‘Gli ultimi furono i primi’, la Venezia desolata e fuori dal tempo di Gino Rocca

La prima ispirazione a scrivere il romanzo Gli ultimi furono i primi (Premio Bagutta 1931) è probabile che allo scrittore e giornalista Gino Rocca fosse venuta da una riflessione comune: Venezia città fuori dal tempo. In effetti la letteratura narrativa e poetica su Venezia, dalla fine dell’Ottocento ai primi anni nel Novecento, ha avuto il marchio delle sontuose pagine barresiane della Mort de Venise, nonché di D’Annunzio e Ruskin, i quali hanno celebrato il morboso disincanto della città lagunare che a Barrès faceva venire persino la febbre.

Una Venezia lontana dai cliché

Il romanzo di Gino Rocca invece è lontano da tali fascini: l’autore infatti immagina che ad un certo momento dello spasmodico progredire del ventesimo secolo, la rottura tra la civiltà meccanica e Venezia si è fatta irrimediabile e la città è davvero apparsa fuori dal tempo, recisa del tutto dai nuovi ideali. Le sue bellezze più preziose sono andate ad arricchire i musei d’America e delle città nordiche d’Europa; ad un breve periodo di spoliazione, dovuto anch’esso ad una sopravvivenza nell’animo dei “nuovi ricchi” del mondo di vecchie idee archeologiche, è succeduto il periodo dell’indifferenza o della facile ironia verso chi coltiva ancora la religione di certi ricordi.

Venezia non è che ormai più che un desolato ammasso di rovine, con qualche decrepito palazzo ancora in piedi, puntellato alla meglio mentre le notizie dal mondo si apprendono dagli altoparlanti e sono rari in Europa, innocui maniaci, quelli che si divertono ancora con i segni dell’alfabeto.

Protagonista del romanzo Gli ultimi furono i primi, è Alberto, un abulico con improvvisi scatti d’energia, un uomo consumato, con un passato burrascoso: moglie scappata di casa e figlio già avverso, Ma Alberto è sensibile, appassionato, spiritualmente si sente diverso dagli altri, ma non sa di preciso cosa vuole, pur avendo in se l’istinto al bene. Inoltre è un uomo colto, sicché lo zio. Riconoscendogli con una mentalità meccanizzata up to date che “ha un ingegno formidabile stoltamente sciupato”, gli propone di mettere a frutto il suo talento andando a sostituire a Venezia il vecchio bibliotecario della Marciana, L’Intendente come viene chiamato che ha lasciato la sede.

Trama del romanzo

Alberto parte e giunge a Venezia alla vigilia di Natale. Il suo compito ufficiale è quello di scegliere tra i libri rimasti nella biblioteca qualcuno di interesse, di farli rilegare e spedirli. Ma Alberto non è un bibliofilo e di Venezia ama ben altro che la carta stampata raccolta in una sua biblioteca in rovina. Di Venezia egli sente soprattutto un’epoca, la più tipica, il Settecento, e difatti Rocca, supponendo nel lettore un graduale e facile ambientamento nella realtà di Venezia da lui immaginata, mette subito il protagonista in medias res, nel magico cerchio di una visione settecentesca: “Vedeva la spatola, vedeva la lucida maschera nera, il vestito di sette colori, il cappello bianco rialzato sulla fronte gonfia, calato sulla gobba aguzza…”. Proprio con queste parole inizia il romanzo di Gino Rocca.

Venezia come lo stato d’animo del protagonista del romanzo

A Venezia Alberto si lascia affondare in un’inerzia morale e fisica, animata solo da un’immaginazione che gira a vuoto. Il male del protagonista è molto profondo. Non è possibile aspettarsi che solo al contatto della decadente città, lo possa investire un nuovo ed improvviso impeto di vita, tale da resuscitare in lui un fremito d’azione. Alberto quindi assiste sempre più nauseato alla vita che gli si svolge intorno: egli è nauseato da quelle forme di vita quali la baldoria dell’albergo di lusso, dalle donne disinibite, e dai loro gretti uomini che ne sono amanti.

Ma, nonostante questo male di vivere, in Alberto pulsa ancora, seppur nascosto, un principio di vita che affiorerà gradualmente verso la fine del romanzo, dove il cuore dell’uomo può finalmente abbandonarsi al sentimento per una donna. Il lento risorgere morale di Albero va seguito con attenzione per cogliere pienamente l’unità del romanzo e la sua solidità interna. Per Rocca ci è voluto un ambiente come la Venezia immaginata dallo scrittore, ovvero un morbido pantano è una situazione psicologica vicina a quella fisica della città, perché la figura di Alberto potesse assumere pian piano un umano rilievo, passando da uno stato di crisi inattiva a una febbre d’azione.

 

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Ottiero Ottieri, l’intellettuale e il mondo dell’industria

Nato a Roma nel 1924 da famiglia pisana, Ottiero Ottieri studia presso il Collegio Massimo dei Gesuiti trascorrendo lì gran parte della sua adolescenza. La vena letteraria appare fin da subito viva in Ottieri, infatti  giovanissimo all’età di quattordici anni, compone una serie di versi sulla terrazza di un alberghetto a Villabassa, descrivendo le Dolomiti. Nel 1945 Ottieri si laurea in lettere presentando una tesi scientifica sulle operette amatorie di Leon Battista Alberti. Dopo la laurea segue un corso di perfezionamento di letteratura inglese traducendo una serie di drammi significativi.

Nel 1946 Ottiei si trasferisce a Milano dove comincia la propria carriera giornalistica. Qui lo scrittore trova subito lavoro presso l’ufficio stampa della Mondadori: inizialmente comincia a collaborare alla <<Fiera Letteraria>> e in seguito ad altre riviste e quotidiani. Nel 1947 vince il Premio Mercurio per un racconto dal titolo L’isola sulla rivista omonima. Grazie al suo amore per la conoscenza in tutti i campi segue con grande entusiasmo anche studi sociali e psicologici, durante i quali Ottieri conosce Cesare Musatti. Nel 1950, a Lerici, sposa Silvana Mauri, nipote di Valentino Bompiani.

Ottieri e l’incontro con la realtà industriale

Nel 1952 Ottieri viene assunto alla Olivetti rimanendovi fino al 1965. Ed è proprio grazie a questo nuovo lavoro che conosce  un mondo diverso: quello dell’industria del primo dopoguerra. Argomento chiave delle sue opere infatti sono i rapporti difficili fra l’operaio e la macchina inerenti al lavoro alienante della fabbrica. Nei <<Gettoni>>, diretto da Elio Vittorini, Ottieri esordisce con il romanzo Memorie dell’incoscienza (1954), che documenta la condizione morale di quella generazione che entrava in crisi con il crollo del fascismo. La storia si svolge nel 1943 in Toscana, durante il periodo dell’armistizio “badogliano”. La trasposizione autobiografica di quella esperienza giovanile è molto evidente nel romanzo che vede un Ottieri mostrare di aver vissuto quell’esperienza con grande sincerità; la sua incoscienza, ovvero lo stato di sospensione morale della sua generazione, tra un mito crollato e la perplessità di accogliere altre fedi con le quali riempire il vuoto interiore, è resa con una verità psicologica che depone sulle qualità di Ottieri di attento osservatore dell’ambiente sociale in cui viveva.

Nel 1957 Ottieri pubblica il suo secondo libro Tempi stretti considerato il manifesto della civiltà industriale che vuole mettere in evidenza, nonché significativo esempio appartenente alla cosiddetta letteratura industriale, filone di cui facevano parte autori come Primo Levi, Bianciardi, Volponi, Parise, Pagliarani. Si tratta di un documento di una nuova esperienza: lo scrittore infatti rappresenta il cambiamento del paesaggio urbano e le conseguenze che si verificano sulla vita degli individui con i problemi relativi al lavoro e agli scioperi con una visione dolorosa, serrata entro una legge ferrea e squallida che prevede il calcolo e lo sfruttamento di una minima frazione di tempo. Il romanzo si muove su due piani: su quello della vita associata alla fabbrica e su quello privato, su un rapporto sentimentale. La novità essenziale di Tempi stretti sta nella crescita morale del protagonista Giovanni, di fronte ai problemi connessi a quelli della sua responsabilità sociale. Ottieri inoltre fornisce al lettore un’esatta fisionomia della città operaia di Milano.

Ottieri continua il proprio progetto con Donnarumma all’assalto (1959), un romanzo-diario che registra le condizioni degli operai dal punto di vista di uno psicologo che si occupa di scegliere i dipendenti. Egli giungerà ad una conclusione amara: l’intellettuale a causa della sua diversa collocazione non può rappresentare in maniera autentica la classe operaia. Lo scrittore racconta il conflitto tra un organismo di fabbrica modernissmo ma calato come un aerolito in un ambiente dove non esiste alcuna possibilità di maestranze qualificate ma solo fornite di una qualità elementare: il bisogno di lavorare, l’istinto di sfamarsi. Ma alla fine , il conflitto non è più tra legge della fabbrica e l’onda di umanità  che le si scaglia contro; è tra la necessità e la libertà, la necessità dell’ordine e della tecnica  e la libertà dell’uomo operaio. Questo conflitto metafisico, Ottieri, in veste di diarista-psicologo lo riassume in una paginetta alla fine del libro:

<<Un pezzo in un dato tempo va eseguito con un dato metodo, cioè con movimenti prestabiliti. Ad ogni operaio piacerebbe, d’istinto, arrangiarsi da solo, inventare la sua maniera di correre, ma il cronometrista gli assegna il tempo, e gli insegna, gli impone come raggiungerli; come manovrare l’attrezzo, muovere la mani e i piedi, regolarsi nella successione dei gesti. L’operaio crede che questa costrizione lo rallenti e che, sbrogliandosela da solo, improvvisando, andrebbe più svelto; cerca insomma la sua libertà. Ma il tempo ha la propria ragione…>>.

Per Ottieri dunque l’operaio ritroverà la sua libertà solo quando la ragione sarà tornata ad essere istinto, creatività ed iniziativa spontanea. Un operaio-artista, insomma ben lontano dalla triste immagine cui siamo abituati a concepire quando pensiamo al duro lavoro in fabbrica e ci viene in mente la figura dell’alienato Lulu (interpretato da uno stepitoso Volonté), protagonista del capolavoro di Elio Petri, La classe operaia va in paradiso che racconta l’esperienza asfissiante e atroce della condizione dell’operaio negli anni settanta che è quella narrata da Ottieri in Tempi stretti.

 

L’avvicinamento alla psicoanalisi

Abbandonato il filone “industriale”, Ottieri si dedica alla tematica cronachistica e memoriale esordendo con La linea gotica, con l’obiettivo di indagare in profondità l’”io” nelle sue mille sfumature. Grazie a questa nello stesso anno vince il Premio Bagutta. A partire dalla metà degli anni Sessanta, egli convoglia il proprio amore per la psicologia con l’autobiografismo dando luce ad opere come L’irrealtà quotidiana (1966), saggio romanzesco sulla “malattia morale”, che gli vale il Premio Viareggio. Sulla scia dell’introspezione psicologica scrive anche (Il pensiero perverso, 1971) e Il campo di concentrazione (1972), diario di un lungo ricovero per una grave depressione. In seguito lo scrittore nato a Roma continua la sua indagine esplorando temi satirici e caricaturali come ne Il divertimento (1984), e in Improvvisa la vita (1987). Ottieri raggiunge il traguardo della sua scrittura nel 1996 con Il poema osceno opera costituta da un misto di prosa e versi. Nel 1997 sorprende i suoi lettori con l’opera De morte, un libro provocatorio in cui definisce come suo obiettivo: “La mia unica parola nuova è nominare la morte in un ambiente che la tace per convenienza”. Ottiero Ottieri muore a 78 anni, a causa di un attacco cardiaco, nella sua casa di Milano, il 25 luglio 2002.

Vittorio Sereni, poeta dell’incertezza

“Ci sono momenti della nostra esistenza che non danno pace fino a quando restano informi”. Così motiva la passione per la scrittura  in versi il poeta Vittorio Sereni (Luino, 1913- Milano, 10 febbraio 1983), morto il 10 febbraio 1983 a Milano, all’età di 70 anni.

Trascorre la sua giovinezza a Luino, luogo che ha lasciato la traccia maggiore nella sensibilità del poeta, oltre i luoghi del Lago Maggiore dove Sereni ne trarrà la sua ispirazione più alta. Nonostante ciò, egli considera Brescia la sua seconda patria, città dove sono emersi i suoi primi interessi letterari anche in seguito alla  lettura del grande poeta del Novecento, Giuseppe Ungaretti.

Nel 1933 Sereni si trasferisce nuovamente, questa volta a Milano. È qui che si laurea in lettere ed entra in contatto con numerosi poeti, tra cui Salvatore Quasimodo. In questi anni raggiunge uno dei primi importanti traguardi: il promettente poeta Carlo Betocchi nel 1937 pubblica due sue poesie sulla rivista <<Frontespizio>>.

Nel 1937, il poeta entra, con Dino Del Bo, Ernesto Treccani, Alberto Lattuada, a far parte della redazione di <<Corrente>> dopo aver collaborato alla rivista <<Letteratura>>. Nel 1940 la rivista si trasforma in casa editrice pubblicando nel ’41 la prima edizione di “Frontiera” ed in seguito la ristampa che porta il titolo di “Poesie”.

Riportiamo la poesia “Le mani”, da “Frontiera”:

Queste tue mani a difesa di te:

mi fanno sera sul viso.

Quando lente le schiudi, là davanti

la città è quell’arco di fuoco.

Sul sonno futuro

saranno persiane rigate di sole

e avrò perso per sempre

quel sapore di terra e di vento

quando le riprenderai.

E ancora In me il tuo ricordo:

In me il tuo ricordo è un fruscìo

solo di velocipedi che vanno

quietamente là dove l’altezza

del meriggio discende

al più fiammante vespero

tra cancelli e case

e sospirosi declivi

di finestre riaperte sull’estate.

Solo, di me, distante

dura un lamento di treni,

d’anime che se ne vanno.

E là leggera te ne vai sul vento,

ti perdi nella sera.

Scoppia in questi anni la seconda guerra mondiale e la notizia del conflitto sorprende Sereni a Modena dove insegna italiano e latino in un liceo. Viene richiamato alle armi con il grado di ufficiale di fanteria e nell’autunno del 1941 è assegnato ad un reparto destinato all’Africa settentrionale. Come egli stesso racconta : “non arriverà mai a destinazione”. Il 24 luglio del 1943 infatti, viene fatto prigioniero a Paceco, vicino Trapani e trascorre due anni di prigionia in Algeria e nell’allora Marocco francese, facendo ritorno a casa soltanto a guerra terminata. Nel 1947 pubblica “Diario in Algeria”; ricordiamo la poesia “Dimitrios”:

Alla tenda s’accosta

il piccolo nemico

Dimitrios e mi sorprende,

d’uccello tenue strido

sul vetro del meriggio.

Non torce la bocca pura

la grazia che chiede pane,

non si vela di pianto

lo sguardo che fame e paura

stempera nel cielo d’infanzia.

È già lontano,

arguto mulinello

che s’annulla nell’afa,

Dimitrios, su lande avare

appena credibile, appena

vivo sussulto

di me, della mia vita

esitante sul mare.

L’esperienza della guerra è stata traumatica per il poeta lombardo in quanto ha demolito il suo  giovanile sogno di speranza e di attese, come dimostra la seguente lirica:

Un improvviso vuoto del cuore

tra i giacigli di Sainte-Barbe.

Sfumano i volti diletti, io resto solo

con un gorgo di voci faticose.

 

E la voce piú chiara non e piú

che un trepestio di pioggia sulle tende,

un’ultima fronda sonora

su queste paludi del sonno

corse a volte da un sogno.

Negli anni seguenti Sereni lascia l’insegnamento per lavorare presso l’ufficio stampa dell’azienda milanese Pirelli, dove rimarrà fino al 1958. Nel 1981 esce dall’editore Einaudi il quaderno di traduzioni “Il musicante di Saint-Merry” e altri versi tradotti dall'”Orphée Noir”, da Pound, Char, Apollinaire, Bandini e Corneille. Il lavoro di traduttore di poesie gli farà ricevere, nel 1982, il Premio Bagutta. Nel medesimo anno Garzanti pubblica “Stella variabile” che gli farà vincere il Premio Viareggio. Il 10 febbraio del 1983 muore improvvisamente in conseguenza di un aneurisma.

La poesia di Vittorio Sereni è stata inizialmente inserita  sia nel modernismo minore (anche per l’influenza di poeti quali Ungaretti e Quasimodo), sia nell’ermetismo fiorentino, mostrando oggetti, situazioni e sentimenti diversamente concreti. Tale visione muta con la prigionia e la guerra: il mondo diventa ai suoi occhi indecifrabile, così come si nota in “Diario in Algeria” (la voce parlante e gli elementi lessicali arcaizzanti servono spesso a distanziare la realtà, mentre il ritmo modulato tra una strofa e l’altra, simboleggia la condizione di prigioniero simile a quella dello stato umano). Ne risulta un lirismo sfocato, esitante ma al tempo stesso che induce alla scelta, al coraggio seppur intriso di angoscia ed incertezza esistenziale. Al senso di inadeguatezza e di smarrimento (che lo accomunano a Montale) sia psicologici che ideologici, Sereni contrappone pochi momenti di gioia, dei veri e propri “scatti” che hanno il volto dell’amore e dell’amicizia, che compensano in parte la  sua delusione  ( soprattutto per il fallimento degli ideali socialisti  e democratici in Italia) e il  suo sentirsi prigioniero della storia. Il poeta incerto non riesce a non sentirsi estraneo nel mondo tanto che affermerà: <<Non lo amo il mio tempo, non lo amo>>.

 Molto impegnativo risulta il libro  scritto nel trentennio successivo ,“Gli Strumenti umani”, dove è reso palese il difficile e tormentato dopoguerra del poeta. È possibile al suo interno individuare ben tre periodi distinti: PRIMO MOMENTO (1945-50), ritorno dalla guerra e voglia di cancellare le brutture del passato; SECONDO MOMENTO (1950-60): si alterna il rimorso per non aver partecipato alla guerra e aver vissuto ai margini della vita e dall’ altro il timore di un nuovo imprigionamento; TERZO MOMENTO (1960-65): impegno civile e chiarezza intellettuale. Quest’ultima, ben visibile anche nel tema dei morti, ossia coloro che possono svelare il senso ultimo dell’esistenza ed incoraggiare il poeta ad andare avanti per riempire quel vuoto che si è formato.

Per desiderio del poeta, sono usciti postumi nell’ottobre ’83 “Gli immediati dintorni- primi e secondi”, “Il saggiatore” e nel 1986 “Tutte le poesie” (Mondadori) a cura della figlia Maria Teresa. Nel novembre dello stesso anno Dante Isella raccoglie con il titolo “Senza l’onore delle armi”, (Scheiwiller, Milano), i testi : “La cattura”, “L’anno quarantatré”, “L’anno quarantacinque”, “Ventisei”, “Le sabbie dell’Algeria”.

Sereni, al quale nel 1956 era stato assegnato il premio internazionale “Libera Stampa” per alcune poesie di cui facevano parte i “Frammenti di una sconfitta”, è stato anche redattore-collaboratore della <<Rassegna d’Italia>> e critico letterario di <<Milano-sera>>.

Numerosi saggi, scritti vari, poesie, sono state pubblicate in <<Paragone>>, <<Nuova Corrente>>, <<Tempo Presente>>, <<Il Menabò>>, e in numerose altre riviste e giornali. La figlia Maria Teresa ne ha avviato la raccolta in volume. 

 

Primo Levi: il chimico scrittore che visse l’orrore dell’Olocausto

L’origine ebrea della famiglia eserciterà su Primo Levi (Torino, 31 luglio 1919 – Torino, 11 aprile 1987) una considerevole influenza sulla sua formazione culturale: il padre, ingegnere, determinerà in lui quell’amore per la ricerca scientifica e per la letteratura che costituiscono le componenti essenziali della sua personalità e della sua poetica.

Negli anni del liceo maturano i suoi interessi per le discipline scientifiche e la propensione per il rigore della ricerca. La fascinazione della scienza e in particolare per la chimica lo porterà ad assumere un atteggiamento lucidamente critico ed indagatore nei confronti della realtà, che tanto caratterizza il suo pensiero e il suo modo di scrivere. Nel 1937 si iscrive alla facoltà di Chimica dell’Università di Torino. L’anno successivo esplode in Italia la campagna antirazziale e per il giovane Levi le cose cominciano a cambiare; gli studenti ebrei vengono attorniati da un isolamento frutto di timore e incredulità. Nonostante tutto Levi riesce ad affermarsi come il migliore del suo corso e a conseguire nel 1941 la laurea “summa cum laude”.

Dopo la laurea e fino all’occupazione tedesca del Nord-Italia del settembre 1943, Primo Levi esercita la professione di chimico in condizioni di semi clandestinità, dapprima presso una cava di amianto nei pressi di Torino e successivamente a Milano in un’industria di prodotti chimici. In questi anni viene a contatto con numerosi ebrei e molti intellettuali politicamente impegnati con i quali svolge un’attiva campagna antifascista. L’8 settembre il giorno stesso dell’armistizio Levi lascia il suo impiego, fugge a Torino e si trasferisce in Val d’Aosta insieme alla madre. Qui conosce alcuni giovani appartenenti al movimento “Giustizia e Libertà” e contemporaneamente prende contatto con i partigiani operanti nella zona.

La notte del 13 dicembre 1943 trecento militi fascisti circondano il rifugio dove Levi si trova con i compagni, lo catturano e lo sottopongono a ripetuti maltrattamenti e interrogatori, durante i quali Levi ammette la propria condizione di “cittadino italiano di razza ebraica”; viene trattenuto ed inviato all’inizio del ’44 al campo di raccolta di Fossoli, presso Carpi e successivamente trasferito ad Auschwitz, nell’alta Slesia. Qui dopo una prima selezione, viene destinato al campo di lavoro di Monowitz. La prigionia nel campo si prolunga fino al 27 Gennaio del 1945, quando il fronte tedesco orientale cade in mano all’Armata Rossa e le SS abbandonano il Lager trascinando con loro tutti i prigionieri in grado di affrontare una lunga marcia e lasciando al loro destino ottocento infermi, tra cui Primo Levi. Trascorreranno dieci giorni, prima che una pattuglia russa giunga in vista del campo, dal quale sarà dimesso dopo un mese. Dopo tutto ciò avrà inizio per Levi la tormentosa odissea del rimpatrio che si concluderà all’incirca un anno dopo. Il resoconto delle traversie subite dal giorno della liberazione al suo rientro in Italia costituisce l’argomento del libro “La tregua”. Appena rientrato sente l’urgenza di scrivere i suoi ricordi di prigionia e si dedica con grande fervore alla stesura dell’opera “Se questo è un uomo” che, inizialmente rifiutato da Einaudi, sarà pubblicato nel 1947 dall’editore De Silva grazie all’interessamento di Franco Antonicelli.

In questo periodo viene assunto come direttore tecnico presso un’industria chimica nelle vicinanze di Torino. Sempre in questi anni spose  con una giovane intellettuale ebrea Lucia Morpurgo dalla quale avrà due figli, Lisa e Renzo. Gli anni dal ’56 al ’60 riservano a “Se questo è un uomo” un crescente interesse ed il testo viene nuovamente pubblicato da Einaudi nel 1956, contemporaneamente ad altre scritture memoriali tra le quali il “Diario di Anna Frank”, decretandone un crescente successo in Italia e all’estero.

Questo meritato riconoscimento matura in Levi la consapevolezza di essere uno vero scrittore, destinato a non essere circoscritto ad una sola opera. Nel Dicembre del 1961, infatti, si accinge a scrivere “La tregua” che appare presso Einaudi nel 1963 ed ottiene il Premio Campiello.

Tra le esperienze più felici degli anni seguenti va ricordata la riduzione per la radio italiana di Se questo è un uomo, alla quale collabora personalmente. Nel 1966 una riduzione teatrale dell’opera va in scena al Teatro Carignano di Torino.

Nello stesso anno  lo scrittore torinese pubblica una raccolta di racconti dal titolo “Storie naturali” in cui si mettono in luce le perversioni che l’uomo produce nella storia e contro l’uomo; la raccolta esce sotto lo pseudonimo di Damiano Malabaila, accolto dalla critica con interesse, ottiene il Premio Bagutta nel 1967. Questo è un periodo di intenso lavoro accompagnato da numerose letture, prevalentemente nel campo dell’informazione e della divulgazione scientifica, che confermano come l’interesse in questo ambito corrispondesse in lui ad una precisa esigenza intellettuale coltivata dalla giovinezza agli anni della maturità. Frutto di queste letture sarà la raccolta di racconti “Vizio di forma” apparsi presso Einaudi nel 1971. I racconti fantastici e avveniristici indagano la mancanza di attenzione per i disastri ecologici, per le differenze economiche tra Nord e Sud del mondo e soprattutto mettono a fuoco l’incapacità del pensiero umano di dare risposte ai problemi che la natura e la storia pongono al genere umano.

Nel 1975 pubblica, presso Einaudi, una nuova raccolta di racconti, “Il sistema periodico” un vero e proprio bildungsroman in cui Levi si serve dei principali elementi della tavola periodica per rievocare gli episodi più importanti della propria vita.

Nel 1978 pubblica “La chiave a stella” che vince il Premio Strega.Questo romanzo rappresenta un omaggio al lavoro creativo ed in particolare a quel gran numero di tecnici italiani che hanno lavorato in giro per il mondo a seguito dei grandi progetti di ingegneria civile portati avanti dall’industria italiana dell’epoca Le ultime due opere “Se non ora, quando?” del 1982 racconta le avventure picaresche di un gruppo di partigiani ebrei di origini polacche e russe, che tendono imboscate ai tedeschi per attraversare i territori del Reich sconfitto e giungere a Milano da dove alcuni prenderanno la via della Palestina per partecipare alla costruzione dello stato di Israele. “I sommersi e i salvati” del 1986 in cui riprende i temi della memoria, dell’importanza di raccontare e di testimoniare, in una intensa e dolorosa ricerca Levi cerca di comprende il senso dei campi di sterminio, del bene e del male e di tutto ciò che ha reso possibile la trasformazione dell’uomo in bestia. Nel 1981 Einaudi pubblica “La ricerca delle radici. Un’antologia personale”, e nel 1984 Garzanti  “Ad ora incerta” la raccolta  delle sue poesie.

L’ultimo Levi approda però ad un pensiero tragico, la lotta contro la stupidità, il caos è una lotta impari, destinata alla sconfitta; così la mattina dell’ 11 Aprile 1987 non dovette più trovare ragioni per resistere ad una tale forza tragica; così la tromba delle scale di case gli sembrò una risposta, una definitiva uscita da un mondo senza più speranze.

“La nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo”.

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