‘Perversione’ di Yuri Andrukhovyc, la versione postmoderna di Morte a Venezia

Perversione dello scrittore ucraino Yuri Andrukhovyc (Del Veccio editore) è un libro su come gli ucraini dissero addio all’impero sovietico.

Lasciatevi trasportare in una Venezia vista con occhi diversi, immergetevi nella lingua e nei tanti e diversi stili, resi anche graficamente, utilizzati dall’autore per raccontare una storia misteriosa, una storia d’amore, una “buffonata” che solo durante il Carnevale è possibile. Pensate che il libro fu scritto nel ’95 a mano, e anche le particolari trovate sono state create dall’autore durante la stesura. Raccontarne la trama è complesso, per questo motivo potete leggere le interviste o recuperare le dirette degli eventi per scoprirne di più. Si è parlato tanto di autore da Nobel, io mi fiderei e inizierei a leggerlo a scatola chiusa!

«Perversione è una versione postmoderna di Morte a Venezia: ha una struttura complessa, un’abbondanza di temi, sottotrame ed elementi narrativi, e soprattutto una passione quasi barocca per il linguaggio.»

Berlin International Literature Festival

Quale è stato il destino di Stanislav Perfetsky, poeta, provocatore ed eroe della cultura underground ucraina. Le prove indicano il suicidio. Ma alcuni sussurrano di un omicidio. Alcuni fanno discretamente riferimento alla grande tradizione dell’Europa orientale del suicidio forzato. Potrebbe forse essere legato a una cerimonia del culto religioso in cui è incappato a Monaco o al lavoro come ballerino in uno strip club per donne anziane. Oppure niente di tutto questo.

Perversione ricostruisce gli ultimi giorni di Perfetsky usando un groviglio di indizi, documenti ufficiali, interviste registrate, appunti lasciati su pezzi di carta appallottolati. Perfetsky, la personificazione del superuomo artistico ucraino, ha usato la sua magistrale abilità musicale in una collaborazione con Elton John durante il soggiorno segreto della pop-star in Ucraina e per questo è diretto a Venezia per partecipare a un seminario per salvare il mondo dalla perdita di senso. Il suo viaggio lo trasforma in un novello Orfeo, un Orfeo ucraino che discende nella decadenza dell’Occidente barcamenandosi tra avventure surreali e gli argomenti non meno surreali del seminario a cui attende. Ma l’uomo/artista incede a testa alta verso il suo destino fedele al proprio ruolo e incurante dell’assurdità che lo circonda e che in qualche misura si trova ad incarnare.

L’Ucraina è nel mezzo di una tragedia, ma l’autore ritiene che la grande Letteratura sia possibile con un approccio nel contempo umoristico e tragico. In particolare, se parliamo di Letteratura di guerra ci sono esempi come Il buon soldato Sc’vèik di Jaroslav Hašek o molte pagine di Remarque che sono piuttosto divertenti. Andrukhovyc è al contempo serio e spiritoso e  mostra come sia utile per l’Ucraina avere un distacco umoristico, senza il quale non sopravviveremmo.

Juri Andruchovič è nato nel 1960, a Ivano-Frankivs’k, Ucraina. È romanziere, poeta, saggista. Considerato autore di culto in tutta l’Europa centrale, è stato attivista del movimento democratico del Maidan e ha partecipato attivamente alla Rivoluzione Arancione. Nel 1985 ha co-fondato il gruppo poetico Bu-Ba-Bu (Burlasque-Parodia-Buffoneria) con Oleksandr Irvanets e Viktor Neborak. Fin dagli inizi della sua attività poetica e narrativa ha ottenuto numerosi riconoscimenti tra cui i più recenti sono il Premio per la Pace Remarque nel 2005 e il Premio Hannah Arendt nel 2014. È membro della Deutsche Akademie fur Sprache un Dichtung, l’Accademia tedesca di lingua e letteratura.

Tondelli, il rifiuto di ogni ideologia

Pier Vittorio Tondelli muore di AIDS nel 1991 a soli 36 anni ed è stato scrittore prolifico e famoso, viaggiatore instancabile ed acuto osservatore delle mode e dei costumi degli anni ottanta. E’ ancora difficile fare un bilancio obiettivo sulla sua opera. Tondelli esordisce nel 1980 con “Altri libertini”, sequestrato per oscenità e poi assolto con formula ampia.

Il processo giudiziario e la straordinaria novità del libro lo portano al successo, vende 200000 copie. Tondelli diventa così, senza volerlo, lo scrittore di una generazione, quella del settantasette. Con il suo primo libro riesce a dare voce a gay, travestiti, drogati e studenti fuori sede.

Nel suo secondo libro “Pao Pao” invece tratta di una caserma di soldati, delle loro peripezie sotto la naia. Mette in luce sia il cameratismo tra commilitoni che il nonnismo. Infatti Tondelli stesso dichiarò che sotto naia vige “una giustizia tribale e assoluta, tollerata dalle gerarchie che fingono di non vedere, finché non scappa il morto”. In tutta l’opera si nota il contrasto tra l’istituzione (con le sue pratiche burocratiche e le sue norme rigide) e la spontaneità dei ragazzi.

Anche in un altro suo romanzo “Rimini” il punto di vista è collettivo, come nei precedenti. Tondelli vuole mettere in mostra “la carnevalata estiva” della riviera romagnola. Le storie dei ragazzi si intrecciano nella notte. Nonostante il continuo ribaltamento del giorno con la notte, le trasgressioni, il sesso nessuno di loro troverà quel qualcosa di cui è alla ricerca. Nel suo ultimo romanzo “Camere separate” non abbiamo il dinamismo dei precedenti. Si tratta infatti di un libro intimista, in cui prevalgono lo scoramento e la solitudine del trentenne Leo. Il protagonista cerca di rielaborare il lutto del suo compagno Thomas.

Un aspetto che contraddistingue Tondelli rispetto a molti altri della sua generazione è il rifiuto di ogni ideologia. Forse è per questo motivo che nonostante il successo editoriale e le opinioni benevole della critica più avanzata non gli è mai stato conferito un premio letterario. “Linea d’ombra” e il Gruppo 63 sottovalutarono sempre il suo talento. Diversi critici hanno esaminato l’opera omnia di Tondelli. Tra questi spicca il gesuita Antonio Spadaro, fondatore di Bomba Carta, che ha notato l’apertura alla trascendenza ed una spiccata sensibilità religiosa nella seconda produzione di Tondelli.

Già Bonura aveva intuito questo lato religioso dello scrittore di Correggio. Un dato di fatto incontestabile della religiosità di Tondelli è ad esempio l’intervista a Carlo Coccioli. Si può essere d’accordo o meno, ma il lavoro di Antonio Spadaro merita rispetto: ha passato sette anni della sua vita a leggere tutto quello che Tondelli aveva scritto. Ha letto anche tutti i suoi appunti, tutte le sue annotazioni diaristiche, tutti i libri che aveva letto Tondelli. Ha sentito tutti i suoi amici e conoscenti.

Un altro aspetto innovativo di Tondelli è la mancanza di ogni accademismo. Nella maggior parte dei suoi libri adotta il gergo giovanile. Tondelli non è libresco, il suo stile è antiletterario. Ma d’altronde- viene da chiedersi- in base a quali valori si giudica la letterarietà di un testo? In base forse ai canoni estetici, ormai antiquati, che furono ad esempio di Pascoli? Uno dei punti fermi di Tondelli è la narrativa di Silvio D’Arzo, che nella sua breve esistenza scrisse “Casa d’altri” e “L’aria della sera”. Silvio D’Arzo, anch’egli emiliano, negli anni’20 ha uno stile originale, antinaturalista e minimalista, agli antipodi rispetto al verismo piccolo-borghese tanto in voga all’epoca. Ma ritorniamo a Tondelli.

A questo aspetto si aggiunga lo stile postmoderno di Tondelli, per cui nelle sue pagine si trovano brani di canzoni rock, citazioni letterarie, esclamazioni dialettali, musica pop, cinema americano, beat generation. Ma non è tutto. Tondelli cerca il ritmo della frase, che deve possedere una sua musicalità. Tondelli è maestro di quella che lui chiama “la letteratura emotiva”. Tramite questo ritmo del linguaggio parlato riesce a catturare il lettore, a fargli leggere tutto d’un fiato la pagina scritta.

La tematica centrale dei libri di Tondelli è la fuga, l’emancipazione dalla provincia asfittica. Lo scrittore scrive che l’unico modo di uscire dalla Peyton Place della provincia è Kerouac. Infatti i protagonisti giovanili dei suoi racconti girano tutta l’Europa: Londra, Berlino, Amsterdam, Barcellona. Ma sono fughe a breve termine, una sorta di “mordi e fuggi” per poi ritornare alla tanto maledetta provincia. D’altronde a queste piccole evasioni c’è solo un’altra alternativa: quella del weekend postmoderno, che in fondo è una pseudo libertà.

Oltre alle opere letterarie abbiamo anche l’attività editoriale di Tondelli. Con il progetto “Under 25” seleziona i racconti della nuova generazione. Sceglie quelli che lui definisce gli scarti che si discostano dalla norma. Li riunisce in quattro categorie: testi intimisti, generazionali, di genere, sperimentali. Tra gli autori di questi racconti prescelti, Silvia Balestra. Un’ultima. brevissima, nota infine sul suo  “Weekend postmoderno”, un libro imprescindibile per chi voglia capire gli anni ottanta italiani.

 

Di Davide Morelli

L’eredità della fine in Gravity’s Rainbow e Horcynus Orca, la questione della temporalizzazione e la metafiction

Perché due romanzi pubblicati nella prima metà degli anni Settanta – due opere modernamente enciclopediche, innervate dalla presenza di archetipi epici, monumentali per respiro e dimensioni, interamente postmoderne, anche solo per il periodo in cui cadono – tornano ai fatti della Seconda guerra mondiale e perché, tornando a essi, li narrano in presa diretta a trent’anni di distanza?  Per quanto il dato costituito dalla prossimità cronologica e tematica sembri accomunare il romanzo di Thomas Pynchon, Gravity’s Rainbow (1973), e quello di Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca (1975), solo per un aspetto esteriore e del tutto estraneo al piano testuale-narrativo del romanzo, per quanto possa apparire un fatto accidentale, una fortuita coincidenza, questa analogia, al contrario, si fa portatrice di un segnale decisivo.

Essa rappresenta un indicatore sensibile sia dei nuovi termini con cui viene stabilito il patto mimetico tra storia e codici narrativi, sia del modo in cui gli eventi storici si presentano agli occhi dei loro testimoni, sia del modo in cui l’oggetto storico diventa visibile attraverso le forme di rappresentazione.

La domanda da cui partire è allora tutta qui, racchiusa nella disposizione prospettica dei piani storici che i romanzi di Pynchon e di D’Arrigo incrociano e definiscono, perché è qui che la guerra scava una nuova trincea. Se nell’equilibrio tra riflessione storica e scrittura romanzesca Gravity’s Rainbow e Horcynus Orca si pongono in linea di continuità con quella “classe” di testi novecenteschi per i quali Linda Hutcheon ha coniato, con una felice intuizione, il termine di historiographic metafiction, le questioni sollevate dalle strategie narrative dei due romanzi si allontanano dal percorso che dà origine alla complessa genealogia del metaromanzo di stampo storiografico.

La posizione che viene data al problema storico in Gravity’s Rainbow e Horcynus Orca non appartiene all’analisi della conoscenza storica – la sua natura e la sua funzione – ma si colloca nell’articolazione di un doppio livello di temporalità, uno storico e uno narrativo, che i romanzi prendono in carico. E allora analizzare Gravity’s Rainbow e Horcynus Orca da questo punto di vista vuol dire anche tener conto delle principali strutture storiche novecentesche alla luce di ciò che le determina e le precede e cioè, per dirla con lo storico francese François Hartog, dalla prospettiva della temporalizzazione del tempo.

Al cerchio più interno, quello della struttura romanzesca, ciò che la costruzione narrativa dei due romanzi ci propone – in cui si annida il portato più specifico delle due opere interessa il nodo gordiano romanzo-guerra. Ebbene, la gittata dei nostri due romanzi si misura precisamente nella distanza dalla posizione che i modelli teorici tradizionali, dall’epica rinascimentale al romanzo storico, hanno adottato nell’affrontare questo nesso problematico. L’operazione compiuta da Gravity’s Rainbow e Horcynus Orca può forse essere efficacemente descritta nella sua radicale diversità ricorrendo alla metafora di Viktor Šklovskij della “mossa del cavallo”.

I romanzi di Pynchon e D’Arrigo saltano le impostazioni precedenti, condotte sull’analisi del rapporto dialettico tra vero e verosimile, e spostano invece la questione su un territorio nuovo, vale a dire sul piano sincronico-diacronico: la guerra è sollevata dall’orizzonte contingente dell’ordine cronologico, il romanzo trasformato in una macchina di produzione della temporalità.

Per contestualizzare il primo polo del discorso, che vede la guerra come variante ineludibile nella determinazione dell’esperienza del tempo nella modernità, bisogna partire da lontano. La Rivoluzione francese, agli occhi di molti storici e filosofi, rappresenta l’evento in cui giunge a compimento quella trasformazione che sposta l’asse temporale al di fuori del millenarismo in cui si integravano chiesa, impero e storia del mondo. È con l’apertura di una problematica interamente temporale degli eventi storici operata dalla Rivoluzione francese che diviene possibile accedere all’orizzonte del “nuovo” creato dalla comparsa del futuro, una dimensione non riducibile ai rapporti tra il presente e il passato né deducibile da essi.

La mutata consapevolezza storica che si sviluppa a partire dalla fine del Settecento, e che permette alle nuove filosofie della storia di germogliare, consente anche al romanzo di accedere alla storia adottandone le qualità temporali e non più solo di ricorrere agli eventi storici
per ridurli a parete di fondo su cui proiettare una narrazione sostanzialmente astorica. A essere coinvolte nel processo di trasformazione sono, in particolare, le forme tradizionali con cui il contenuto storico viene organizzato.

Se, nel corso del XIX secolo, la Rivoluzione francese e le Guerre napoleoniche hanno svolto questo ruolo, nel corso del XX secolo le due guerre mondiali provocano una nuova e diversa reazione. Potremmo dunque dire che un evento rivoluzionario apre alla storia e un evento bellico la chiude. Quando, all’inizio degli anni Venti, lo storico Ernst Troeltsch riflette sulla crisi dell’analisi storiografica,
riconosce che appaiono assolti dalla storia i compiti che le erano stati attribuiti nel corso del XIX secolo: liberare il campo dell’esperienza umana dai residui dell’unità ecclesiastico-clericale, fare da contrappeso allo spirito razionalistico rivoluzionario, contribuire ai processi di nascita degli stati costituzionali.

Commentando la crisi dello storicismo all’inizio del Novecento, Troeltsch individua nella Grande guerra il momento in cui viene distrutta ogni unità di misura e ogni forma con cui immaginare l’insieme dello sviluppo umano. La scomparsa del modello storiografico a cui fa riferimento lo storico tedesco non è senza conseguenze, essa lascia un vuoto (o, se vogliamo, apre a uno spazio nuovo) che nei percorsi più vicini al nostro tema verrà preso dalle teorie post-storiche di Alexandre Kojève sulla fine della storia e di Michel Foucault sulla morte
dell’uomo.

La rielaborazione delle unità spaziali e temporali operata in Gravity’s Rainbow e Horcynus Orca marca una soglia di passaggio nelle teorie del tempo storico novecentesche. La dimensione temporale della Seconda guerra mondiale travalica il suo momento storico, non è “al tempo della Seconda guerra mondiale”, non è coniugata al passato perché non appartiene a esso. Il passato bellico allora non è ciò su cui il tempo poggia la propria polvere ma è un campo d’azione che agisce nella dimensione del presente: è uno strato, un livello del tempo che opera in simultanea al presente degli anni Settanta in cui è narrato.

Questo, se da un lato rivela che siamo in presenza di un tempo storico dalla superficie porosa e dall’andamento frammentario che Ernst Bloch ha chiamato “contemporaneità del non-contemporaneo”, ovvero di un livello di temporalizzazione caratterizzato dalla dialettica a multipli livelli insita nel procedere del tempo storico, dall’altro rivela l’aporia da cui emergono in superficie le incrinature dei paradigmi fondativi della storia prodotte dal trauma della guerra sulla cultura novecentesca. Il presente multidimensionale di Bloch, concepito
estendendo al moto temporale il modello spaziale mutevole, soggetto alle torsioni tipiche della geometria differenziale affrontate da Bernhard Riemann, si sviluppa nell’aura del moderno nel significato che vi attribuisce Reinhardt Koselleck, allorché nuovi paradigmi interpretativi del tempo modificano le tradizionali relazioni con il passato e attribuiscono al futuro il proprio orizzonte privilegiato.

La posizione sostenuta da Bloch non fa eccezione a questo modello se non nel conferire alla dimensione del futuro il valore di ipostasi utopica. Ora, però, Gravity’s Rainbow e Horcynus Orca agiscono dinnanzi a un’ulteriore variante, rappresentata dalla soglia postmoderna. Qual è, allora, l’eredità che il dettato storico può offrire se esso accoglie il passato non più come simulacro, crisalide inattiva, spazio depotenziato, e allo stesso tempo annulla la dimensione di profondità del futuro?

Gravity’s Rainbow e Horcynus Orca si trovano ad affrontare una temporalità cadenzata da un presente di lunga durata, nel cui campo gravitazionale cadono futuro e passato, e un problema di rappresentabilità, di mimesi storica.

In entrambi i casi il campo d’azione privilegiato resta quello della temporalità che si colloca, questa volta, nella temporalizzazione del tempo interna ai romanzi. Qui l’arma di rappresaglia nazista, il razzo V-2 progettato per viaggiare a una velocità superiore a quella del suono, e l’orca, il mostro mitico, immagine ancestrale della morte immortale che emerge dalle profondità marine dello stretto di Scilla e Cariddi, scandiscono l’inversione della serie logica e temporale del prima e del poi, della causa e dell’effetto, e lo straviamento – per usare
una parola darrighiana – dell’ethos dalle fondamenta su cui poggiano intere comunità e per sineddoche quella cariddota.

I romanzi allora trasferiscono il problema della rappresentabilità della guerra dal piano della rappresentazione diretta a quello indiretto dell’identificazione della microfisica della guerra negli spazi identitari, individuali e collettivi, e negli spazi simbolico-rituali. Se è vera
l’osservazione di Northrop Frye, secondo cui la guerra appartiene al mondo demoniaco, quella di Paul Fussell, che intende la guerra moderna, seppure industrializzata e tecnicizzata, produttrice di leggende riconducibili a mentalità arcaiche, e quella di Eric Leed che ricostruisce la percezione della guerra attraverso i miti generati sui campi di battaglia, allora dovremo ipotizzare che Gravity’s Rainbow e Horcynus Orca recuperino attraverso le figure del missile e dell’orca gli elementi caratteristici della rappresentazione degli dei morenti e
dei sacrifici rituali. I due romanzi, però, non si collocano nella posizione della fine apocalittica.

Si dispongono invece nel tempo dell’“ora”, opposto al principio strutturante della fine e vicino alle pulsazioni del tempo messianico, del
tempo che resta tra l’azionamento della bomba e la sua esplosione, tra l’apparizione dell’animale mitico e la sua morte. La temporalità messianica della sospensione scandita dalle immagini totemiche del razzo V-2 e dell’orca conduce alla scoperta di una società postuma che guarda se stessa come il vuoto involucro di qualcosa che è già accaduto.

La fine, come cosa già avvenuta, diventa così l’eredità che si è avuta in sorte, secondo una logica temporale assimilabile allo schema retorico dell’hysteron proteron, figura ermeneutica cardinale di queste narrazioni post-storiche, espressione della vittoria della sincronia sulla diacronia, della simultaneità sul percorso lineare, della discontinuità del presente sulla dinamica futuro-passato. E allora di che si parlerà in questo libro?

L’eredità della fine affronterà le questioni della temporalità e dei livelli, antagonisti, di tempo storico e tempo cronologico identificate ed espresse dai romanzi di Thomas Pynchon e Stefano D’Arrigo. Ne discuterà affidandosi alla complessa rete di rimandi e richiami desunta dalla struttura narrativa dei due romanzi che attingono ai topoi della cultura classica e rinascimentale – il nostos, la nekyia e il quest –, alla forza mitopoietica dei cantari cavallereschi e del cinema, all’organizzazione simbolica contenuta nel pensiero mitico, ai codici tipologici culturali, sia tribali che comunitari, presenti nelle dimensioni magiche e arcaiche.

Ma cosa accade alla narrativa che assume la prospettiva postuma dell’eredità della fine, della fine del futuro?

 

Fonte

‘Le correzioni’ di Jonathan Franzen: quando cambiamento non necessariamente significa miglioramento

Le correzioni, The Corrections, è il  romanzo più celebre, insieme a Purity, di Jonathan Franzen. Scrittore e stagista statunitense con radici tedesche, Franzen nasce nell’Illinois; compie Studi Umanistici tra gli Stati Uniti e Berlino, esordendo come scrittore nel 1998. Nel 2002 arriva la consacrazione dalla critica letteraria aggiudicandosi, proprio grazie a Le Correzioni, l’ambito premio National Books Awards. Il Time gli dedica una copertina per l’uscita del suo libro nel 2009. Collabora al New York Times dal 2010, uscendo con diversi scritti e saggi . Questi ultimi sono famosi per  aver attirato malumori dei tanti colleghi scrittori nazionali e internazionali.

Pubblicato nel 2001, The Corrections ,è uno dei racconti di narrativa in stile post-modernista che descrive minuziosamente e in modo satireggiante, i cambiamenti in chiave ottimistica delle famiglie americane prima della crisi di inizio anni duemila. La narrazione verte sulle relazioni umane e sul loro modo di condizionare le vite dei singoli. Si addentra ed analizza l’intimità di una qualunque famiglia contemporanea, dove i valori di una generazione passata si contrappongono e si mescolano con la generazione successiva, senza mai fondersi del tutto.

Trama e contenuti nel romanzo di Franzen

Il romanzo di Franzen sembrerebbe raccontare le vicende di una normale famiglia del Midwest, simile a tante altre: la tipica famiglia bianca della borghesia statunitense, impregnata di quel perbenismo ipocrita e moralista. Tuttavia il voler accentuare queste caratteristiche rende i personaggi sorprendentemente contraddittori. La maggior perseguitrice dei valori puritani e borghesi è sicuramente Enid Lambert, moglie di Alfred e madre di Gary, Chip e Denise. Ella si confronta in modo ossessivo con i suoi vicini e le sue amicizie, considerati modello di uno stile di vita “giusto e rispettabile, riscontrabile solo tra i cittadini di Saint Jude.

Enid per una vita intera cerca di raggiungere il modello di perfetta moglie e madre, volendo in tutti i modi eccellere e diventare lei stessa e la sua famiglia modello ambito e invidiato dal vicinato. Questo la porta a criticare ogni minimo sbaglio della vita dei suoi conoscenti, contemporaneamente dissimula i comportamenti errati suoi o dei suoi familiari. Enid sarà esasperata delle sue ossessive correzioni e solo alla fine del libro capirà che ha dedicato a questa attività tempo inutile. A differenza di sua moglie, Alfred è forse il personaggio che Franzen farà ricorrere meno alla revisione dei suoi comportamenti: lo farà solo in relazione al suo lavoro, fulcro della sua vita.

Ben presto il padre di famiglia si arrenderà ai suoi sbagli ma involontariamente: la depressione e poi la malattia di Parkinson ridurranno in lui la soggiogazione a quella smania di perfezione etica e morale che sfociava della corrosiva dedizione al lavoro. Al rifiuta la vita familiare, gli svaghi, i piaceri. Per lui la vita è fatta di affanni, di lotta, di sofferenze. Ecco perché forse lo scrittore gli attribuisce una malattia tanto grave che lo porterà alla morte. La malattia gli permetterà di correggersi senza il suo volere, perché la sua troppa rigidità non gli avrebbe permesso passi in dietro. La stessa famiglia è concepita da lui come una squadra che lavora per adempiere ad un compito: sostentarsi a vicenda.

La moglie è il familiare che subisce maggiormente la sua concezione schopenhaueriana: questa è a tutti gli effetti un suo subordinato alla quale impartire ordini sulla gestione della casa e dei figli e alla quale non consentire neanche un briciolo di compassione, supporto o di gesti affettuosi. Nel rapporto coniugale sono riversate, quindi, le rispettive frustrazioni per quell’idea dell’altro irreale. Enid aspetta per tutta la vita che suo marito possa diventare in qualche modo più affettuoso, possa ricambiare i suoi gesti d’amore ed anche se sa che il cambiamento non avverrà mai, lei sarà innamorata di un Alfred esistente solo nella sua mente. Alfred, che sguazza nella propria autocommiserazione, ad ogni modo imporrà alla moglie i suoi voleri, la sua privacy, ammonendola ogni qualvolta non rispetti le sue indicazioni.

Questo nodo cruciale sarà sbrogliato solo con l’aggravarsi della malattia di Alfred, quando non vi sarà più bisogno di correggere l’altro. I tre figli della coppia, hanno vissuto la loro infanzia i questo clima di eccessiva rigidità. Forgiati su quella rincorsa alla perfezione ostinata, finiscono per distaccarsi quasi per ripicca da quel perbenismo maniacale. Per quanto possano odiare quegli atteggiamenti e pensieri così repressivi, non potranno ignorarli, ci dice Franzen.

Gary il maggiore, è colui che più di tutti ha subito l’influenza di sua madre cercando di imitarla sotto tutti i punti: in primis vuole far in modo da entrare nelle grazie di suo padre e, di conseguenza di sua madre, fin da quando è piccolo. E’ l’unico dei tre che ha costruito un nucleo borghese a Philadelphia ,con una moglie rispettabile e benestante, tre figli e un lavoro dirigenziale. Pur allontanandosi dalla sua famiglia non riesce a far a meno di comportarsi come loro, lavorando sodo come il padre, certe volte estraniandosi, commentando e giudicando con disprezzo chi non rientra nei canoni, bramando prestigio e affari.

Egli è però terrorizzato dal porte assomigliare in qualche modo a suo padre, Alfred : le sue correzioni sono principalmente volte a rimodulare i malsani atteggiamenti paterni cercando di non commettere le stesse azioni che un tempo hanno recato dolore alla sua famiglia. Chip, il secondo fratello, è considerato il sovvertitore degli equilibri familiari: viene descritto come la “Pecora Nera”, anche se i suoi genitori non hanno fatto altro che lodarlo e vantarlo per tutta la vita, a detta sua, sopravvalutando le sue capacità. Sente la forte pressione dei suoi genitori, che confidano in alte aspettative per la sua vita e la sua carriera. Ha la capacità di opposti in qualunque modo a queste volontà idealizzate dalla sua famiglia. Si tratta forse del personaggio più eclettico nella vicenda, capace di immischiarsi in diversi guai e riprendersi, cadendo sempre in piedi.

Per quanto egli voglia in qualche modo sfuggire alle speranze genitoriali, non potrà fare a meno di deluderle: vorrebbe dare loro quelle agogniate soddisfazioni ma la sua natura glielo impedisce. Quando non opporrà più resistenze al suo spirito libero, ritroverà il suo baricentro e la serenità.

L’ultima dei tre, Denise, sembrerebbe essere la più affine al comportamento di Alfred, anche se il suo lato umano è molto più spiccato. Come lui è ambiziosa e testarda. Riesce a far emergere il lato sentimentale e umano di suo padre, che probabilmente riconosce molto di lui in lei. Descritta come una chef in carriera, dedica tanto tempo al lavoro ma finisce per farsi licenziare. I piaceri che tanto Al aveva ripudiato, la persuadono e allontanandola per sempre da quella vita fatta di solo lavoro. Spesso è la “vittima” preferita delle ammonizioni di sua madre. Con quest’ultima, è in continuo scontro ma contemporaneamente riesce ad immedesimarsi nel suo punto di vista anche non condividendolo. Il contrasto con l’ aspirazioni materne, la porterà a compiere scelte, nella sua vita sentimentale, molto distanti dai voleri di Enid.

Cercherà, come suo fratello, ma con la dedizione che la differenzia, di allontanarsi e poi di avvicinarsi ai valori paterni, fallendo miseramente, scegliendo in fine la propria felicità condivisi in fine anche dai suoi familiari, infischiandosene dei loro giudizi.

Il cambiamento inevitabile

Le vicende di questa famiglia riportano il lettore a confrontarsi con se stesso, ad aiutarlo a comprendere il modo corretto di correggere il proprio io. L’accattivante uso di regressioni offre un’ampia panoramica sulla vita di questi cinque personaggi: un’analisi così ben presentata da poter far diventare i cinque, persone comuni intercambiabili, alle prese con i loro dissidi interiori suscitati dalla smania di voler essere conforme a un qualche modello prestabilito. Paiono tutti non sfuggire a quell’anedonia radicata, come suggerisce Franzen: l’Anedonia era il segnale d’allarme che stava contagiando un piacere dopo l’altro, frutto di quella comodità infelice che prima o poi si finisce per accettare.

Un fronte freddo autunnale arrivava rabbioso dalla prateria. Qualcosa di terribile stava per accadere, lo si sentiva nell’aria. Il sole era basso nel cielo, una stella minore, un astro morente. Raffiche su raffiche di entropia

La conquista di Franzen sta nell’essere riuscito a trovare per questi personaggi di una saga familiare che fotografa il cambiamento di una società (non solo quella americana) che smarrisce ogni riferimento morale, seppur ipocrita e autoritario, una svolta plausibile che riporta loro verso una via d’uscita, offrendo un finale ricco di sorprese e non scontato. Le citazioni di cui si serve lo scrittore, dalla Bibbia a Schopenhauer a S.C. Lewis, risultano opporune e calzanti e mai del tutto scontate. Ritornano come lampi all’interno della narrazione e permettono di collegare episodi apparentemente sconnessi.

Il linguaggio di Franzen è fluido e mai troppo ricercato, ironico e a tratti caustico anche nell’affrontare argomenti scientifici o di economia. Se pur la traduzione italiana non riporta il significato corretto di alcuni gerghi e giochi di parole tipicamente yankees, c’è da apprezzare la volontà di riportarne almeno in parte la funzionalità nella narrazione conferendo allo scritto una freschezza moderna che fa venire in mente American Beauty, Tempesta di ghiaccio e Pastorale Americana. Ma per Franzen non sempre il cambiamento è verso qualcosa di meglio e i rapporti umani, familiari ne rappresentano il nodo irrisolto.

Thomas Pynchon e la logica omologante del paesaggio postmoderno dominato dal mercato

Nei loro romanzi Thomas Pynchon e Don DeLillo descrivono soprattutto il paesaggio storico-culturale che si è profilato all’orizzonte a partire dal secondo dopoguerra. Una realtà, questa, per la quale gli studiosi adottano il termine “postmoderno”, e che Fredric Jameson legge come un prodotto della logica culturale del capitalismo avanzato. Il critico statunitense, infatti, vede il paesaggio storico, economico e culturale della postmodernità completamente dominato dal mercato.

Nei romanzi di Pynchon e DeLillo, lo spazio viene eletto a osservatorio privilegiato della postmodernità. Al contrario della spoglia (in senso culturale) wilderness che incontrarono i Pilgrim Fathers, questo spazio postmoderno si configura come già del tutto ‘testualizzato’, una foresta di segni talmente fitta da impedire, paradossalmente, ogni autentica comunicazione. Le opere di entrambi gli autori descrivono la nuova entropia prodotta dalla sovrabbondanza di immagini, codici ed istituzioni burocratiche che ricoprono lo spazio postmoderno trasformandolo in una linguistic wilderness.

Un paesaggio dominato dal mercato, però, mal si concilia con la concezione mitico-simbolica dello spazio americano come luogo di salvezza e di autoaffermazione. Un’idea che, come ben rileva Alan Bilton, non ha mai abbandonato gli scrittori americani: «The wilderness has always functioned in American literature as a trope of possibility or salvation, liberation from a corrupt and mercantile civilisation; even with nature tamed and the wilderness crisscrossed by freeways and shoppingmalls, this motif still doesn’t finished with».

Forse è questo motivo a spingerli sovente verso la creazione di controspazi finzionali capaci di contrastare, almeno sul piano simbolico, la logica omologante del paesaggio postmoderno. Questo perché, «with the closing of the frontier, and the effective absorption of the wilderness space by civilization, American writers were forced to restructure imaginatively their country». In mancanza ormai di uno spazio geografico e psichico che non sia già stato cooptato dal mercato globale, uno scrittore è costretto a ritagliarsi «some kind of fictive (rather than literal) space uncontaminated by the dominant logic of endless replication», quasi un «redemptive space» in cui rifugiarsi lontano dal Sistema, come Pynchon battezza il complesso militare-industriale in Gravity’s Rainbow.

Egli stesso reagisce attraverso la fabulazione e l’invenzione romanzesca, costruendo contro-spazi e contro narrazioni dove trionfano il sogno, il favolistico, il miracoloso, l’improbabile, e dove i parametri scientifici basati sul determinismo e la logica causale vengono contraddetti. Questi luoghi rappresentano non già una consolatoria fuga dalla realtà né, come talvolta sostengono i detrattori della narrativa postmoderna, uno sterile ripiegamento nichilista, quanto piuttosto un antidoto creativo contro la piattezza del paesaggio culturale partorito dal tardo capitalismo.

A costituire il principale oggetto dell’analisi critica non sono tanto i tratti costitutivi dello spazio postmoderno quanto le strategie narrative attuate per descriverlo. Né va dimenticato che nel romanzo postmoderno lo spazio del paesaggio reale e quello della finzione rivelano un inedito rapporto di interdipendenza, rispecchiandosi l’uno nell’altro. Gli spazi, cioè, vengono costruiti sul piano retorico da una scrittura che ne riflette i contorni, ovvero ne mima le aporie, proponendosi come il loro corrispettivo retorico-narrativo. Tuttavia, è sempre attraverso la rappresentazione dello spazio che Pynchon e DeLillo pongono in essere un lucido progetto di critica alla storia nazionale e alla società americana contemporanea.

Nelle sue opere Thomas Pynchon rappresenta la postmodernità soprattutto come un eccesso di segni, scorgendone addirittura le prime tracce nel periodo appena precedente la Dichiarazione d’Indipendenza americana. Una tesi, questa, che l’autore sembra voler dimostrare nel penultimo romanzo, Mason & Dixon (1997), dove si narra delle spedizioni condotte da due scienziati inglesi per conto della Corona. La «wilderness of uncertainty» che gli astronomi e cartografi Mason e Dixon, nelle scomode vesti di «agents of Reason», affrontano spingendosi verso Ovest nell’America degli anni Sessanta del Settecento, armati di bussola e di fede nella scienza diviene, attraverso la sua rilettura, un territorio al tempo stesso geografico e concettuale. Nel periodo coloniale in cui è ambientata l’opera, tale wilderness si configura ancora come uno spazio culturalmente vuoto, «a region without a map», di cui la civiltà si appropria riempiendolo di segni culturali, sovrascrivendoli a quelli già presenti sul paesaggio naturale, allo scopo di esercitare un controllo tanto fisico quanto simbolico sul territorio.

Ma se dapprima il luogo incarna una moderna utopia, uno spazio geografico e psichico nel quale cominciare una nuova vita, il narratore ci rende immediatamente avvertiti di come già siano attive le forze storiche che convertiranno il cronotopo della strada aperta in quello borgesiano del labirinto. Infatti, come ci ricorda Tony Tanner, è proprio durante gli anni precedenti la Rivoluzione americana che «the fences were going up, and the straight road to the west gradually obliterating the ‘chances of diversity’ has begun». Ecco perché, a suo dire, Mason & Dixon rappresenta «a celebration of America as a last realm of the Subjunctive, and an elegiac lament for the accelerating erosion of that subjunctivity». Insomma, già nella linea divisoria che gli astronomi Mason e Dixon tracciano tra il Maryland e la Pennsylvania nel periodo che precede di poco la Dichiarazione d’Indipendenza, Pynchon vede i prodromi di ciò che sarebbe diventato due secoli più tardi il paesaggio americano: uno spazio apparentemente aperto e polifonico, ma in realtà governato da un mercato che rappresenta il discorso dominante.

 

Fonte: http://www.fedoa.unina.it/1753/1/Paravizzini_Filologia_Moderna.pdf

Letteratura statunitense degli anni ’90 e David Wallace

La letteratura statunitense degli anni Novanta sono all’insegna di un vuoto, o meglio dell’assenza di un prospettiva globale da cui partire per interpretare una nuova serie di opere. Non vi è infatti un canone, un’etichetta che consentono di leggere in modo coerente e corretto i cambiamenti di quel periodo.

Ripercorrendo per sommi capi quanto è avvenuto nei decenni precedenti, all’avvento di opere non inquadrabili entro un canone prestabilito, è sempre corrisposta, dal punto di vista critico, la fondazione di categorie in grado di fare una mappatura dei mutamenti della moderna narrativa americana. Ad esempio gli anni Ottanta sono stati salutati come il periodo dell’ascesa e del declino della scuola minimalista, in realtà ultima propaggine del postmoderno. Tutta una serie di giovanissimi autori, rinverdendo i fasti della stagione beat, venne riunita frettolosamente sotto l’etichetta di brat-pack (banda di monelli), prendendo in prestito un termine usato nell’ambito cinematografico. Due nomi su tutti: Easton Ellis con l’opera Meno di zero e McInerney con Le mille luci di New York, divenuto manifesto generazionale. Nel 1984, anno in cui Gibson pubblica Neuromante, si comincia a parlare di letteratura cyberpunk, con riferimento a quel tipo di fantascienza che mescola surrealismo e immagini della cultura pop con informazioni di carattere storico ed esoterico; genere che ben presto annovererà tra le sue fila autori cinematografici come Ridley Scott con Blade runner e David Cronenberg con Scanners e Videodrome, con l’approvazione del guru del postmoderno Fredric Jameson, in cui si vedrà il massimo esempio di una pratica letteraria in cui coesistono capacità di lettura del contemporaneo e spinta verso un approccio più radicale. Persino ai fenomeni all’apparenza più ambigui fu trovata una collocazione: si pensi ad esempio al conio ad hoc del termine avant-pop, per indicare quella schiera di autori che faceva del muoversi su un territorio stilistico e mediatico la propria cifra. Neppure un allora giovane Wallace, reduce dall’opera La scopa del sistema, venne risparmiato da questa tendenza nomenclatoria, essendo il suo nome incluso all’interno del canone avant-pop. E invece solo pochi anni dopo, con l’esaurirsi di questi fenomeni , ogni prospettiva d’insieme atta a decifrare l’avvento di una nuova geografia letteraria. Tuttavia tale operazione, che non rappresenta nemmeno chissà quale problema, diventa ancora più difficile quando, come nel caso della generazione letteraria emersa negli anni Novanta, si ha che fare con una serie di opere e autori non solo molto distanti tra loro, ma che si contraddistinguono per un controverso rapporto con la tradizione; un paradosso che negli stessi anni coglie non solo la letteratura statunitense ma anche il cinema, basti pensare a pellicole come Fargo dei fratelli Cohen, Sydney di Anderson, Dead Man di Jarmusch sino ad arrivare al celeberrimo Pulp Fiction, film caratterizzati da strutture discorsive anomale, giocando con la forma.

Gli esiti di ciò che John Barth aveva predetto venti anni prima, sembrano davvero avverarsi alla soglia dell’ultimo decennio del ventesimo secolo. Nel saggio del 1967 La letteratura dell’esaurimento, lo scrittore statunitense ipotizzava, guardandosi bene dall’utilizzare toni apocalittici, la fine di quell’idea di letteratura con cui il lettore occidentalizzato aveva imparato a familiarizzare da due secoli sino ad allora. Dunque è dagli anni Ottanta che intorno alla letteratura statunitense c’è un vuoto, assenza di scuole e di correnti immediatamente indentificabili, sebbene tale vuoto si “palesi” solo negli anni Novanta. Fatto sta che al suo apparire nel 1996, stesso anno di un film come Strade perdute di Lynch, Infinite jest di David Wallace pare concentrare tutti i paradossi della letteratura statunitense. Prima di tutto per la sua lunga gestazione e quando dal sottobosco letterario statunitense, inizia ad emergere un gruppo di voci fuori dal coro che salgono alla ribalta proprio per l’impossibilità di essere ricomprese entro uno dei tanti compartimenti messi in piedi dall’establishment critico. In questo clima Wallace si dedica alla stesura del suo secondo romanzo, introiettando spunti polemici e considerazioni maturate durante il suo paradossale apprendistato. Già nel 1988 tra l’altro, Wallace in un saggio, metteva a fuoco almeno tre caratteristiche inerenti al comune background degli scrittori a stelle e strisce a lui coevi: l’immane impatto della TV, la cui presenza pervasiva nella dieta mediale contemporanea avrebbe a tal punto influenzato gli scrittori da modificare “il modo in cui essi comprendono e rappresentano la vita vissuta”; in secondo luogo il diffondersi della scuole di scrittura creativa, per cui “nessun scrittore si è formato senza un apprendistato in un dipartimento di scrittura creativa”; e infine la rivoluzione nel modo in cui le persone erudite “concepiscono la funzione e le possibilità della letteratura”.

Secondo Wallace l’artista contemporaneo non può accontentarsi di vedere il lavoro di critici o filosofi come separato dai propri interessi. In questo senso ha ragione Mary K. Holland, studiosa di Wallace, quando sostiene che che lui “è quel tipo di scrittore che scrive non solo fiction, ma anche manifesti per la fiction” e che Infinite jest è un “romanzo concepito sulla scia di un manifesto”.

Difatti Infinite jest non solo ha saputo assorbire le tensioni storico-sociali, culturali e letterarie della propria epoca, ma è riuscita anche a proporre un nuovo modello di romanzo: un modo inedito di pensare e rivolgersi al dominio della fiction.

Bibliografia- F. Pennaccio-What fun life was.

La società liquida di Zygmunt Bauman

La nostra società è stata più volte definita come ‘società liquida’. Tale concetto è stato sviluppato dal sociologo Zygmunt Bauman e ben si inscrive nell’orizzonte epistemologico del Postmoderno, nomenclatura che indica la nostra epoca. Senza dubbio è un’espressione efficace anche se si è prestata ad applicazioni di ogni genere.

Infatti il concetto di società liquida condivide il medesimo destino del fratello ‘villaggio globale’, coniato da Marshall McLuhan. In entrambi i casi il passaparola generalizzato ha dato adito ad eccessive esemplificazioni che hanno depotenziato lo spessore del problema sollevato dai due sociologi. Secondo Bauman l’epiteto si riferisce alle forme di esperienza che caratterizzano la cultura consumista e che hanno comportato una trasformazione radicale delle relazioni sociali e delle pratiche di vita quotidiana. L’approccio eclettico adottato dai teorici postmodernisti costruisce la lente che consente di cogliere i tratti distintivi di questo nostro tempo, estremamente articolato. Bauman accetta la sfida senza rinunciare ad una dimensione etica.

La società liquida sembra legittimarsi attraverso l’ambivalenza delle esperienze e degli stili di vita, ben lontana da quell’uomo a una dimensione teorizzato da Marcuse. Tuttavia non si può negare che la pluralità apre il varco alla complessità. Il richiamo di Bauman all’etica è senza dubbio un elemento che riporta la questione su un livello tutt’altro che effimero e disimpegnato. L’espressione “La postmodernità è la modernità che ha riconosciuto la non realizzabilità del proprio progetto”, suona come un’abdicazione della quale si dovrebbe prendere atto.

Marx e la ‘fusione dei corpi solidi’

Alla base della sdoganata etichetta coniata da Bauman, c’è una metafora dalle ascendenze illustri. E’ già Marx ad utilizzare l’espressione ‘fusione dei corpi solidi’, per indicare il tentativo di minare alle fondamenta ogni tradizione, di dissolvere nell’aria le spoglie del passato. La società liquida è dunque conseguenza di una serie di concause passate che spalancano un orizzonte di incertezza e d’altro canto trovano nel consumo una strategia difensiva da parte dell’individuo, un effetto placebo altamente seduttivo che fa della merce non più il feticcio – sempre per citare Marx – ma la promessa di una felicità, un sogno ad occhi aperti alimentato dai mezzi di comunicazione sempre più pervasivi.

Già McLuhan ha descritto gli strumenti della comunicazione di massa come estensioni dei nostri sensi; siamo dunque parte di un sistema comunicativo immanente e il nuovo linguaggio è ciò che detta le coordinate della nostra esistenza. L’uomo estende se stesso diffondendo i propri sensi percettivi nei linguaggi, nei media e nelle nuove tecnologie, secondo un principio di fabulazione.

Secondo i teorici della postmodernità, la ‘società liquida‘ risulta più complessa proprio perché la moltiplicazioni di visioni del mondo risultano tutte legittime. La società postmoderna è quindi una società della comunicazione generalizzata e dominata da immagini plurime del mondo. Si evince quanto la comunicazione non sia più solo un fattore tecnico ma la categoria interpretativa adottata dalla società stessa: la trasparenza è il suo valore positivo.

Il Postmodernismo

Sul versante prettamente culturale, il Postmodernismo pratica il ritorno al pre-moderno e non dovrebbe stupire la rivalutazione degli aspetti più irrazionali del pensiero, come l’immaginazione, il desiderio e la propensione per la spettacolarizzazione del reale.

Infatti, la condizione postmoderna (titolo del saggio illustre di Jean François Lyotard) ha segnato nell’ambito della letteratura, e non solo, la fine delle ‘grandi narrazioni’, quelle capaci di ricostruire un’immagine unitaria del mondo. Il Postmoderno sfugge a qualsiasi definizione univoca ma anche i suoi effetti culturali sono maturati in momenti diversi, con esiti eterogenei. Per quanto riguarda l’Italia, si è datata la comparsa di una tendenza letteraria postmoderna tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Resta implicita l’idea che è finita un’epoca, quella della modernità appunto: fase storica caratterizzata dalla dinamicità, dal progresso e dalla trasformazione. La tendenza del Postmoderno ha naturalmente suscitato vivaci discussioni: c’è chi la ritiene frutto di una netta frattura rispetto alla modernità e che dà origine ad un’epoca nuova; chi la ritiene una fase interna al moderno e preferisce parlare di ‘tarda modernità’ o chi ritiene che ormai il Postmoderno si sia concluso dopo gli eventi dell’11 settembre.

La realtà postmoderna è caratterizzata dalla frantumazione, dalla complessità incoerente, un caos che però non è stato vissuto tragicamente dal soggetto (almeno ai suoi albori) bensì con un’accettazione ludica. Se appare impossibile la produzione del nuovo allora è lecita nel campo della letteratura, delle arti, del teatro e del cinema, la ripetizione del già noto. Salta dunque il tabù dell’originalità a tutti i costi per riprendere semplicemente gli stili del passato combinandoli e contaminandoli tra loro, mediante assemblaggi di citazioni. Basti pensare al cinema di Quentin Tarantino, ai romanzi di Andrea De Carlo, Pier Vittorio Tondelli o ancor prima di Italo Calvino e alle sperimentazioni dei primi anni ’80 nel campo della videoarte. Il romanzo postmoderno, quindi, non è più un ‘genere’, ma rappresenta la ripresa di tutti i generi già sperimentati.

In America il maestro della nuova corrente è Thomas Pynchon, che utilizza una straordinaria molteplicità di linguaggi derivati dal mondo dell’informazione, dello spettacolo e della tecnologia. A questi si aggiunge la coscienza che la comunicazione non serve a mettere in rapporto gli uomini, ma solo a distribuire merci. La lingua che serve a esprimere questi motivi, presenta una continua mescolanza di culture e voci diverse.

La cultura postmoderna inoltre, non si rivolge a un pubblico ristretto, ma cerca di raggiungere un vasto pubblico di lettori e audience utilizzando il linguaggio dei mezzi di comunicazione di massa e riprendendo i generi ‘forti’ della tradizione, senza distinguere tra produzione ‘alta’ e letteratura di consumo.

Per questo, tratti caratteristici del postmodernismo sono il citazionismo, la frammentazione e l’ibridazione. I metodi narrativi riprendono le modalità espressive della televisione, degli audiovisivi e della pubblicità. L’imperativo è quello di decostruire, sovvertire, decontestualizzare e spaesare, il senso del sé è dunque mancante. I confini diventano fluidi, l’unità si converte in una pluralità di sfaccettature. Non ci sono noccioli duri né caratteri duraturi né aspetti in profondità, la sostanza cede il posto alla superficialità, il contenuto alla forma. La forma è tutto, è tutto lì, in superficie. In conseguenza di ciò non vi sono nemmeno interpretazioni, ma solo il gioco del linguaggio che dissemina il senso nello stesso modo in cui disperde l’io.

Resta un quesito: se l’uomo è mancanza ad essere, quali esperienze possono offrirci la possibilità di squarciare la breccia esistenziale delle nostre vite così tecnologicamente avanzate? La bellezza salverà il mondo o è solo questione di pixel?

Pier Vittorio Tondelli e il Postmoderno

Pier Vittorio Tondelli e il Postmoderno sono senza dubbio due capitoli che si intrecciano nella storia della letteratura italiana contemporanea. Tondelli è uno di quegli autori che vive nei cuori di lettori vecchi e nuovi e le cui pagine costituiscono tutt’oggi oggetto di molteplici interpretazioni. Pigmalione per gli Under 25, critico, autore poliedrico ed eclettico e che come pochi ha vissuto, interpretato e partecipato al funambolismo degli anni ’80. Molto si è detto di quel decennio banalmente siglato all’insegna della moda, della Milano da bere, del rampantismo ma gli anni ’80 sono anche quelli della Bologna del Dams e dei suoi fermenti. La stessa Bologna di Andrea Pazienza ha rappresentato uno stile di vita alternativo nell’immaginario di coloro che al pop preferivano il punk e tutto ciò che fosse underground. Tondelli ascolta, vive, viaggia senza pregiudizi o snobismi intellettualoidi. Lo si evince dai suoi romanzi mai uguali per trame, personaggi e ambientazioni. E poi c’è la musica. Ovunque nelle pagine dell’autore di Altri Libertini (1980) è ravvisabile un invito al lettore: non ci si può perdere nelle pagine tondelliane senza un’adeguata colonna sonora.

Nel passaggio tra gli anni ’70 e ’80, l’autore emiliano è stato considerato da Linea d’ombra e non solo, un confusionario qualunquista poiché si è sottratto con decisione alla politica. Così i libertini di Tondelli sono stati a lungo reputati degli eretici. Per i sessantottini, che negli anni ’80 continuano a preservare una visione completa del mondo, il narcisismo dei nuovi artisti che si affacciano sulla scena è quasi irritante. Il problema che emerge nei controversi anni ‘80 è che sono cambiati i modelli, non più Bakunin o Castro, ma Proust, l’autore che ricostruisce la propria vita nella solitudine della propria camera.

Tondelli vent’anni dopo la contestazione e le sue utopie vive il capitolo successivo della storia, quando la rivoluzione si è dissolta in una sorda solitudine e in una stanca posa. Enrico Palandri (uno degli studiosi più sensibili e attenti) colloca l’opera di Tondelli all’interno di un contesto culturale costituito da quegli intellettuali che si sono lasciati dietro il movimento degli anni ’70. Tuttavia senza un’adeguata contestualizzazione storica e culturale, il patrimonio tondelliano non sarebbe pienamente comprensibile e apprezzabile.

A cominciare dalla seconda metà degli anni 70, l’underground radicale scende in grotte profonde. Gli ambienti antagonisti si fanno chiusi e intransigenti, le scene alternative quasi semi-clandestine, mentre il mainstream, sempre più eccitato e a caccia di nuove tendenze per il mercato, agisce come nuovo agente di controllo sociale. Il Postmoderno ha contribuito a condensare la realtà e ogni generazione la affronta a uno stato diverso.

In Tondelli è ben radicata la consapevolezza postmoderna, una certa commistione di linguaggi diversi e codici espressivi, con la conseguente cancellazione di qualsiasi gerarchia all’interno dei tradizionali generi letterari.

L’autore di Correggio scrive: ‘Il postmoderno confonde immagini, atteggiamenti, toni con la prerogativa non già di sconfessarsi ciclicamente nel passaggio da un look all’altro, quanto piuttosto di trovare un’inedita vitalità espressiva nel fluttuare delle combinazioni dei detriti vestimentali’.

La generazione eretica del ’77, come spesso è stata definita, è quella degli sconfitti dalla storia. Non si dimentichi che sono gli anni di piombo e della stagflazione che paradossalmente confluiscono verso un nuovo ellenismo e con il telecomando a portata di mano. Tondelli scrive di ‘un postmoderno di mezzo’, di una fauna vagabonda in cui tutto è mischiato, sovrapposto e confuso. Che si tratti di giovani discotecari o dell’underground, entrambe le categorie giovanili condividono la medesima consapevolezza: quella di un futuro centrifugato nelle perdite di senso. Dinanzi allo sgretolamento dei linguaggi, unico mezzo di sopravvivenza resta dunque il gioco dei travestimenti

In questo nuovo panorama, oggi tornato alla ribalta, Tondelli percepisce una dicotomia: un destino di solitudine attraversa le esistenze. È qui che egli realizza la sua vocazione di scrittore, attraverso la consapevolezza che la scrittura avrebbe costituito il parametro con il quale si sarebbe rapportato alla realtà, non da protagonista bensì da osservatore.
Spesso egli è stato etichettato come lo scrittore simbolo degli anni ’80, solo perché la sua produzione copre l’intero decennio. Al contrario, Tondelli ha avvertito a fior di pelle l’aprirsi di una nuova stagione, ha sperimentato la crisi della letteratura e ha scelto la leggerezza (apparente), proseguendo sulle orme di Arbasino e Citati. Rispetto ai suoi contemporanei egli appare più consapevole sulla postmodernità. Così tenta di recuperare un rapporto con la scrittura e la letteratura più concreto, vicino alla vita delle nuove generazioni. Sarebbe doveroso operare una dereificazione di Tondelli, per ristabilire un’adeguata storicità senza cristallizzazioni critiche concepite dal mercato dell’editoria e che spesso hanno mortificato il suo talento e le ragioni più profonde della sua vasta, oltre che poliedrica, produzione letteraria.

Tondelli attraversa trasversalmente le storie non la Storia, imbevuto di musica ed arte come d’altronde i suoi coetanei della Bologna del Dams, fucina creativa che egli frequenta, osserva e descrive. Tutto di quei primi anni confluisce nel suo primo romanzo Altri Libertini (1980) che divise i lettori e anche la critica.

Lo scrittore emiliano con le sue opere ha di fatto immesso nella letteratura soggetti fino ad allora esclusi, pensiamo alla fauna di Altri Libertini o a Camere Separate o Pao Pao. I soggetti non normalizzati, i non- luoghi estranei all’antropologia della contemporaneità, sono le ambientazioni elettive: le stazioni e i treni, le osterie ma anche gli ostelli del Nord Europa e i pub di Londra.

Per comprendere Tondelli e l’umore della sua pagina è necessario constatare che la sua voce nasce da lì. Rivolto alle influenze più disparate, è la mobilità intellettuale ad alimentarne la scrittura. Ma proprio questo eclettismo è stato scambiato dalla critica per discontinuità.

Tondelli ha cercato di raccontare un modo di essere nel proprio tempo, legato alla scrittura, quale luogo di formazione e ricerca. Resta uno scrittore col quale il mondo letterario continua a confrontarsi perché ha contribuito a spostare la letteratura italiana dalla crisi delle avanguardie ad un riguadagnato piacere della narrazione. Stile scintillante, libero da schemi e codici espressivi che l’autore emiliano sottrae a qualsiasi gerarchia all’interno dei generi letterari, innestato in un personale cammino esistenziale.

Ed eccoci al ‘vischioso male’, quel sentimento che vanifica la celebrazione di un mondo carnevalesco, innescando un meccanismo autodistruttivo. Pertanto le parole mutano nella sua pagina in carne e fisicità, e in quanto tali a volte risultano perturbanti. Parole come cose non come segni. Tondelli la cesella come un poeta dominato da passioni. La parola cessa di significare nel suo uso domestico e trabocca dalla pagina. Egli riesce come pochi a stipulare un patto coi lettori e la pagina pulsa e vibra. Come uno gnostico-pop racconta il vuoto, comunica l’esperienza sino alla ricerca del silenzio.

Quelle di Tondelli sono delle polaroid e anche quando il mondo è poco accogliente egli non cessa di cercare una sorta di abbraccio in cui ritrovare il proprio centro. Un senso di sospensione e di gestualità bloccata determinano uno strappo con la vita, che si verifica attraverso la consapevolezza di una solitudine senza rimedio quando un artista si rapporta con le increspature della realtà.

Sovviene l’immagine del suonatore di sax in Rimini, il suo lamento solitario e malinconico, al ritmo del proprio cuore sprecato. Tondelli è un autore che scuote il lettore emotivamente e salva la propria vita attraverso la parola e i suoi silenzi

Io mi sento che tutti mi leggono dentro come fossi di vetro che non ho più nemmeno un angolo in cui tenerci il cuore. Mi fanno male gli occhi della gente, ora sono qui tutto terremotato di dentro e piango una lacrima sull’altra che non so da dove vengono fuori, però escono e sembran mare, salate e blu’ .

L’opera tondelliana continua ad esercitare la sua attrazione su critici e lettori poiché si configura come un microcosmo con le sue sezioni d’infinito che possiede soluzioni illimitate. Infinite sono le declinazioni che può avere la solitudine, un abbandono o un incontro. E nelle storie e nelle parole si trovano immagini che hanno il suono di una poesia che ci appartiene, di una voce che è anche nostra.

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