Gianna Manzini: l’intellettuale lirica

La scrittrice toscana Gianna Manzini (Pistoia, 24 marzo 1896 – Roma, 31 agosto 1974), intellettuale raffinata e sensibilissima, è tra le figure più  interessanti nel panorama letterario italiano novecentesco. Autrice di frammenti lirici e sperimentatrice di forme aperte del testo, il suo percorso è caratterizzato da soluzioni originali ed innovative che la pongono al di là delle tendenze letterarie.

L’opera di Gianna Manzini è stata immediatamente apprezzata dalla critica e da grandi intellettuali, in particolare da Giacomo Debenedetti e da Emilio Cecchi, sebbene sia rimasta per troppo tempo confinata all’interno di un pubblico ristretto. Oggi pare che possa finalmente essere riscoperta da una nuova rilettura delle sue opere anche grazie allo straordinario aiuto del suo archivio personale, che dipana nuove prospettive di ricerca  e significati sui suoi testi.

Nata a Pistoia il 24 marzo 1896, da una altolocata famiglia della borghesia locale, i genitori di Gianna dopo diversi anni decidono di separarsi a causa di contrasti tra le idee anarchiche del padre e  quelle  di stampo conservatore della madre. La separazione dei genitori lascia una cicatrice indelebile nell’animo della bambina che con il passare degli anni si acuisce, soprattutto nei riguardi del padre, per il quale nutre del rimorso  per non essergli stata vicino quando, per avere partecipato ad alcune cospirazioni al regime fascista, si ritira in un esilio volontario in un piccolo paese di montagna dove muore nel 1925 in seguito ad una premeditata aggressione fascista.

Nel 1914 si trasferisce con sua madre a Firenze, per completare gli studi, città che farà breccia nel cuore della scrittrice. Si iscrive e frequenta brillantemente i corsi di Letteratura presso l’Università di Firenze, senza sottrarsi al  al vivace dibattito culturale nato tra la fine della Prima guerra mondiale e l’insorgere del Fascismo. Qui conosce Bruno Fallaci, responsabile della terza pagina del quotidiano la Nazione: i due si innamorano e presto convolano a nozze. Il quotidiano nella edizione serale  pubblicherà di li a poco il primo racconto della scrittrice nel quale già è possibile notare  la qualità e le ragioni della sua prosa.

Nel 1928 la Manzini esordisce con  Tempo innamorato, accolto positivamente, come una ventata di novità dalla critica, e anche da scrittori europei, primo fra tutti, Gide. Incomincia a collaborare alla rivista Solaria, e in questo ambiente colto e  sempre attento ai nuovi talenti conosce Prezzolini, De Robertis e il giovane Montale che a proposito del primo libro della Manzini scrive “ha fatto già molto e molto ancora può fare per il romanzo italiano”. Con qiesto romanzo la scrittrice dimostra di avere quel difficile gusto che era connaturato già ad un suo modo scintillante ed intenso di interpretare la realtà: invece di una rappresentazione oggettiva, di una fedele riproduzione ed imitazione di essa, la Manzini ne dà i suoi sottili riflessi, intercettati da una sensibilità inquieta e a tratti perfino morbosa. Non è un caso che l’autrice toscana sia stata definita  da Cecchi “complicata e un pò abbagliante”.

Sul suo gusto, senza dubbio, hanno influito le sollecitazioni della narrativa europea rappresentate soprattutto da Virginia Woolf. Qualche critico si è ricordato anche di Federigo Tozzi; ma tutto quello che in Tozzi era chiuso e odorava  amaramente di terra, nella Manzini si schiarisce, si illumina sotto il segno di un asciutto grafismo stilistico.

La carriera di Gianna Manzini prosegue a gonfie vele: nel 1930 è l’unica donna scelta da Enrico Falqui e da Elio Vittorini per l’antologia Scrittori Nuovi, lascia il marito per trasferirsi a Roma con Falqui, con il quale fonda la rivista Prosa che ospita gli scritti di Virginia Woolf, Thomas Mann, Jean-Paul Sartre e Paul Valéry.
Incomincia per la Manzini a Roma anche una frivola  attività di cronista di moda, prima sul Giornale d’Italia, poi su il settimanale Oggi. Nel 1945 scrive una lettera all’Editore, lettera che segna il punto più alto dei suo lirismo estetico, nel 1953 conosce Pasolini e prepara un nuovo romanzo, La Sparviera che nel 1956 si aggiudica il Premio Viareggio. Il romanzo le cui pagine iniziali sono tra le più belle della letteratura del ‘900, narra della malattia polmonare che la Manzini aveva contratto da bambina e che l’accompagnerà fino alla morte. I fantasmi dell’infanzia sono presenti anche nel suo ultimo romanzo, Ritratto in piedi (1971), con il quale vince il Premio Campiello.

Gianna Manzini frequenta assiduamente il salotto letterario della sua amica pittrice Alis Levi, uno dei salotti letterari più importanti della seconda metà del secolo. In Album di ritratti Mondadori, 1964 la scrittrice dedica all’amica una delle sue pagine migliori.

La personalità della Manzini si è formata in una linea di interiore coerenza espressiva, su una tematica che esplora una zona segreta della nostra anima, in questo senso si può dire che ogni opera della scrittrice toscana sottointenda una sorta di diario intimo che scandaglia la solitudine morale. Fantasia fanciullesca, maturità, sapienti incastri narrativi, folgorazioni impressionistiche consentono al lettore di entrare di sfuggita, quasi come fosse un intruso nel mondo borghese della sua infanzia. Gianna Manzini è “un’artista” intuitiva, non persuasiva; gioca con notazioni di psicologia e biografia, dando vita ad una tecnica sostanzialmente “non narrativa” o meglio una narratività tutta scoperta e spiegata.

Vittorio Sereni, poeta dell’incertezza

“Ci sono momenti della nostra esistenza che non danno pace fino a quando restano informi”. Così motiva la passione per la scrittura  in versi il poeta Vittorio Sereni (Luino, 1913- Milano, 10 febbraio 1983), morto il 10 febbraio 1983 a Milano, all’età di 70 anni.

Trascorre la sua giovinezza a Luino, luogo che ha lasciato la traccia maggiore nella sensibilità del poeta, oltre i luoghi del Lago Maggiore dove Sereni ne trarrà la sua ispirazione più alta. Nonostante ciò, egli considera Brescia la sua seconda patria, città dove sono emersi i suoi primi interessi letterari anche in seguito alla  lettura del grande poeta del Novecento, Giuseppe Ungaretti.

Nel 1933 Sereni si trasferisce nuovamente, questa volta a Milano. È qui che si laurea in lettere ed entra in contatto con numerosi poeti, tra cui Salvatore Quasimodo. In questi anni raggiunge uno dei primi importanti traguardi: il promettente poeta Carlo Betocchi nel 1937 pubblica due sue poesie sulla rivista <<Frontespizio>>.

Nel 1937, il poeta entra, con Dino Del Bo, Ernesto Treccani, Alberto Lattuada, a far parte della redazione di <<Corrente>> dopo aver collaborato alla rivista <<Letteratura>>. Nel 1940 la rivista si trasforma in casa editrice pubblicando nel ’41 la prima edizione di “Frontiera” ed in seguito la ristampa che porta il titolo di “Poesie”.

Riportiamo la poesia “Le mani”, da “Frontiera”:

Queste tue mani a difesa di te:

mi fanno sera sul viso.

Quando lente le schiudi, là davanti

la città è quell’arco di fuoco.

Sul sonno futuro

saranno persiane rigate di sole

e avrò perso per sempre

quel sapore di terra e di vento

quando le riprenderai.

E ancora In me il tuo ricordo:

In me il tuo ricordo è un fruscìo

solo di velocipedi che vanno

quietamente là dove l’altezza

del meriggio discende

al più fiammante vespero

tra cancelli e case

e sospirosi declivi

di finestre riaperte sull’estate.

Solo, di me, distante

dura un lamento di treni,

d’anime che se ne vanno.

E là leggera te ne vai sul vento,

ti perdi nella sera.

Scoppia in questi anni la seconda guerra mondiale e la notizia del conflitto sorprende Sereni a Modena dove insegna italiano e latino in un liceo. Viene richiamato alle armi con il grado di ufficiale di fanteria e nell’autunno del 1941 è assegnato ad un reparto destinato all’Africa settentrionale. Come egli stesso racconta : “non arriverà mai a destinazione”. Il 24 luglio del 1943 infatti, viene fatto prigioniero a Paceco, vicino Trapani e trascorre due anni di prigionia in Algeria e nell’allora Marocco francese, facendo ritorno a casa soltanto a guerra terminata. Nel 1947 pubblica “Diario in Algeria”; ricordiamo la poesia “Dimitrios”:

Alla tenda s’accosta

il piccolo nemico

Dimitrios e mi sorprende,

d’uccello tenue strido

sul vetro del meriggio.

Non torce la bocca pura

la grazia che chiede pane,

non si vela di pianto

lo sguardo che fame e paura

stempera nel cielo d’infanzia.

È già lontano,

arguto mulinello

che s’annulla nell’afa,

Dimitrios, su lande avare

appena credibile, appena

vivo sussulto

di me, della mia vita

esitante sul mare.

L’esperienza della guerra è stata traumatica per il poeta lombardo in quanto ha demolito il suo  giovanile sogno di speranza e di attese, come dimostra la seguente lirica:

Un improvviso vuoto del cuore

tra i giacigli di Sainte-Barbe.

Sfumano i volti diletti, io resto solo

con un gorgo di voci faticose.

 

E la voce piú chiara non e piú

che un trepestio di pioggia sulle tende,

un’ultima fronda sonora

su queste paludi del sonno

corse a volte da un sogno.

Negli anni seguenti Sereni lascia l’insegnamento per lavorare presso l’ufficio stampa dell’azienda milanese Pirelli, dove rimarrà fino al 1958. Nel 1981 esce dall’editore Einaudi il quaderno di traduzioni “Il musicante di Saint-Merry” e altri versi tradotti dall'”Orphée Noir”, da Pound, Char, Apollinaire, Bandini e Corneille. Il lavoro di traduttore di poesie gli farà ricevere, nel 1982, il Premio Bagutta. Nel medesimo anno Garzanti pubblica “Stella variabile” che gli farà vincere il Premio Viareggio. Il 10 febbraio del 1983 muore improvvisamente in conseguenza di un aneurisma.

La poesia di Vittorio Sereni è stata inizialmente inserita  sia nel modernismo minore (anche per l’influenza di poeti quali Ungaretti e Quasimodo), sia nell’ermetismo fiorentino, mostrando oggetti, situazioni e sentimenti diversamente concreti. Tale visione muta con la prigionia e la guerra: il mondo diventa ai suoi occhi indecifrabile, così come si nota in “Diario in Algeria” (la voce parlante e gli elementi lessicali arcaizzanti servono spesso a distanziare la realtà, mentre il ritmo modulato tra una strofa e l’altra, simboleggia la condizione di prigioniero simile a quella dello stato umano). Ne risulta un lirismo sfocato, esitante ma al tempo stesso che induce alla scelta, al coraggio seppur intriso di angoscia ed incertezza esistenziale. Al senso di inadeguatezza e di smarrimento (che lo accomunano a Montale) sia psicologici che ideologici, Sereni contrappone pochi momenti di gioia, dei veri e propri “scatti” che hanno il volto dell’amore e dell’amicizia, che compensano in parte la  sua delusione  ( soprattutto per il fallimento degli ideali socialisti  e democratici in Italia) e il  suo sentirsi prigioniero della storia. Il poeta incerto non riesce a non sentirsi estraneo nel mondo tanto che affermerà: <<Non lo amo il mio tempo, non lo amo>>.

 Molto impegnativo risulta il libro  scritto nel trentennio successivo ,“Gli Strumenti umani”, dove è reso palese il difficile e tormentato dopoguerra del poeta. È possibile al suo interno individuare ben tre periodi distinti: PRIMO MOMENTO (1945-50), ritorno dalla guerra e voglia di cancellare le brutture del passato; SECONDO MOMENTO (1950-60): si alterna il rimorso per non aver partecipato alla guerra e aver vissuto ai margini della vita e dall’ altro il timore di un nuovo imprigionamento; TERZO MOMENTO (1960-65): impegno civile e chiarezza intellettuale. Quest’ultima, ben visibile anche nel tema dei morti, ossia coloro che possono svelare il senso ultimo dell’esistenza ed incoraggiare il poeta ad andare avanti per riempire quel vuoto che si è formato.

Per desiderio del poeta, sono usciti postumi nell’ottobre ’83 “Gli immediati dintorni- primi e secondi”, “Il saggiatore” e nel 1986 “Tutte le poesie” (Mondadori) a cura della figlia Maria Teresa. Nel novembre dello stesso anno Dante Isella raccoglie con il titolo “Senza l’onore delle armi”, (Scheiwiller, Milano), i testi : “La cattura”, “L’anno quarantatré”, “L’anno quarantacinque”, “Ventisei”, “Le sabbie dell’Algeria”.

Sereni, al quale nel 1956 era stato assegnato il premio internazionale “Libera Stampa” per alcune poesie di cui facevano parte i “Frammenti di una sconfitta”, è stato anche redattore-collaboratore della <<Rassegna d’Italia>> e critico letterario di <<Milano-sera>>.

Numerosi saggi, scritti vari, poesie, sono state pubblicate in <<Paragone>>, <<Nuova Corrente>>, <<Tempo Presente>>, <<Il Menabò>>, e in numerose altre riviste e giornali. La figlia Maria Teresa ne ha avviato la raccolta in volume. 

 

Paolo Volponi: l’umanista industriale

Paolo Volponi (Urbino 1924 – Ancona 1994) è scrittore dalla prosa complessa e affascinante ed occupa un posto di rilevo ma sicuramente appartato nella letteratura italiana del Novecento. Sebbene lo si può annoverare tra i grandi autori del ventesimo secolo, non sempre ha goduto di una fama comparabile a quella degli altri grandi narratori e poeti del Novecento. Ma proprio come accade ai grandi interpreti del secolo appena passato, il suo rapporto con la letteratura si sviluppa in maniera atipica: Volponi si guadagna da vivere lavorando alla Olivetti dal 1950 al 1971 e, nel frattempo comincia a scrivere i suoi primi libri di poesie “Il ramarro”(1948), “L’antica moneta”(1955) e “Le porte dell’Appennino”(1960) per il quale vinse il Premio Viareggio e “Foglia mortale” (1974). Tutte le sue raccolte a partire da una poetica tipicamente post-ermetica evolvono verso la forma del poemetto narrativo, preannunciando la svolta verso quella prosa che maturerà negli anni Sessanta.

Nonostante la sua vocazione letteraria è ormai consolidata, continuerà a lavorare nelle aziende, tra cui la Fiat dal 1972 al 1975, nell’area delle inchieste e relazioni sociali, occupando anche mansioni dirigenziali; dalla sua militanza nelle liste del PCI e dal 1992 in quelle del PRC prende avvio quella che sarà la sua carriera di senatore della repubblica italiana coperta dal 1983 fino al 1992.

Irrompe infine nella narrativa col romanzo “Memoriale” scritto nel 1962; l’itinerario di Albino Saluggia delinea uno dei temi guida della poetica volponiana: la rappresentazione ossessiva e simbolica dei rapporti alienati fra individui e strutture di produzione. Con i romanzi successivi “La macchina mondiale” (1965) con il quale vinse il Premio Strega e, “Corporale” (1974) affronta ancora il tema dell’alienazione dell’uomo nella civiltà industriale, oscillando tra l’accezione sociologica del fenomeno e l’accezione clinica, tra il senso di frustrazione e quello della follia, uno status che sembra rendere capaci di attingere e comprendere il mistero delle cose.

Nel 1965 esce il romanzo “La macchina mondiale” e nel 1967 i romanzi “Una luce celeste”, “I sovrani e la ricchezza”, “Accingersi all’impresa” e “La barca di Olimpia”. Nel 1968 seguono il romanzo “Olimpia e la pietra”,“Case dell’alte valle del Metauro” (1989) e “É per un’imprudente vanteria” (1991).

“Il sipario ducale” (1975) ambientato ad Urbino, è liberamente ispirato agli schemi del romanzo avveniristico; “Il pianeta irritabile” (1978). Più legati invece a tematiche dell’adolescenza e agli anni di formazione durante e del post-fascismo i romanzi “Il lanciatore di giavellotto” (1981); “La strada per Roma” (1961-63, pubblicato solo nel 1991) e “Le mosche del capitale” (1989) che ripropongono ancora il confronto tra l’universo chiuso e spietato del potere industriale e la realtà della fabbrica e della città. Gli ultimi scritti sono una raccolta di versi “Nel silenzio campale” (1990); un volume di saggi e articoli “Scritti dal margine” (1994) con una conversazione tra Volponi e Leonetti su temi politici e letterari; e infine postumo “Il leone e la volpe”(1995).

L’opera e la vita di Paolo Volponi testimoniano un vigoroso rapporto con la realtà contemporanea: la letteratura è per lui un modo per investire il mondo della propria soggettività. La sua adesione all’umanesimo non venne mai meno nella sua produzione letteraria affiancata poi dal forte impegno politico. Era convinto che la società industriale potesse e dovesse evolversi in modo democratico e, per questo vede nel comunismo il mezzo ideologico che le grandi masse di uomini sfruttati dall’industria hanno per liberarsi. Non di meno considerò positiva l’industrializzazione polemizzando, per questo, aspramente con Pier Paolo Pasolini, dichiaratamente e decisamente di parere opposto. Ciò che Volponi aberrava non era l’industria in sé ma l’intreccio di trame e poteri occulti, lo strapotere dell’industria, e il degrado morale e culturale del paese. Ed è per questo che è convinto che ciò che scrive «non deve rappresentare la realtà ma deve romperla» e che la lettura dei suoi romanzi non si può fare «stando seduto socialmente, accomodato» ma esige «quella stessa attenzione che [si] adopera nell’innamoramento, (…) quella stessa attenzione con la quale [ci] si accinge a studiare, a scoprire le cose e le persone nuove». Il suo scopo dunque non è semplicemente quello di narrare ma di contribuire al dibattito, alla creazione polemica di un’opinione. Ed ecco che i suoi personaggi isolati, fuori della società sono mossi da un’istanza critica nei confronti del reale che forse, allora come oggi non va più di moda.

“Volponi ha espresso con travolgente naturalezza, con prodigiosa plasticità d’immagini, con struggente semplicità di cadenze il dramma antropologico del nostro tempo: lo scontro mortale fra il mondo della natura, e della laboriosità umana e il mondo del capitale e del lavoro alienato”.( Giovanni Raboni)

Mario Luzi: poeta “d’elezione” e “della pienezza”

Mario Luzi nasce a Castello di Firenze il 24 Ottobre del 1914. Dopo l’infanzia trascorsa nel luogo d’origine, si trasferisce a Siena, dove vive un breve periodo della sua vita e poi a Firenze, anni in cui frequenta il liceo classico e si diploma. Successivamente, si laurea in letteratura francese e da questo momento in poi stringe rapporti con numerosi intellettuali dell’epoca, dedicandosi al lavoro presso alcune riviste d’avanguardia, come Campo di Marte e Paragone.
La sua prima raccolta di poesie, intitolata La barca esce nel 1935. Pochi anni dopo, insegna alle scuole superiori di Parma e nel ’45 al liceo scientifico di Firenze. Durante questo periodo, vengono pubblicate le sue più importanti raccolte poetiche : Studio su Mallarmé, Onore del vero, Quaderno Gotico, Un brindisi. Durante questo periodo, insegna letteratura francese alla facoltà di scienze politiche.
Tra gli anni che vanno dal 63 alla fine degli anni 70 pubblica diverse opere tra cui Nel Magma, Reportage, Semiserie.

Mario Luzi viene nominato senatore a vita da Ciampi, il 14 Ottobre del 2004, proprio nel giorno del suo compleanno. Muore dopo qualche mese a Firenze, il 28 Febbraio 2005. Considerato sicuramente uno scrittore ermetico, le tematiche a lui più vicine sono quelle che riguardano l’autobiografia e ciò che pone l’uomo in conflitto con se stesso e con ciò che lo circonda. Possiamo dividere la poetica di Luzi in tre fasi.

La prima viene fatta cominciare con La barca nel 1935 e finisce con Quaderno gotico; ora il suo interesse è rivolto al cristianesimo e si rifà a determinati modelli sia per ciò che riguarda lo stile che i contenuti, come Mallarmé ma anche Dino Campana. A metà possiamo collocare Avvento notturno, dove è forte l’influenza del surrealismo e del decadentismo liberty.

La seconda fase della produzione poetica di Mario Luzi comprende le raccolte Onore del vero, Primizie del deserto, Dal fondo delle campagne e Su fondamenti invisibili.

Mosso dalla costante inquietudine che caratterizza i suoi lavori e da un pessimismo di fondo, approda alla terza fase, che vede alla luce Nel magma, Per il battesimo dei nostri frammenti e Al fuoco della nostra controversia; opere dove è chiaro il rimando al periodo dell’infanzia e dell’adolescenza. Sono gli stessi anni in cui, grazie alla poesia Fuoco della controversia vince, ricordiamo, il Premio Viareggio.

Per alcuni resta il poeta “della pienezza”, per altri ”d’elezione” , introverso e mite, per la sua predilezione per le poche parole che raccontano  la  salvezza da una vita apparentemente priva di ogni significato; in un continuo rinnovarsi di pensieri e prospettive,  emblema del tardo Novecento, come dimostra con le seguenti liriche:

Da Avvento notturno, Avorio:

Parla il cipresso equinoziale, oscuro e montuoso esulta il capriolo, dentro le fonti rosse le criniere dai baci adagio lavan le cavalle. Giù da foreste vaporose immensi alle eccelse città battono i fiumi lungamente, si muovono in un sogno affettuose vele verso Olimpia. Correranno le intense vie d’Oriente ventilate fanciulle e dai mercati salmastri guarderanno ilari il mondo. Ma dove attingerò io la mia vita ora che il tremebondo amore è morto? Violavano le rose l’orizzonte, esitanti città stavano in cielo asperse di giardini tormentosi, la sua voce nell’aria era una roccia deserta e incolmabile di fiori.

Da Al fuoco della controversia, Ridotto a me stesso?

Ridotto a me stesso? Morto l’interlocutore? O morto io, l’altro su di me padrone del campo, l’altro, universo, parificatore… o no, niente di questo: il silenzio raggiante dell’amore pieno, della piena incarnazione anticipato da un lampo? – penso se è pensare questo e non opera di sonno nella pausa solare del tumulto di adesso…   Natura. La terra e a lei concorde il mare e sopra ovunque un mare più giocondo per la veloce fiamma dei passeri e la via della riposante luna e del sonno dei dolci corpi socchiusi alla vita e alla morte su un campo; e per quelle voci che scendono sfuggendo a misteriose porte e balzano sopra noi come uccelli folli di tornare sopra le isole originali cantando: qui si prepara un giaciglio di porpora e un canto che culla per chi non ha potuto dormire sì dura era la pietra, sì acuminato l’amore.

Dal periodo dell’assenza della realtà e della storia  caratterizzato da un linguaggio prezioso a quello del manierismo della sublime eloquenza, dall’esistenzialismo intriso di inquietudine e di ricerca dell’identità, alla speranza per la l’immortalità dell’anima; il poeta d’elezione e di lungo corso Mario Luzi ha attraversato tutte le stagioni dell’anima, senza conoscere pigrizia, un vero modello di civiltà.

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