“La casa delle belle addormentate”: l’eros di Kawabata

Le opere di Yasunari Kawabata (1899-1972), autore nipponico contemporaneo, sono caratterizzate da accenti scarni e da uno stile sobrio che coniugano allo stilema del romanzo contemporaneo occidentale le radici nipponiche immerse nel buddhismo zen. Kawabata (Bellezza e tristezza, Il suono della montagna, Il paese delle nevi, Una virtù vacillante, Confessioni di una maschera) scrive La casa delle belle addormentate nel 1961 sette anni prima di ricevere il premio Nobel (in Italia è stato tradotto nel 1972).

La trama de La casa delle belle addormentate è alquanto esile: il protagonista del suo romanzo o del suo racconto lungo è Eguchi, un anziano signore che viene a sapere di una casa di appuntamenti a Tokyo in cui i clienti anziani vanno per addormentarsi al fianco di giovani ragazze vergini, che li aspettano nude e immerse in un sonno indotto. Anche per il cliente vige la regola di assumere dei sonniferi per addormentarsi profondamente e evitare qualunque contatto fisico con la fanciulla. Al mattino dopo il cliente deve lasciare casa prima che la ragazza si svegli. Tra il cliente e la ragazza o le ragazze non ci sono rapporti sessuali, non c’è contatto fisico. Questa forma estrema di piacere, così sottile, pudica e obnubilata è legata esclusivamente alla vicinanza e alla condivisione di uno stato indifeso come il sonno.

Questo piacere che si svolge effettivamente solo nell’animo dell’ex gaudente Eguchi, rappresenta il risvolto più affascinante e trascinante della trama; è la soglia di un viaggio sospeso tra sogno e realtà, tra i ricordi e gli accadimenti di tutta una vita. Eguchi si scoprirà fortemente attratto dalla locanda delle ragazze addormentate. Gli incontri si svolgono in un’atmosfera magica, nella luce rossa diffusa dalle tende di velluto, tra memorie e ricordi suscitati da particolari e aromi. Eguchi e il lettore attraversano un piacere sconosciuto, inconsueto, una sessualità non consumata e non sporcata dalle modalità canoniche; si attraversano immagini, fantasie e sogni, si attraversa se stessi. Eguchi si ritrova così immerso nei ricordi della sua vita, dalle nebbie del sonno riemerge il ricordo di un gita insieme alla figlia più piccola, di una relazione con una donna sposata, di immagini dell’infanzia e della giovinezza fino alla maturità che ci fanno intuire il ritratto di un uomo che ha vissuto senza troppi rimpianti ma che si sente solo di fronte alla vecchiaia e alla morte. Il continuo gioco del sonno lo aiuta ad esorcizzare la paura della morte, forse questo l’unico vero e inconsapevole motivo delle fughe alla casa delle belle addormentate.

“Ma era altrettanto certo che, per i vecchi, che pagavano quel denaro, giacere accanto a una ragazza così rappresentava una gioia senza pari. Poiché la ragazza non apriva mai gli occhi, i vecchi non avvertivano nessun complesso di inferiorità per il proprio decadimento, veniva loro concessa illimitata libertà nella fantasia e nei ricordi sessuali. Forse per questo non rimpiangevano di pagare più che per una donna sveglia. E che le ragazze addormentate ignorassero tutto dei vecchi contribuiva alla loro serenità. Ed essi pure ignoravano tutto della ragazza, dalle condizioni di vita al carattere”.

Kawabata incanta con questa rappresentazione insolita, rarefatta, proustiana per il modo di ricordare del protagonista, e meravigliosamente amara dell’eros, lusinga con immagini velate e parole sottili, che sottendono ma non sempre dicono per poi sorprenderci con una conclusione imprevista, o forse l’unica possibile. La vecchia e celebre Bella addormentata di Perrault diventa qui dieci, venti ragazze e l’immagine della principessa vittima del sortilegio si trasforma e si moltiplica nei volti delle inconsapevoli e complici bellezze nipponiche.

Addio a Gunter Grass, sguardo dolente sul mondo contemporaneo

Si è spento lunedi 13 aprile 2015, a 87 anni, a Lubecca, lo scrittore Premio Nobel Günter Grass, coscienza critica della democrazia tedesca dopo la tragedia del nazismo e voce della generazione che ha ereditato le atrocità del nazismo. Poeta, scrittore, saggista, drammaturgo e scultore, Grass era nato Danzica nel 1927, dove, tra 1946 e 1947, ha lavorato in una miniera e ha imparato a scolpire. Ha studiato scultura e grafica, prima a Düsseldorf, presso l’Accademia delle Belle arti, poi a Berlino. Dal 1983 al 1986 è stato presidente dell’Accademia delle arti di Berlino.

Per la sua opera letteraria ha ricevuto dozzine di premi internazionali, tra i quali il Premio Grinzane Cavour nel 1992 e il premio Nobel nel 1999 perché «era come se alla letteratura tedesca fosse stato concesso un nuovo inizio dopo decenni di distruzione di linguistica e morale».
L’indimenticabile Il tamburo di latta (che insieme a Anni di cane e a Gatto e topo costituisce la trilogia Danzica) è, come ha scritto Dario Fo“libro eccezionale in cui c’è disperazione, forza, ironia” e racconta la storia del bimbo-nano Oskar Matzerath, vero anticipatore del Sessantotto, che ci lascia percorrere, attraverso la sua dura vicenda familiare, la storia di Danzica, luogo multietnico in cui polacchi, tedeschi e kashubi convivono tra tensioni e fatiche. Da Diario di una Lumaca ad Anestesia locale, da Il rombo al Passo del gambero, Grass ha raccontato con tenacia e sincerità le ambiguità e le contraddizioni della Germania moderna, conferendo ai suoi personaggi una dimensione non solo politica ma anche filosofica-letteraria pessimistica, tutta tedesca.

Sguardo dolente sul mondo contemporaneo, intellettuale spesso criticato per le sue posizioni politiche, di tedesco di una certa sinistra occidentale (lo scrittore non ha mai visto di buon occhio l’unificazione della Germania), Gunter Grass è stato pienamente un figlio, infantilmente arrabbiato, del suo tempo, nato dalle colpe della Germania della quale non poteva non incarnare tutte quelle contraddizioni e quelle difficoltà che hanno costituito l’essenza del secondo dopoguerra. Nei suoi libri si fondono le lacerazioni dell’animo tedesco e la forza visionaria di radice polacca e slave, le note espressioniste fosche unite all’ironia, ci hanno regalato una scrittura magmatica e ricca, realistica ma anche deformata e ossessiva. Il narrare di Grass è metaforico di una realtà che non riesce a fare i conti col proprio tragico passato, che vuole dimenticare ma che rivive e che si scontra costantemente tra desideri e incertezze. C’è sempre tutto questo nei suoi libri, una lunga geniale e forse mai conclusa analisi di come la guerra ha cambiato la Germania e il mondo e una voglia di non arrendersi ad un mondo dominato dagli altri e da persone che non sanno vivere.

Il fantastico mondo di Laxness: quale Dio “sotto il ghiacciaio?”

Sotto il ghiacciaio: un romanzo irriverente di difficile collocazione: fantascienza? Allegorico? Religioso? Forse c’è un po’ di tutto questo nel romanzo del premio nobel del 1951 dello scrittore islandese Halldór Laxness.

L’interpretazione della storia che si articola in Sotto il ghiacciaio, scritto nel 1968, non è di facile comprensione: a tratti appare quasi come un giallo da risolvere. In effetti è proprio quello che è chiamato a fare il protagonista, studente di teologia, inviato dal vescovo d’Islanda nel lontano ovest, ai piedi del leggendario vulcano Snæfell, dove Jules Verne fece iniziare il suo viaggio al centro della terra. Giunta infatti notizia che il pastore della chiesa locale non celebra più battesimi e funerali, insomma sembra esserci qualcosa che non va.

Il giovane studente si troverà quindi ad essere un reporter in una terra difficile, fuori dall’ordinario: dovrà tentare di capire cosa si annida tra la gente del luogo e cosa spinge il pastore a comportarsi in maniera così strana. Verrà quindi a contatto con le varie persone del luogo, vivrà per un certo periodo di tempo “sotto il ghiacciaio” e si farà una idea degli usi e costumi dei queste genti.
Il famigerato “culto del ghiaccio”, che sembra aver soppiantato il cristianesimo, è una dottrina sfuggente, che nel corso del racconto non è mai spiegata in maniera chiara. I dialoghi e gli argomenti sono di difficile comprensione, ma, una volta inseritisi nella “mentalità” delle vicende, anche i concetti più strani si definiscono con una loro logica.

È il panteismo contro la dottrina di Dio: lo strano reverendo John  afferma che “un dio vale l’altro, tranne quello che risponde alle preghiere” e non riesce a dare una spiegazione compiuta di cosa volesse dire che dio è in ogni luogo. È questo quello su cui gioca Laxness: una indefinitezza di fondo, una allegoria totale verso un qualcosa che non può mai essere del tutto compreso.

La contrapposizione che ne esce fuori, dottriva vs misticismo, è da leggere in prospettiva ampia, senza badare troppo ai particolari, lasciandosi trasportare dalla narrazione a volte di echi bucolici, a volte di echi favolistici (suggestiva la descrizione del paese e del suo ghiacciao).
Il mondo  paradossale, onirico, spirituale, dove succedono cose strane, si dicono cose strane, e non mancano personaggi davvero stravaganti: riuscirà l’inviato-teologo a raccapezzarsi? Forse Laxness ci vuole far capire lo spaesamento di ritrovarsi in un mondo che non riconosce più la fede millenaria nel Dio cristiano. L’idea del pellegrino che va e che scopre altri mondi è strettamente moderna, ma si ricollega, in questa occasione, a un tutto panteistico, l’uomo che fa i conti con le profondità del pensiero religioso, seppur in maniera favolistica.

Ad ogni modo ne viene fuori  una visione ironica e onirica, proprio perché i dialoghi tra i personaggi assumono le caratteristiche di una assurda complessità, incomprensibile, impenetrabile: il modo di affrontare il tema della crisi della religione, da parte di Laxness, definito da molti “sincero credente ma dubbioso cattolico”, lascia col sorriso, e forse solo dopo aver completato tutta l’immersione nel mondo da lui descritto, ci si può rendere conto della sua idea sulla religione, particolare e criptica.

 

Nobel per la letteratura a Patrick Modiano

“Per l’arte di ricordare con cui ha evocato i destini umani più inafferrabili e svelato l’universo dell’Occupazione”.

Questa la motivazione che ha accompagnato ieri l’annuncio dell’ assegnazione del premio Nobel per la letteratura allo scrittore francese Patrick Modiano, considerato dalla critica un Marcel Proust del nostro tempo, e sconosciuto in Italia. Scelto tra 210 scrittori, 36 dei quali candidati per la prima volta, il vincitore Patrick Modiano, preferito al giapponese Murakami,  è un ebreo francese di origini italiane nato nel 1945 a Boulogne-Billancourt. Modiano è cresciuto principalmente dalla madre per la relazione complicata dei genitori.

Colui che ha iniziato Modiano alla letteratura è stato lo scrittore e matematico francese Raymond Queneau amico della madre. Modiano pubblica il suo primo romanzo La Place de l’Étoile nel 1968, il cui manoscritto era stato rivisto dallo stesso Queneau. Vi si racconta la storia di Raphaël Schlemilovitch, un ebreo francese nato subito dopo la guerra e ossessionato dal periodo bellico e con manie di persecuzione. La storia stessa è raccontata dal protagonista, che mescola finzione e realtà in molte parti della narrazione. Il libro non ebbe molto successo e ancora oggi sono rare le sue traduzioni in altre lingue.
Nel maggio del 1968 Modiano partecipa al movimento di rivolta come inviato di Vogue. Negli anni Settanta collabora alla scrittura della sceneggiatura del film Lacombe Lucien, candidato al premio Oscar come migliore film straniero nel 1974. Ha scritto le sceneggiature di diversi altri film, alcuni tratti dai suoi romanzi, come Il profumo di Yvonne (1993) tratto da Villa triste scritto nel 1975 e numerosi testi per i film di Louis Malle e Patrice Leconte, ed è stato anche paroliere per Françoise Hardy.

Molti dei suoi romanzi sono ambientati nella Francia occupata dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1978 il romanzo Rue des boutiques obscures ha ottenuto il Premio Gouncourt, e nel 1996 la sua intera opera ha ottenuto il Grand Prix national des lettres, i riconoscimenti letterari più importanti della Francia. Si tratta inoltre di uno dei pochi autori viventi i cui romanzi sono stati pubblicati insieme nella prestigiosa edizione Gallimard, Quarto. I protagonisti dei suoi racconti sono spesso ispirati alla figura, mitizzata, del padre che fu arrestato nel 1943 dai nazisti e che riuscì a sfuggire alla deportazione nazista, probabilmente grazie ad alcune conoscenze tra i collaborazionisti. I personaggi di Modiano vivono spesso tra grandi ambiguità e contraddizioni.

La memoria insieme alla figura dello straniero e dell’esule, sono i temi predominanti nelle sue opere, nelle quali spesso echeggia il sapore amaro dell’occupazione della Francia e dei casi di collaborazionismo con il regime di Vichy. Senza dubbio si tratta di tematiche inflazionate e magari qualcuno penserà che si tratti di un altro premio alla lobby ebraica, senza tenere presente che non è il “cosa” che rende un romanzo degno di essere annoverato nella letteratura mondiale, ma il “come”. L’autore francese adotta una scrittura nitida e musicale per descrivere i suoi fragili e misteriosi personaggi, partendo dai loro ricordi ma Modiano non si è mai distaccato molto da queste questioni nel corso della sua carriera.

In Italia sono usciti per Einaudi i titoli L’orizzonte (2012), Nel caffè della gioventù perduta (2010), Un pedigree (2006) e Bijou (2005), mentre a dicembre uscirà il suo penultimo romanzo, L’erba delle notti . La sua opera più recente, Pour que tu ne te perdes pas dans le quartier (2014), uscirà nel 2015.

 

 

Cecità: il degrado umano secondo Saramago

Josè Saramago

Considerato il capolavoro dello scrittore portoghese Josè Saramago, Premio Nobel per la Letteratura nel 1998, Cecità è un racconto-denuncia sulla violenza, la sopraffazione del potere, e la sospensione della ragione dal respiro universale.

In un tempo e un luogo non precisati,  l’intera popolazione, improvvisamente, diventa cieca per un’epidemia le cui cause sono oscure. Le persone colpite da questo male si trovano come avvolti in una nube lattiginosa e non ci vedono più. Le reazioni psicologiche dei protagonisti che non vengono mai identificati con i loro nomi, sono devastanti;  un’esplosione di terrore, panico e  violenza, e gli effetti della  patologia sulla convivenza sociale si riveleranno drammatici. I primi colpiti dal male vengono infatti rinchiusi in un ex manicomio per la paura del contagio e l’insensibilità altrui, e proprio in queste pagine Saramago mette in luce in maniera chirurgica tutto l’orrore di cui l’uomo è  capace. Nel suo racconto fantastico, lo scrittore portoghese  disegna la grande metafora di un’umanità bestiale e feroce, incapace di vedere e discernere; tutto questo porta all’ abrutimento, alla violenza, al degrado umano. Cecità rappresenta il trionfo della bestialità sulla razionalità umana, ma con uno spiraglio di speranza.

“La ragazza con gli occhiali scuri”, “la moglie del medico”, “il primo cieco”, “il vecchio con la benda nera”, Saramago definisce in questo modo i suoi personaggi, quasi a voler dimostrare come la società moderna non tenga in  considerazione l’identità delle persone, ridotte a bestie in lotta tra loro per la sopravvivenza, buttati per dirla alla Heidegger, nel mondo e dominati dall’angoscia, sentimento che tiene viva per l’uomo la minaccia della morte. Come fronteggiare tutto questo? Come uscirne? Scegliendo, dando un senso nuovo alla vita, cercando la luce e la salvezza della razionalità rappresentate da una donna ancora vedente. Lo scrittore fa coincidere  la cecità degli occhi e della razionalità con quella dell’anima dando scacco matto al potere, che a questo punto non serve più a nulla, vivendo tutti lo stesso incubo.

Tradizione e originalità si mescolano: la prima è data dal ruolo salvifico della donna, una moderna Beatrice e la seconda soprattutto nel linguaggio crudo, duro, destabilizzante (assenza di virgolette nei dialoghi, di punteggiatura, di paragrafi) che conferisce maggiore spietatezza al romanzo, in perfetta linea con la spietatezza del potere e degli uomini.  Cecità potrebbe  disorientare il lettore con il suo stile “animalesco” che però conduce alla commozione e al coinvolgimento emotivo, ma certamente è un libro da leggere assolutamente; Josè Saramago ci fa odiare noi stessi, è riuscito a rendere osceni, mostruosi e scandalosi quei comportamenti umani, resi anche con una certa fascinazione (“la banalità del male”) a cui purtroppo siamo abituati, davanti ai quali troppo spesso scrolliamo le spalle. Da questo punto vista Cecità è un’opera altamente morale che offre l’occasione per potere riflettere anche su tematiche filosofiche, antropologiche e religiose senza appesantire la narrazione.

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