance indica la differenza comunemente intesa, ma anche (dal latino) il differire temporalmente, il rinviare. Dunque un termine spazio-temporale e non precisamente un concetto. Questa differanza indica l’assenza della presenza, il fatto che si usi un segno che sta a indicare la disconnessione spazio-temporale tra esso e la cosa indicata, una presenza rimandata, differita. Così Derrida intende i segni come distanti sia dall’idea scientifica di “segno corrispondente a”, sia dal profondismo heideggeriano del fonema magico. Dunque l’origine è sempre elusa, sta da un’altra parte, non ricongiungibile al segno. Ciò che rimane è la traccia dell’origine perduta, non l’origine stessa.
A sfavore delle argomentazioni non metodiche di Derrida, Rorty sostiene l’impossibilità di un superamento della metafisica continuando a discuterne. Difficile confrontarsi con la metafisica senza prenderne in considerazione i temi, legittimandoli una volta in più.
Oltre a questo Rorty non comprende in che modo termini come différance o trace potrebbero riuscire laddove dasein o aletheia hanno fallito e fa notare come questi termini non assomiglino ai giochi di parole di Wittgenstein e siano diventati termini normali anche nei dipartimenti accademici di filosofia.

Allo stesso tempo i testi derridiani rischiano di porsi nei confronti del lettore come dei codici indecifrabili, entità vagamente minacciose e indomabili. E vi è persino la proposta derridiana, mutuata da Antonin Artaud, di concepire le parole scritte alla maniera dei geroglifici egizi. Il geroglifico come origine che rifiuta qualsiasi altro segno, nel consueto rapporto tra segno e significato e che difende la fisicità del linguaggio.
In generale, per Derrida, si fa strada l’esigenza di non imporre una teoria interpretativa per dominare il testo, meglio lasciare che sia questo a dominare noi e a suggerire come avvicinarci ad esso. Su questo, da propugnatore del linguaggio d’uso, Rorty propone un paragone provocatorio e abbastanza efficace, sostenendo che sarebbe come se l’uso che facciamo del cacciavite, avvitare le viti, fosse imposto dal cacciavite stesso.
Inoltre, per Rorty decostruire la metafisica è compito sostanzialmente inutile.

La proposta rortiana è quella di non affannarsi a epurare la cultura da termini come metafisica, anima, mente, linguaggio, realismo, idealismo ma di continuare a farne uso, senza per questo drammatizzarli e farne delle ipostasi. Al massimo possiamo dimenticare, pensare ad altro.
Rorty segue l’evoluzione degli scritti di Derrida e nota come questi talvolta sia vicino alla realizzazione del superamento, laddove i suoi testi assumono come toni dominanti l’enigmaticità e lo scherzo e, dunque, l’alleggerimento, come ad esempio nella Carte Postale (Envois).

Habermas, nel suo Discorso filosofico della modernità, pone Derrida tra i neonietzschiani e postmoderni assieme a Rorty, Lyotard e Foucault.
A lato, la questione del postmodernismo in filosofia è posta con la Condizione postmoderna di J. F. Lyotard; in quest’opera si osserva come i diversi saperi non trovino più un collante comune in una qualche metanarrazione condivisa universalmente.
Del moderno non si accettano: visione globale del mondo, legittimazioni filosofiche, fiducia nel corso progressivo della storia in vista dell’attuazione di idee, metalinguaggi, saperi fondazionali; vi sono invece la consapevolezza dell’esistenza di una società complessa e plurale, l’amore per il citazionismo e una concezione ristagnante del tempo.

Molti postmoderni paiono confidare in una dimensione laterale, un’essenza decorativa e perifericache lascia tracce della propria evanescenza. Un’esistenza rimandata a un momento che non verrà, come per la différance derridiana.
Rorty da parte sua usa poco il termine postmodernismo, considerandolo oramai abusato e poco utilizzabile. In particolare i suoi dubbi non possono che derivargli da quel proposito di andare oltre la storia, che deve sembrargli un altro trucco per evocare criteri astorici per la risoluzione di problemi filosofici.

Rendere più labili le frontiere tra la scienza e l’arte non ha lo scopo di porre fine a entrambe a vantaggio di un brodo primordiale indifferenziato. Rorty non intende scrivere da una dimensione parallela a questa, di questo preciso momento storico. Il desiderio è quello di mettere in relazione le diverse discipline e poter vivere in un mondo in cui ogni persona sia libera di ricrearsi attraverso il proprio linguaggio.

 

https://www.riflessioni.it/angolo_filosofico/rorty-06-decostruzionismo-postmodernismo.htm

‘Underworld’: il capolavoro di Don DeLillo, un viaggio nella storia contemporanea

Underworld è un romanzo del 1997 dello scrittore statunitense Donald Richard DeLillo, meglio conosciuto come Don DeLillo (Americana, Rumore bianco, Libra, Mao II, Body art, Cosmopolis) e considerato da molti il suo capolavoro. Questa la sinossi del libro: “Il 3 ottobre 1951 presso il Polo Grounds di New York si gioca una leggendaria partita di baseball tra i Giants e i Dodgers. Della palla con cui viene battuto l’altrettanto leggendario fuoricampo che assicura la vittoria del campionato ai Giants si impadronisce un ragazzino nero di Harlem Cotter, Martin. Ritroveremo la palla cinquant’anni dopo in possesso di Nick Shay Costanza un dirigente dell’industria dello smaltimento dei rifiuti che nel 1951 era a sua volta ragazzino un passo più in là, nel Bronx. Nel romanzo di DeLillo i passaggi di mano della mitica palla servono da pretesto per la costruzione di un gigantesco quadro dell’America dalla guerra fredda fino alla crisi di Cuba e al crollo dell’Unione Sovietica”.
Un capolavoro, un romanzo surreale, umoristico, lirico, evocativo, iperrealistico ma non apocalittico, come potrebbe erroneamente pensare qualcuno.

Underworld: trama e contenuti del romanzo

Underworld non è altro che un’analisi soggettiva della storia americana dagli anni ’50 fino al 1989, analisi intrapresa da Don DeLillo attraverso sofisticato quanto brillante ed efficace éscamotage, ossia quello della pallina da baseball, che è lo sport nazionale popolare per eccellenza negli Stati Uniti d’America, che unisce e che divide, perenne espressione di un collettivo, cone in Europa è il calcio; una pallina che dopo il fuori campo di una partita passata alla storia (quella del 1951 che coincide con l’inizio della guerra fredda) finisce nelle mani di un ragazzo di colore per poi passare ancora di mano in mano, di persona in persona.

In questo modo Don DeLillo costruisce la sua narrazione della storia americana dall’inizio della guerra fredda sino alla caduta del muro di Berlino, facendo di Underworld un complesso affresco storico e sociale che serve all’autore per raccontare la “vera” storia americana di quel periodo, fatti di singoli fatti e singole persone che però formano un unico grande mosaico. De Lillo è ironicamente pessimista e nostalgico, ma non vuole lanciare nessu messaggio ai lettori, si affida semplicemente alla storia e invita noi a fare altrettanto, per riflettere e pensare a ciò che siamo e ciò che siamo stati, lasciandoci con un interrogativo: è preferibile vivere in una società dove gli ideali (qualsiasi essi siano) hanno un peso e contribuiscono a tenere unito un popolo oppure in una società dove gli uomini sono privi di ideali e speranze e soli, abbandonati a loro stessi?

Underworld è tra gli esempi più validi e fulgidi del postmodernismo, che con la sua lucida narrazione della perdita di identità sociale dell’americano medio, ci mostra come, mancando un polo di qualunque dicotomia , anche l’altro perde di significato; tradotto concretamente: abbattuto il muro di Berlino e crollata l’U.R.S.S., estirpato il male, l’America non si sente più in dovere di ergersi a paladina del bene e gli americani non si sentono più tanti piccoli eroi la cui missione è combattere il male, in virtù della loro nazionalità. Ora gli americani sono soli, singole unità in un mare di possibilità e opportunità, di scelte.

Vengono dunque a mancare valori sino ad allora indiscutibili come la patria, il nazionalismo, il comune senso del dovere e se ne acquisiscono degli altri: l’individualità, il senso privato di giustizia, il relativismo selvaggio. Emergono tutti i vizi degli umani una volta celati dalla confortevole coperta del nazionalismo. La società occidentale è guasta, non funziona più, è disgregata di fronte e non può più venire a capo della questione contrapponendo su scala mondiale bene e male come un tempo. La questione adesso è tutta interna; l’uomo non riconosce più valori che in passato erao considerati fondanti. Cosa dà un senso alla vita dell’uomo smarrito? Il baseball, l’unico valore rimasto a una società degradata per mancanza di stimoli, un nuovo modo di concepire la guerra. Il baseball che unisce e divide.

Ed ecco che l’uomo guidato da intenti puramente egoistici, dimentica di nuovo cosa vuol dire far parte  della stessa nazione e della stessa squadra, e combatte con il suo vicino, considerato un nemico da colpire. DeLillo ci mostra l’eterno dilemma dello sport che accomuna e dissocia gli uomini.

Stile e linguaggio

Underworld è un testo universale che rende consapevoli della nostra disumanizzazione, tematica cara a Don DeLillo, che individua un parallelismo tra un sistema di produzione ipertrofico e uno stile di vita smodato, proteso alla vana gloria, schiacciato dalla paura della morte (non a caso il prologo del libro si intitola Il trionfo della morte, in riferimento al celebre dipinto di Bruegel che è sulla pagina di una rivista pubblicitaria rimasta appiccicata sulla spalla del direttore dell’FBI). Tante riflessioni dunque, incastonate in flussi di coscienza per un’opera prolissa e frammentario, ricco di flashback, un’opera, ad onor del vero, non alla portata di tutti, la quale necessita di tanta pazienza e calma per essere compresa.

DeLillo cura i dettagli per una narrazione molto cinematografica con sequenze rovesciate, visioni surreali, immagini precise, la quale si avvale di una grande varietà di linguaggi (dal lirico al postmoderno), multirazziali, e di personaggi, sempre ben definiti: da Nick Shay a suor Edgar con le ossessioni maniacali per la pulizia passando per i bambini del Bronx, e gli abitanti del Muro (ci sono anche Frank Sinatra che assiste alla parte insieme al conduttore comico Gleason, al direttore dell’FBI Hoover e al quattordicenne ragazzino di colore Cotter Martin che è riuscito ad entrare nello stadio senza biglietto), che viaggiano a metà tra realtà e sogno tra Bronx e quartieri alti, tra New York e il Deserto dell’Arizona, tra gli esclusivi party al Plaza e cumuli di rifiuti. In ogni pagina di Underworld si respirano le paure, le ansie e le contraddizioni della nostra epoca, sentimenti e stati d’animo che scaturiscono dalle miserie umane nelle quali è impossibile non riconoscersi. Inquietante e profetica la copertina del libro che raffigura le Torri Gemelle del World Trade Center di New York avvolte da una nube di fumo, una croce davanti e un’aquila, simbolo dell’America, che vola di lato. Immancabile anche in quest’opera, come nelle precedenti di DeLillo, del resto, la teoria del complotto che però qui acquista una nuova profondità, diventa paranoia: Nick è l’uomo postmoderno, senza futuro, con una storia che non sa decifrare. Apparentemente la teoria del complotto gli offre una l’occasione di dare un significato alla propria vita, alla sua condizione di marito e padre infelice e di ricco analizzatore di rifiuti e di casuale possessore della pallina.

Da antologia le pagine che descrivono il passaggio di mano in mano della pallina da baseball e la lotta tra gli esseri umani per accaparrarsela, un’avvincente e minuziosa telecronaca:

La palla rotola all’aperto seguendo un percorso minuziosamente tortuoso. Il gesto della sua mano è vecchio come lui. Deve averla allungata repentinamente verso una cosa o l’altra fin dall’istante in cui è uscito dalla culla. Tutto quello che sa è contenuto nelle dita allargate di quest’unica mano incurvata. Il cuore, il mio cuore. L’intera battaglia sotto il sedile è durata solo qualche secondo. Adesso Cotter sta rinculando, si sta muovendo precipitosamente – ha preso la palla, la sente calda e ronzante nella mano. Percepisce vagamente la gente che lo lascia passare brontolando, lo lascia passare ma senza fretta, facce qualsiasi con gli occhi spenti. La palla trasuda il calore e il sudore della mano del rivale. Cotter tiene il braccio a penzoloni e cerca di togliersi qualsiasi espressione dalla faccia, più spaventato adesso di quando ha saltato il tornello ma deciso a sembrare freddo e indifferente mentre scende di fila in fila scavalcando gli schienali, insinuandosi tra corpi estranei e camminando sui sedili quando gli conviene. Guardate gli uscieri dello stadio che chiudendosi vicendevolmente le mani intorno ai polsi fanno un seggiolino per la vittima dell’attacco cardiaco e lo sollevano portandolo al pronto soccorso sotto le tribune. Un’occhiata alle sue spalle, si concede un’occhiata e vede il rivale che si sta rialzando. È un uomo che non passa inosservato, stazza pesante e  camicia bianca, non lo studente, come aveva creduto, il ragazzo con il giubbotto del  college che aveva incominciato a contendergli la palla.

 

Come sono vibranti le ultime pagine di Underworld che lascia un finale in sospeso, opponendo alla fredda parola “cyberspazio”, quella piena e strutturata di “pace”:

E puoi guardare fuori dalla finestra per un attimo, distratto dal rumore dei bambini che giocano un gioco inventato nel cortile di un vicino, una specie di kickball forse, e parlano la tua lingua, o corrono a cavalluccio sul prato incolto,  ed è la tua voce che senti, essenzialmente, sotto il cielo dallo splendore vitreo, e guardi gli oggetti nella stanza, fuori dallo schermo, fuori dalla rete, la grana del legno della scrivania viva nella luce, il tenore denso e vissuto delle cose, le cose che chiedono di essere viste e mangiate, il torsolo della mela che si scurisce a un color seppia sul vassoio del pranzo, e le dense misure dell’esperienza in una sola occhiata casuale, la candela riflessa nella curva del telefono, le ore segnate in numeri romani, e la patina della cera, e le volute del vimini intrecciato, e l’orlo sbreccato del boccale che contiene le tue matite gialle, tutte di traverso, e le vite stratificate della più semplice delle superfici, il burro spalmato che si scioglie sul pane sbriciolato, e il giallo del giallo delle matite, e tenti di immaginare la parola sullo schermo materializzarsi nel mondo, assumere tutti i suoi significati, il suo senso di serenità e contentezza fuori nelle strade, in qualche modo, il suo sussurro di riconciliazione, una parola che si protende all’infinito, il significato di accordo o trattato, il significato di riposo, il senso di silenzio calmante, il significato di salve o addio, una parola che porta con sé la luce ardente di un oggetto nel mezzogiorno assolato, il valore del tocco che unisce, ma è solo una sequenza di impulsi su uno schermo un po’ tetro, e la sola cosa che riesce a fare  è renderti pensieroso – una parola che diffonde un desiderio attraverso la distesa viva della città e oltre i ruscelli sognanti e i frutteti, fino alle colline solitarie.

Pace.

“Siamo i rifiuti che produciamo”

In Underworld si parla di smaltimento di rifiuti: i rifiuti e gli scarti riciclabili (di derivazione domestica o nucleare) sembrano essere al centro di una reiterata celebrazione, Klara Sax che trasforma i rottami dei B-52 in opere d’arte, le Watss Towers, suor Hoover che si occupa di recuperare relitti umani scartati da tempo dal consorzio civile, lo stesso Nick Shay, che utilizzandolo e riutilizzandolo si ritrova a testimoniare 50 anni di storia americana, quanto a quella compiuta da Pynchon ne L’arcobaleno della gravità, dove la morbosa danza compiuta intorno all’atto dell’escrezione si inserisce in un complesso schema di rapporti, dove gli escrementi sono elemento di unione l’uomo e il mondo animale, oggetti di pervesioni sessuali, simbolo di fobie e odi razziali, protagonisti di inquietanti apparizioni e visioni fantastiche che non possono non richiamare alla mente Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini che mostra l’invasione della mercificazione dei corpi e del sesso sotto le mentite spoglie di una apparente libertà.

In una società che va sempre più alla deriva, imperniata sul “democratico” consumismo, noi non siamo più ciò che produciamo ma neppure ciò che consumiamo, diventiamo i rifiuti che creiamo. Siamo spazzatura, ma non c’è altra scelta, se non consumiamo, moriamo:

Lasciate che la gente la veda e la rispetti. Non nascondete le vostre strutture. Create un’architettura fatta di immondizia. Progettate fantastiche costruzioni per riciclare i rifiuti e invitate la gente a raccogliere la propria spazzatura e a portarla alle presse e ai convogliatori. Così imparerà a conoscere la propria spazzatura. Il materiale a rischio, i rifiuti chimici, le scorie nucleari, tutto questo diventerà un remoto paesaggio all’insegna della nostalgia. Gite in autobus e cartoline, posso garantirlo.

Sims non era sicuro che questa tirata gli andasse a genio.

Che tipo di nostalgia?

Non bisogna sottovalutare la nostra capacita di provare desideri complessi. Nostalgia per i materiali della civiltà messi al bando, per la forza bruta di vecchie industrie e vecchi.

 

 

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