‘Chi dice e chi tace’ di Chiara Valerio o della non qualità dei libri del Premio Strega

Chiara Valerio ha sempre avuto tutte le carte in regola per poter arrivare nella sestina del Premio Strega: è nota per essere fra le intellettuali più amate dalla sinistra, storica amica di Michela Murgia, così come del segretario del PD Elly Schlein, editor di Marsilio, in prima linea per i diritti della comunità LGBTQ+, sceneggiatrice del film Mia madre (2015) di Nanni Moretti, autrice di 14 libri, così come di un divertentissimo articoletto (tanto per tenere alta la fama di scrittrice impegnata antifascista) su Repubblica dello scorso anno dal titolo Il fascismo nel sangue” dove fra le altre cose scriveva: “Non mi viene in mente niente di più fascista del sangue. Il sangue che stabilisce parentele, gerarchie, eredità, tradizioni. Il sangue che consente di mantenere i privilegi…” Che delirio.

A leggere Chi dice e chi tace sembra davvero inspiegabile, dal punto di vista strettamente stilistico e contenutistico, che sia stato anche solo preso in considerazione nella dozzina del premio letterario più importante d’Italia. Ma tant’è, Chi dice e chi tace è arrivato addirittura terzo.

Chi dice e chi tace, è un tripudio di strafalcioni, frasi fatte e sperimentazioni linguistiche del tutti velleitari. Una prosa ed espressioni dimenticabili (“Mi salivano domande che non mi sono mai fatta”, “la madre non è certissima nel cattolicesimo”, “Di Gesù per esempio è più certo il padre”), per una trama confusa che ruota intorno alla figura di Valeria, una donna carismatica che arriva all’improvviso nella località marina di Scauri, con una giovane amica al seguito. Valeria lavora in una farmacia, ma sa di medicina più di parecchi medici, ama la natura, i fiori del suo giardino, ama le partite a carte al dopolavoro ferroviario e le lunghe nuotate solitarie. Dovrà misurarsi con un mistero che riguarda la morte di una donna in una vasca da bagno.

Il romanzo vorrebbe essere un noir esistenziale che racconta di una comunità del sud Italia a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, fatta di silenzi ma a in realtà sembra un memoriale ambizioso che non ce la fa a spiccare il volo verso il genere giallo o thriller e a fissare modelli e visioni universali. La confusione è data soprattutto dall’impossibilità di distinguere il tempo della narrazione da quello della scrittura che rende insofferente il lettore, complice una paratassi troppo insistita che non crea tensioni narrative, anzi le dilegua in un malessere esistenziale al femminile ripetitivo e fastidioso:

<<Ma mò che è questa ossessione? C’è qualcosa che non capisco, Lea, amore mio, Vittoria è morta.

E se invece fosse piaciuta lei a me?

Ti piaceva Vittoria? Non lo so.

E non puoi più saperlo, Lea, amore mio, Vittoria è morta. Ma io devo saperlo, Luigi, sono viva>>

 

Con Chi dice e chi tace, ci si trova ancora una volta di fronte a prevedibili meta-narrazioni, viaggi nell’io più profondo che escludono il gusto dell’invenzione letteraria.

Chiara Valerio veste i panni di una nipotina smarrita di Italo Svevo, passando dal narrato al dialogo per addentrarsi “dentro le cose” con morbosità, risparmiando al lettore colpi di scena, arrivando, come aveva auspicato il Direttore della Fondazione Bellonci, all’inclusività! La quale si manifesta tra Lea e Vittoria in una relazione ideale e platonica. Infatti Lea indaga per sapere semplicemente se è stata davvero attratta da Vittoria, lesbica dichiarata. Dal noir che si pensava inizialmente di dover leggere si passa al romanzo sentimentale più puerile che si potesse immaginare.

Nel trionfo del politicamente corretto il marito di Vittoria, un ricco avvocato, risulta, in quanto uomo, un pervertito (una bella bordata al patriarcato non la diamo?), e un’amica insospettabile di nome Filomena, appare anche lei prossima all’omosessualità., salvo poi dichiarare che le piace “il pesce”.

Insomma anche quest’anno il Premio Strega conferma la sua vocazione al gioco remunerativo e al familismo e non lo si può considerare un metro con cui misurare la reale qualità letteraria italiana.

 

Strega 2024, tra età fragili, storielle ruffiane e figuracce

Non vogliamo girarci intorno e diciamo schiettamente che la vittoria annunciata (avrebbe meritato “Invernale” di Dario Voltolini) del romanzo della scrittrice abruzzese Donatella di Pietrantonio, L’età fragile, pubblicato da Einaudi e già vincitore dello Strega giovani, è in linea con la qualità libraria italiana degli ultimi decenni: abbastanza mediocre.

Anche quest’anno il Premio Strega è partito sotto l’egida dell’analfabetismo funzionale, esordendo con una dichiarazione quanto mai imbarazzante e irrispettosa del Presidente della Fondazione Bellonci Stefano Petrocchi, il quale a chi, ha fatto giustamente notare l’assurdità del regolamento del Premio Strega, con 81 libri proposti da leggere in 30 giorni, ha risposto citando nientemeno il film “American Fiction”, premiato agli Oscar 2024. American Fiction è un film satirico sull’assurdità del momento storico in cui viviamo; American Fiction di una cultura ancella dell’ideologia, dove non conta la qualità dell’opera ma il ruolo sociale dell’autore, dove la retorica dell’inclusività è diventata strategia di marketing, per cui nelle librerie ci sono le etichette sugli scaffali con la scritta “libri scritti da donne”.

E infatti il protagonista viene invitato – in quanto nero, – a far parte della giuria del premio in questione; dove ascolta boriosi intellettuali lanciarsi in lodi che sono concentrati di retorica, mentre i giurati si lamentano della grossa mole di libri che tocca loro leggere, arrivando ad un accordo per leggere solo le prime 100 pagine di ogni volume.

Eterogenesi dei fini. La medesima situazione del Premio Strega, ben illustrata dal Presidente della Fondazione Bellonci l quale dimostra, secondo lui, che tutti sanno che i giurati dei premi non leggono davvero i libri, e solo chi ha una concezione “stupida” della lettura può pensare il contrario.

il Direttore ha seguitato nel vantarsi di quanto il Premio Strega sia “inclusivo”, di quante donne siano candidate e non da oggi, dimostrando ancora che chi ha dato adito a quel modo di pensare è esattamente l’oggetto della satira di “American Fiction”,

Incredibile ma vero. Come è vero che ha vinto un libro la cui autrice, certamente ha un ruolo sociale importante nella comunicazione e nei salotti italiani che contano. Senza trascurare il fatto che è una donna.

L’età fragile è un romanzo modesto, dispersivo, contorto e involuto soprattutto a causa dell’insistenza dell’autrice di concentrarsi spesso su piccoli concetti cominciati e mai portati a termine.

Anche l’operazione di spostamento della narrazione dallo “sfondo” al “primo piano”, risulta poco convincente e inefficace giacché Di Pietrantonio usa sempre la prima persona singolare e il presente indicativo e il passato prossimo.

La tecnica narrativa adottata da Donatella Di Pietrantonio si rifà alle forme del new journalism americano che confida nell’io-narrante per la resa della storia per raccontare un dramma famigliare e il difficile rapporto dell’“io narrante” madre con l’inquieta figlia Amanda, che si trova nell’età fragile, appunto.

La vicenda famigliare si unisce alla lotta per la difesa del proprio territorio dalla speculazione edilizia. Anche in questo romanzo è presente l’Abruzzo dell’autrice, la novità, tuttavia, rispetto ai precedenti romanzi, è nello spostamento dello sfondo dall’asse città-paese a quello paese-bosco di montagna, luogo ideale dove si consumano fatti oscuri e dare in questo modo una pennellata noir alla storia.

Ma Di Pietrantonio mischia troppi generi (addirittura nella parte finale fa capolino il fantasy) perché ne possa prevalere uno in maniera risolutiva, come se l’autrice volesse dire che in fondo l’esito della storia non può avere un senso.

Senza dubbio ancora una volta l’autrice dimostra l’impossibilità di tagliare il cordone ombelicale con la propria terra, presentando personaggi bizzarri che appaiono e scompaiono, con i quali è difficile empatizzare.

L’età fragile è uno sfogo di mugugni, recriminazioni, incomprensioni. Un groviglio espositivo con diverse forzature. Perché una ragazza di venti anni che non studia, non lavora, dorme tutto il giorno per poi vagare per casali altrui è fragile? Se la causa della fragilità di sua madre Lucia è da trovare in un fatto di cronaca nera (avvenuto nel 1997 per mano di un pastore macedone che uccise due ragazze padovane), non si riesce a capire i motivi della “fragilità” di Amanda che sembra essere la classica ragazza svogliata che sublima il proprio malessere.

Inoltre l’esperienza personale del rapporto con la propria madre in un determinato momento storico fa testo solo per la persona che lo racconta. Le variabili sono molte: la geografia, la società, la cultura, l’economia, la politica. Il contesto dell’Età fragile è diverso da quello di oggi e di conseguenza la storia narrata non può configurarsi come un modello universale, come una memoria collettiva profonda.

Insomma anche quest’anno il Premio Strega conferma la sua vocazione al gioco remunerativo e al familismo e non lo si può considerare un metro con cui misurare la reale qualità letteraria italiana. Il non apprezzare molti libri di oggi, spacciati dai grandi giornali nazionali come capolavori, non è solo una questione di stile e di trame dispersive, ma di rifiuto delle mode nella scelta delle tematiche trattate con retorica e superficialità, al servizio di storie quotidiane ripiegate su se stesse, intrise quasi sempre di autobiografismo e ruffianeria.

 

Sulle stile di Tommaso Landolfi: sinuoso e avventuroso

Tommaso Landolfi scrive e pubblica negli stessi anni di Giuseppe Dessì. Anche lui è un autore poco conosciuto dal grande pubblico, complice il carattere schivo. Nasce a Pico, in provincia di Frosinone, e perde la madre in tenera età. Si laurea in letteratura russa a Firenze, discutendo una tesi sulla poetessa Anna Achmatova, ed ha modo di entrare in contatto con un ambiente letterario molto ricco, e ciò influisce molto sul suo modo di scrivere: egli inizia la sua attività letterario durante il ventennio fascista, periodo molto “chiuso” a causa dello stretto contatto con le letterature straniere.

Nel capoluogo toscano Landolfi collabora a diverse riviste letterarie, come Campo di Marte e Letterature. Il demone del gioco è al centro della sua produzione letteraria, così come della sua vita, e anche la vanità umana. Salvo brevi soggiorni all’estero, si sposta prevalentemente tra Roma e Firenze.

Ha un’esistenza appartata, lontana dai salotti intellettuali e mondani, ma nonostante ciò viene a contatto con molti intellettuali, tra cui lo stesso Calvino, che ne curerà un’antologia nel 1982. Anche Carlo Bo ci fornisce molte informazioni su Landolfi, definendolo un personaggio avvolto nel mistero, privo di una posizione politica. Nel 1963 vince un premio letterario, il premio Montefeltro. Nel 1975, lo scrittore ottiene il massimo riconoscimento della sua carriera artistica: con A caso vince infatti il Premio Strega.

Landolfi si ammala, complice anche il clima umido di Pico, e cerca sollievo nelle località liguri di San Remo e Rapallo. Si spegnerà a Ronciglione (Viterbo) l’8 luglio 1979. Il patrimonio letterario lasciato in eredità diviene oggetto di continuo studio e di riedizioni, a opera di Idolina Landolfi. La figlia di Tommaso, si occupa per tutta la vita della cura e della promozione dei testi paterni, fondando nel 1996 il Centro Studi Landolfiano.

Dello scrittore «molto bello e molto pallido» (Natalia Ginzburg) ormai non si può non parlare negli educati circoli dei letterati italiani, e questo rende Tommaso più antipatico di quanto non lo fosse (davvero) quand’era ignoto, ignorato e desideroso di esserlo. Per questioni di diritti Landolfi non fece parte del mucchio selvaggio: lo sostituii con il più algido Federigo Tozzi. Successivamente, i diritti sono venuti al pettine: l’editore Adelphi ha pubblicato Viola di morte (2011), la prima raccolta poetica di Tommaso, edita nel 1972, a cui seguì, nel 1977, in quanto «grave e terribile seguito» (parole sue), Il tradimento (ora Adelphi, 2014), libro ben più bello (che tra l’altro, per quel che conta, ottenne un premio Viareggio).

Italo Calvino paragona l’attività letteraria landonfiana a quella degli scrittori francesi di fine ottocento, mentre Carlo Bo ha più volte dichiarato che Landolfi, subito dopo d’Annunzio, è il primo scrittore in grado di giocare con la lingua italiana. Molti altri critici, hanno associato il macabro presente il Landolfi, a quello dell’autore Edgar Allan Poe.

Lo scrittore toscano ha saputo giocare con la lingua, plasmando le regole della grammatica a suo piacimento, e nei suoi scritti la tradizione, celebrata con periodi sinuosi e formalmente impeccabili, si alterna alle più originali sperimentazioni che, per la loro natura sorprendente e provocatoria, sembrano quasi voler sfidare le risorse della lingua. Le parole per Landolfi sono vive: saltellano gioiose da un periodo all’altro, sempre alla ricerca di nuove avventure.

I temi delle sue opere spaziano dal fantastico al grottesco, dall’insolito al raccapricciante, dall’illogico all’assurdo. Il suo profondo scetticismo verso il reale si esprime nell’arte con il ricorso al gioco e allo scherzo, che mettono in campo un’ironia dissacratoria e inarrestabile. Della quotidianità, i suoi testi valorizzano gli aspetti stravaganti e onirici.

I critici hanno finito per definirlo un surrealista, per via della sua indifferenza verso il clima politico degli anni della Seconda Guerra Mondiale. Sebbene la definizione sia indubbiamente semplicistica, alimentata in gran parte dal netto contrasto fra il suo atteggiamento disinteressato e il tenace attivismo di diversi suoi colleghi, qualcosa di vero c’è: come molti altri artisti, infatti, si sentiva estraneo al suo tempo, giudicato come oscuro e, a tratti, perfino incomprensibile.

Addio allo scrittore napoletano Raffaele la Capria, amante dell’indefinito e di coraggiosi fallimenti

Lo scrittore e sceneggiatore napoletano Raffaele la Capria se n’è andato il 27 giugno 2022 all’età di 99 anni. Con lui se ne va un’idea della città di Napoli come metafora della vita, tra vizi e virtù. Lo scrittore legato all’attrice Ilaria Occhini (nipote abiatica per parte materna di Giovanni Papini, scomparsa nel 2019) per 58 anni, che ha raccontato “l’armonia perduta” per spiegare il suo rapporto con la città che “ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme”, descritto magnificamente nel suo romanzo più celebre, “Ferito a morte”, che gli valse il Premio Strega nel 1961, considerava quello dello scrittore un atteggiamento cognitivo-emotivo, un lavoro conoscitivo del mondo.

Un giorno di impazienza, il Realismo di La Capria

Già con il primo romanzo Un giorno di impazienza, la Capria si contraddistingue per la sua adesione al Realismo in modo distaccato. Infatti il ragazzo protagonista del romanzo comprende di avere un appuntamento con la realtà che si trova oltre l’adolescenza e nel raccontare la storia, l’autore napoletano lo dice esplicitamente ai lettori identificando la realtà in Mira, la quale guizza da tutti le parti senza farsi prendere.

La Capria lascia rivelare le cose attraverso il corpo, perché il suo protagonista è ansioso di trovare punti fermi e di conoscere se stesso “pura presenza in vuota capienza”, descrivendo l’accesso alla maturità in modo allusivo. La giovinezza è sospesa su un trampolino di possibilità  che la protendono nel mondo ma è tutta raccolta in se stessa, mai messa alla prova del salto mortale.

In Amore e Psiche ad un certo punto lo scrittore fa coincidere voce narrante e la mente narrante combaciano, si sovrappongono, perché non è detto che voce narrante e mente combacino e di certo un romanzo è un gesto con il quale si può esprimere la cognizione dell’ignoranza rispetto al destino. In tal senso Amore e Psiche è il romanzo più aperto di La Capria, scritto in presa diretta.

Ferito a morte e il rapporto con Napoli

La vicenda narrata in “Ferito a morte”, elegante romanzo dalla non facile lettura, che parla del declino morale e fisico di Napoli, e di un’epoca, si svolge nell’arco di circa undici anni, dall’estate del 1943, quando, durante un bombardamento, il protagonista Massimo De Luca incontra Carla Boursier, fino al giorno della sua partenza per Roma, all’inizio dell’estate del 1954. Tra questi due momenti il racconto procede per frammenti e flash, ognuno presente e ricordato, ognuno riferito a un anno diverso, anche se tutti sembrano racchiusi, come per incanto, nello spazio di un solo mattino: la pesca subacquea, la noia al Circolo Nautico, il pranzo a casa De Luca… Negli ultimi tre capitoli vi è poi come una sintesi di tutti i successivi viaggi di Massimo a Napoli, disincantati ritorni nella città che «ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme»; nella città che si identifica con l’irraggiungibile Carla, con il mare, con i miti della giovinezza.

Se, come ha scritto E.M. Forster, «il banco finale di prova di un romanzo sarà l’affetto che per esso provano i lettori», quella prova “Ferito a morte” l’ha brillantemente superata: libro definito dal suo stesso autore «non facile», cult per molti critici e scrittori, è stato ed è anche un libro popolare, amato e letto, con grande adesione sentimentale, da lettori che poco sapevano di questioni letterarie, ma vi ritrovavano la loro stessa nostalgia per un paradiso perduto e per una «giornata perfetta». Un libro, insomma, di iniziazione, di rivelazione e di scoperta dal valore universale.

Raffaele la Capria, insieme a Pasolini, Morante, Svevo, Pavese, fa parte di quella geografia letteraria segnata dal bisogno di autodenigrarsi, farsi piccoli, di contrabbandare la propria maturità che si acquisisce con la vita e la scrittura come dimostra anche il romanzo False partenze.

La formazione di La Capria tra istinto, consapevolezza e predilezione per l’indefinito

La storia di la Capria è quella di un lungo apprendistato nel corteggiamento della realtà mediante il linguaggio, la storia di una seduzione che lo ha portato a scrivere anche sceneggiature per film importanti quali  Le mani sulla città (1963),  Uomini contro (1970) e Ferdinando e Carolina e a vincere oltre al premio Strega, il Premio Campiello alla carriera, il Premio Chiara, sempre alla carriera, il Premio Viareggio per la raccolta L’estro quotidiano, il premio Alabarda d’oro alla carriera per la letteratura e il Premio Brancati.

La cifra di questo grande scrittore sta nell’aver saputo creare sulle pagine armonie acustiche sempre differenti ma riconoscibili, seguendo l’insegnamento di Faulkner, secondo cui la coincidenza tra opera e progetto è impossibile, ed è proprio questa la visione dell’opera di uno scrittore che si rispetti. Di qui il suo impulso a rompere i libri, a decentrarli, ad elevarli come “coraggiosi fallimenti”. Ne risulta spesso una scrittura irrequieta, scaturita da un disordine calcolato, il cui obiettivo è riprodurre le lacune, le ripetizioni cicliche e le asimmetrie della vita vissuta.

Raffaela la Capria è un sistema mobile di configurazioni che protegge nel grigiore le proprie ragioni e i propri sentimenti percettivi della realtà, soprattutto di quella della sua Napoli: usando la sostanza buia cela e dissimula la lucidità dello sguardo il quale si ritrova in uno spazio dispersivo, in cui è difficile orientarsi. La grandezza di La Capria va ricercata non tanto nel romanzo, ma in ciò che ha dato forma al romanzo e quindi anche nel suo apprendistato.

Per molto tempo Raffaele la Capria ha raccontato l’io smarrito, ma da Armonia perduta in poi, lo scrittore diventa più consapevole, più percettivo, senza mai smettere di prediligere l’indefinito, il fortuito, il non totalizzante.

 

Fonte https://www.academia.edu/4715094/Raffaele_La_Capria_mente_narrante_in_corpo_vivente

 

“Due vite” di Emanuele Trevi vince lo Strega 2021. Un vero romanzo che è un atto di fede verso l’amicizia e uno strappo alla regola

Finalmente vince un romanzo vero. Alla proclamazione del vincitore la conduttrice ha avuto timore di pronunciare la casa editrice che ha avuto il merito di pubblicare Due Vite di Emanuele Trevi, ovvero Neri Pozza, e ha menzionato la più rassicurante Einaudi.

Due vite è molto di più, e molto meglio, di quelli che minacciano di essere un romanzo. Non è questione di esercitare a tutti i costi il ruolo del bastian contrario, che in un Paese vocato al pascolo come questo causa pur sempre molti disagi. Si tratta piuttosto di saper individuare e riconoscere, nel libro di Emanuele Trevi, un’armonia antica e non esibita, un talento indiscutibile ma non ingombrante, una pazienza pesata come l’oro, una grazia presente ma non ossessiva, un equilibrio non pedagogico e una spettinatura calva: prerogative involontarie dei grandi libri.

Due vite: trama e contenuti

La sinossi del libro: Rocco Carbone nasce a Reggio Calabria nel febbraio del 1962, ma una buona parte della sua infanzia la trascorre in un piccolo paese dell’Aspromonte, Cosoleto: un posto di gente dura, taciturna, incline a una rigorosa amarezza di vedute sulla vita e sulla morte. Emanuele Trevi lo conosce nell’inverno del 1983, quando è arrivato a Roma da poco tempo e si è iscritto a Lettere.

Parlare della vita di Rocco, per Trevi, significa necessariamente parlare della sua infelicità, ammettere che faceva parte di quella schiera predestinata dei nati sotto Saturno, tratteggiarne la personalità bipolare e a tratti sadica, il carattere spigoloso, la natura lucida e sintetica dell’opera. Pia Pera cresce a Lucca in una famiglia colta, originale ed eccentrica. Poco più che adolescente lascia la città toscana e studia Filosofia all’università di Torino.

Dopo un dottorato in storia russa alla University of London inizia a insegnare letteratura russa all’Università di Trento, ma poi, delusa dall’ambiente, lascia perdere ogni ambizione accademica e decide di occuparsi di un fondo abbandonato a San Lorenzo, dedicandosi alla cura del giardino.

Quando Trevi la incontra, Pia è una trentenne spavalda e maldestra, brillante, anticonformista e generosa. Ma già possiede quella leggerezza e quella grazia di chi, mentre la malattia costringe alla resistenza continua, sa correre sempre in avanti, verso l’altrove. Tratteggiando, con affetto, le vite dei due amici, Emanuele Trevi persegue una ricerca narrativa fondata sulla memoria e, al contempo, rende un sentito omaggio a due talentuosi scrittori italiani.

L’evocazione dei morti tramite una scrittura raffinata

Trevi evoca i defunti attraverso la scrittura. Una scrittura raffinata, ricca di metafore e termini dotti. E nel mondo che sa occuparsi solo dei vivi, nel tempo che va troppo di corsa per dare retta a chi si è fermato ad allacciarsi le scarpe, rappresenta un investimento, un incoraggiamento antistorico. Forse anche troppo coraggioso, per un Paese vile come il nostro.

Due vite offre l’occasione, all’Italia e probabilmente al mondo intero, di sapere chi erano, chi sono stati e chi continueranno a essere Rocco Carbone e Pia Pera. Due italiani, innanzi tutto due italiani. Lontani dalla media nazionale, ma proprio per questo due italiani che avevano fatto della normalità, della sobrietà e della loro trafficata solitudine il tratto distintivo di un’esistenza che è valsa la pena nutrire.

Due vite è stato scritto da uno scrittore autentico. Uno che t’incanti ad ascoltarlo, quelle rare volte che lo passano in tv. Uno che nel deserto del niente pianta le tende della ragione, del ragionamento. Uno privo dell’aureola, privo dei galloni che decretano la differenza tra fenomeno e artigiano. Uno che non ha mai anteposto la propria faccia ai propri libri, che non ha mai umiliato il proprio talento al necessario sacrificio di certe vetrine (sempre le stesse).

Emanuele Trevi

Emanuele Trevi è nato a Roma nel 1960. Scrittore e critico letterario, ha esordito come autore di narrativa con I cani del nulla (Einaudi, 2003) e ha pubblicato per la collana Contromano di Laterza Senza verso (2005) e L’onda del porto (2005). Il suo ultimo romanzo è Il libro della gioia perpetua (Rizzoli, 2010). Collabora con «la Repubblica», «il manifesto», «Il Messaggero» e «Il Foglio». È conduttore di programmi radiofonici per Rai Radio 3.

 

Fonte

Davide Grittani

‘Il nero e l’argento’ di Paolo Giordano: i pericoli che si celano nell’amore quotidiano

Probabilmente Il nero e l’argento non è un romanzo che lascia il segno, anzi a tratti risulta piatto e ripetitivo, ma è un libro che consigliamo di leggere in quanto segna un ulteriore miglioramento sul piano dello stile di Paolo Giordano. Viene a galla che l’umore “nero” del protagonista (nero come la malattia), così carico di malinconia e “l’argento di lei”, pieno di vitalità, luce, riflessi, non riescano più ad amalgamarsi, si ritrovano al limite del baratro senza rendersi conto che la forza, il coraggio e la tenacia della loro balia adesso è anche parte di loro stessi.
E’ dentro le stanze che le famiglie crescono: strepitanti, incerte, allegre, spaventate. Giovani coppie alle prime armi, pronte ad abbracciarsi o a perdersi. Come Nora e suo marito. Ma di quelle stanze bisogna prima o poi spalancare porte e finestre, aprirsi al tempo che passa, all’aria di fuori. Ed è così che la signora A., nell’attimo stesso in cui entra in casa per occuparsi delle faccende domestiche, diventa la custode di una relazione, la bussola per orientarsi nella bonaccia e nella burrasca. Con le pantofole allineate accanto alla porta e gli scontrini esatti al centesimo, l’appropriazione indebita della cucina e i pochi tesori di una sua vita segreta, appare fin da subito solida, testarda, magica, incrollabile:

La signora A. era la sola vera testimone dell’impresa che compivamo giorno dopo giorno, la sola testimone del legame che ci univa. Senza il suo sguardo ci sentivamo in pericolo.

Ci sono molti modi per raccontare una storia d’amore e Paolo Giordano, torinese, classe 1982, vincitore del Premio Strega e del Premio Campiello Opera Prima con il celebre La solitudine dei numeri primi,  ha scelto la via più sensibile: registrare come un sismografo le scosse del quotidiano, gli slanci e i dolori, l’incapacità e il desiderio. Solo un piccolo naufragio, il primo tra i tanti che una coppia si troverà ad affrontare.

La narrazione de Il nero e l’argento è concentrata prevalentemente nella voce di uno solo dei protagonisti, quella maschile, che raccoglie e rielabora un insieme di ricordi e di immagini slegati da continuità temporale. Al di là dei nomi e dei volti, appositamente sfocati, i protagonisti della storia sono i complessi meccanismi di coppia e familiari, la loro solidità o fragilità; insomma quel micro-mondo che si crea tra le mura di casa, con regole, consuetudini, equilibri. Una famiglia giovane, la gestione della quotidianità, la ricerca della completezza dell’uno nell’altro, le mancanze, i silenzi; e poi le finestre si aprono ed entra una ventata d’aria fresca tra quelle mura, che come una scossa elettrica riporta il riappropriarsi della vita, divenendo collante tra particelle oramai alla deriva.

Paolo Giordano in pochissime pagine riesce a far parlare i sentimenti, portando in superficie tutti i colori dell’anima; ci sono le tinte fosche dell’incomprensione e della chiusura, le sfumature nebulose dell’evanescenza e della superficialità sino ad arrivare ai i colori più accesi sprigionati dai momenti più intensi della vita. Si intrecciano prepotentemente l’amore ed il dolore (la malattia e la morte della signora A.), la vita e la morte, come due facce alterne di un’unica medaglia.

La vita raccontata da Giordano non fa sconti a nessuno, scorre tra dolcezze e amarezze, amore e morte, incompatibilità e inadeguatezze, preghiere, scandita da un’alternanza di momenti chiari e scuri. Efficaci le analogie scientifiche che l’autore torinese utilizza per descrivere l’incompatibilità dei due caratteri; due colori “insolubili l’uno nell’altro”: “dall’emulsione iniziale degli umori si producono degli strati. L’esuberanza di Nora e la mia malinconia; senza contare i titoli di due capitoli: La tabellina del sette e I vasi comunicanti. I punti di debolezza del romanzo sono invece la monotonia e l’assenza di accelerazioni e cambi di ritmo per quanto riguarda il contenuto.

E’ palpabile una vena di pessimismo che scorre lenta e sotterranea, indugiando sotto le maschere dei ruoli ricoperti in famiglia (la coppia ha anche un figlio, Emanuele) e nella società. Ritorna anche in questo romanzo il tema della solitudine già emerso e scandagliato ne La solitudine dei numeri primi e ne Il corpo umano; si tratta di una solitudine amara come veleno ed insidiosa, camuffata dapprima dal desiderio di condivisione e realizzazione attraverso la coppia e alla fine esplosa nel luogo più intimo, come il focolare domestico, luogo che dovrebbe unire e cementare gli animi.
Il nero e l’argento è un’ottima prova di scrittura, che mette in luce la crescita stilistica dell’autore; il linguaggio è diventato più “maturo”, raffinato, l’espressività è potenziata.

Paolo Giordano si conferma ancora una volta autore capace di indagare l’uomo, senza scivolare nella banalità e nei sentimentalismi, infondendo ai propri scritti un’emozionalità forte, fotografando situazioni figlie del quotidiano e della società attuale. Nel finale, Giordano chiude bene con una scena emozionante, in cui svela un piccolo enigma, rendendo però il romanzo freddo, troppo calcolato e scientifico. Insomma un prodotto letterario ben confezionato.

A lungo andare ogni amore ha bisogno di qualcuno che lo veda e lo riconosca, che lo avvalori, altrimenti rischia di essere scambiato per un malinteso.

https://www.qlibri.it/narrativa-italiana/romanzi/il-nero-e-l’argento/

Ennio Flaiano, 10 citazioni per ricordarlo

Ennio Flaiano, classe 1910, è stato giornalista per testate come “Oggi”, “Il Mondo” e “Il Corriere della Sera”(specializzato in elzeviri) e scrittore vincitore del Premio Strega nel 1947, con il suo romanzo più famoso Tempo di uccidere. Ennio Flaiano è conosciuto anche come sceneggiatore di film memorabili (La strada, La dolce vita e 8½), come critico teatrale e cinematografico e fine umorista. Le sue battute sono ricordate per l’umorismo pungente, a tratti cinico, incentrato sulla descrizione dei comportamenti più assurdi della gente. In sua memoria è stato istituito il Premio Flaiano per soggettisti e sceneggiatori, la cui cerimonia di premiazione si svolge ogni anno nella sua città natale, Pescara.Di seguito dieci citazioni per ricordare Ennio Flaiano:

1.“La parola serve a nascondere il pensiero, il pensiero a nascondere la verità. E la verità fulmina chi osa guardarla in faccia.”

2.“L’uomo è un animale pensante, e quando pensa non può essere che in alto. È questa la mia fede. Forse l’unica. Ma mi basta per seguire ancora con curiosità lo spettacolo del mondo”

3.“La morte ha la faccia di certe signore che telefonano al bar col gettone: e a un certo momento, senza smettere di telefonare, vi fanno un cenno di saluto e di sorpresa.”

4.“Si arriva a una certa età nella vita e ci si accorge che i momenti migliori li abbiamo avuti per sbaglio. Non erano diretti a noi.”

5.“Non c’è che una stagione: l’estate. Tanto bella che le altre le girano attorno. L’autunno la ricorda, l’inverno l’invoca, la primavera l’invidia e tenta puerilmente di guastarla.”

6.“Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere.”

7.“Mi chiedevo se era quella la rassegnazione, quel vuoto aspettare, contando i giorni come i grani di un rosario, sapendo che non ci appartengono, ma sono giorni che pure dobbiamo vivere perché ci sembrano preferibili al nulla.”

8. “L’italiano è una lingua parlata dai doppiatori.”

9.“Vivere è diventato un esercizio burocratico.”

10.“La psicoanalisi è una pseudo-scienza inventata da un ebreo per convincere i protestanti a comportarsi come i cattolici.”

 

‘Conforme alla gloria’ di Paolin: il marchio del male

Conforme alla gloria (Voland, 2016) è l’ultimo romanzo di Demetrio Paolin (Il mio nome è Legione, La seconda persona, Non fate troppi pettegolezzi). Paolin è stato fra i dodici finalisti per il Premio Strega di quest’anno.

Conforme alla gloria. Ma quale gloria?

Tre sono i protagonisti di questo difficile romanzo, tre le storie che si intrecciano in un arco temporale narrativo di circa quarant’anni. Le storie vengono narrate nelle prime tre parti del testo quasi fossero tre distinti racconti orbitanti intorno allo stesso tema; solo nell’ultima, opportunamente chiamata “L’insieme risulta inconoscibile”, trovano una congiunzione e una realizzazione finale.

La prima riguarda Rudolf Wollmer, che nel 1985 riceve in eredità dal padre Heinrich, gerarca nazista di stanza a Mauthausen, la villa con tutti i beni. Rudolf, che niente vuole spartire col padre (fa parte di quella generazione successiva al crollo del Terzo Reich che tanto ha combattuto per far dimenticare al mondo l’orrore del nazismo e dell’Olocausto), decide di vendere la casa ma, durante lo svuotamento, s’imbatte in un’opera a dir poco grottesca: La gloria, ossia un “dipinto” altamente simbolico che risulta essere composto di pelle umana. L’uomo, spiazzato e torturato da questo quadro, perde di vista tutto ciò che d’importante ha (la moglie, il figlio, il lavoro) e, in una scelta ultima, decide di dedicare gli anni successivi a far sapere al mondo la verità sull’opera, e indirettamente sul padre e sull’orrore della Germania nazista. La sua vita finisce in una spirale di distruzione che lo porta a perdere tutti gli affetti, e questo perché «il quadro significa che nessuno è salvo»; che davanti all’orrore del nazismo, davanti all’evidenza di ciò che l’essere umano può fare, «nessuno di noi è salvo veramente». E dunque bisogna comportarsi in modo conforme alla gloria.

La seconda storia di Conforme alla gloria si concentra su Enea Fergnani, il quale sopravvive al campo di concentramento di Mauthausen perché, preso sotto l’ala “protettrice” di Heinrich Wollmer che gli commissiona dei disegni, arriva infine a tatuare sulla pelle di una deportata proprio quella che diviene La gloria. Nel dopoguerra Enea si trasferisce a Torino e diventa tatuatore finché, negli ultimi anni della sua vita, decide di dedicarsi a una forma molto estrema di arte performativa. Il suo intento è ricordare, o meglio mostrare al mondo ciò che è successo nei campi di concentramento: e lo fa sfruttando esseri umani nelle sue opere (prima Ana, protagonista della terza storia, poi se stesso), ma deumanizzandoli, reificandoli, rendendoli mere “cose” allo stesso modo in cui nei lager le persone erano strumenti (si pensi, appunto, alla ragazza trasformata in tela). Enea vive dunque tormentato dal ricordo del campo e trova nell’arte una via di fuga che, però, non funziona completamente: la sua esistenza è comunque segnata fino alla fine dal senso di colpa di chi è sopravvissuto:

«Cosa abbiamo fatto […] per meritarci questo brandello di vita in più? Ci è semplicemente bastato sopravvivere a qualcosa di tremendo, ma poi? Abbiamo dovuto venire a patti, decidere cosa fare di questo eccesso di vita. Perché noi dovevamo morire nel freddo dell’inverno e non starci di fronte come ora. La nostra esistenza sarà il ricordo costante che gli altri sono morti e noi viviamo e guadagniamo soldi, mangiamo pranzi e cene in nome loro. Li abbiamo usurpati del loro spazio fisico, ameremo donne e uomini che loro avrebbero dovuto amare. Diventeremo simulacri vuoti e chiunque, se ci guarderà bene, vedrà il fumo della vanità».

Conforme alla gloria si conclude con la storia di Ana, all’anagrafe Loredana Di Cascio, ragazza e poi donna segnata da un unico, enorme avvenimento: l’anoressia (elemento su cui forse Paolin gioca inserendolo già nel nome: An[oressi]a; ma “ana” è anche il termine usato per definire la malattia stessa, tant’è che sul web ci si divide fra “pro ana” e “contro ana”). Ana rifiuta tutto di se stessa tranne la propria pelle, l’unica parte del suo corpo che riesce a tollerare, anzi addirittura ad amare. La sua pelle, bianca, perfetta e totalmente aderente alle sue ossa, trova poi il compimento nell’opera di Enea. Proprio come fatto alla ragazza senza nome nel campo di Mauthausen, il tatuatore sceglie Ana e la sua bianca pelle come tela per la sua creazione: il corpo di Ana (tranne il volto) viene riempito di tatuaggi. La donna diviene la tela anonima (e anche qui c’è forse un gioco di parole: An[onim]a), la “cosa” su cui si proietta l’opera d’arte. La donna trova il proprio compimento nella sua pelle; ed è proprio la sua pelle al centro dell’attenzione nella prima esibizione performativa di Enea, I’ll Be Your Mirror, in cui la donna viene mostrata appesa a un gancio, come un qualsiasi pezzo di carne. E pensa: «La pelle è bella come quella delle bestie scuoiate, e nel ricordarle appese ad asciugarsi al sole della sua terra, Ana si commuove».

Nella quarta parte le tre storie, come anticipato, si intersecano. Accade che, dopo tanti anni, Rudolf viene a sapere dell’opera di Enea sul corpo di Ana: e il quadro, il cui ricordo è sopito ma mai dimenticato, torna in scena. Dopo lunghe ricerche Rudolf entra in contatto con Ana e le rivela, in un atto di pura malvagità in cui si mostra la vittoria finale di Heinrich, l’orrore che si cela dietro il quadro e dietro la sua pelle tatuata.

Conforme alla pelle

La storia di Conforme alla gloria, iniziata nel 1985 (ma coi flashback si risale fino al 1943), si conclude nel 2009-10 con la disfatta dei tre personaggi. Dalla quarta di copertina intuiamo già che non troveremo redenzione e salvezza alcune in questo bel romanzo: non c’è via di fuga dal male, e per ben due motivi.

Il primo è che il male si presenta nella forma peggiore, ossia quando si concentra sulla spersonalizzazione degli esseri umani; quando li si abbassa al livello delle cose. Bellissimo il paragone fra la disumanizzazione dei campi di concentramento e il processo di reificazione che avviene in un animale con la marchiatura: «Rudolf lo fissa [fissa il toro] negli occhi. L’impeto di prima è svanito: c’era qualcosa e ora non c’è più. Tutta la vita dell’animale si è dissolta nel profumo acre del manto e della pelle bruciati dal marchio. Ora questa bestia non appartiene più agli esseri viventi ma alle cose».

“Perché esiste il male? Come è stato possibile l’olocausto? Come è possibile non provare pietà per i propri simili?” Queste le domande poste in Conforme alla gloria, e la risposta è sempre la stessa: tramite il processo di spersonalizzazione/strumentalizzazione. Una volta ridotto un essere umano da “persona con emozioni e affetti, con un passato vissuto e un futuro di obiettivi e sogni” a “cosa”, è facilissimo non provare empatia e, dunque, fare di quell’essere umano quel che si vuole. Perché di fatto non è più simile a noi di quanto lo sia un vestito da buttare quando si è logorato.

È proprio questo che Enea vuole insegnare al mondo con le sue opere: quel processo di spersonalizzazione avvenuto nei campi è l’elemento che maggiormente ha contraddistinto l’olocausto. Ed è proprio per questo che Enea non riesce a stabilire un contatto vero con Ana: perché essenzialmente la donna non è donna, bensì cosa (lei stessa si considera solo una tela).

Il secondo motivo è che il male non può essere dimenticato quando entra nella vita delle persone. Rudolf ed Enea (quest’ultimo risulta essere anello di congiunzione fra passato e presente, fra Germania e Italia, fra Rudolf e Ana) sono ossessionati dal male: il primo perché, pur non avendolo vissuto, vi è geneticamente e biologicamente legato; il secondo perché, avendolo vissuto ed “esportato”, vive nel senso di colpa perenne raccontato anche da autori come Primo Levi (“fisicamente” presente nel romanzo come personaggio). Il male dunque sedimenta negli animi e lì resta fino alla fine dei giorni. Nell’impossibilità dell’oblio (anche come obiettivo che si pongono i superstiti dei campi, impersonati qui da Enea Fergnani) risulta la vittoria del nazismo. Nell’impossibilità dell’oblio risulta la vittoria del male: «Dio manda il male nel mondo non perché è crudele ma perché è impotente, e perché l’uomo sappia di quale agonia è martire». E se il male sfugge persino a Dio, una teodicea è destinata a fallire.

La pelle, infine. La pelle è, insieme al male, il vero protagonista di Conforme alla gloria: la troviamo sul quadro; la troviamo sui corpi dei deportati (è tutto ciò che resta di loro prima che vengano bruciati); la troviamo sulle persone tatuate da Enea (e anche nel nome dello studio: “La pelle del latte”); la troviamo in Ana (lei è la sua pelle); ma la troviamo anche nei personaggi secondari come quando, all’inizio della storia, il figlio di Rudolf si concentra sulla pelle della sua ragazza Christine.

Perché la pelle? Perché essa è il confine visibile fra ciò che siamo e ciò che non siamo, fra il nostro dentro e il nostro fuori. La pelle è ciò che gli altri di noi vedono, il nostro più importante segno. Per Paolin la pelle diventa così essenziale da farne quasi un credo, da sostituirsi a un Dio che spesso è assente (e che di sicuro non c’era ad Auschwitz, come insegna Primo Levi):

«Niente era vero all’infuori della sua pelle.
Non avrai altra pelle all’infuori della tua pelle.
Ricordati di santificare la pelle.
Onora la tua pelle più di tuo padre e di tua madre.
Non uccidere la tua pelle».

Così ci dice Paolin in Conforme alla gloria.

Exit mobile version