Alfredo Panzini, scrittore tra il ricordo e la finzione, e la critica italiana, la fortuna all’estero e l’amore

Giunto faticosamente alla fama negli anni dieci e rafforzatosi nella stima generale tra gli anni venti e trenta del secolo scorso, il professore Alfredo Panzini è stato narratore, critico, elzeverista, lessicografo, traduttore e saggista, celebre e amato dai suoi contemporanei, una figura di primo piano nel panorama delle lettere italiane del tempo che fu, ma poi nel secondo Novecento ignorato dalla critica, è stato consegnato ad un oblio che lo ha tagliato fuori dal mercato editoriale.

L’esordio narrativo di Panzini risale al 1893, quando pubblicò, negli anni dominati dalla narrativa verista e positivista, Il libro dei morti, passato quasi inosservato alla critica e al pubblico, cui fece seguito, tre anni dopo, la raccolta di novelle Gli ingenui, su cui cadde l’attenzione di Luigi Capuana, il quale gli dedicò, insieme a Grazia Deledda, un paragrafo del suo libro Gli ismi contemporanei, cogliendo nell’autore una certa maturità letteraria rispetto a Il libro dei morti e il suo maggior difetto nel fatto che “è un artista che pensa troppo, o meglio, che lo lascia scorgere troppo”. Dopo il secondo romanzo La moglie nuova del 1899, Panzini pubblicò come strenna il volume di novelle Lepida et trista (1901-1902), quasi contemporaneamente a Piccole storie del mondo grande, pubblicato con il più grande editore del tempo, Emilio Treves.

Nel panorama letterario dominato da D’Annunzio e Fogazzaro, Panzini è uscito faticosamente da limbo dell’anonimato con La lanterna di Diogene del 1907 e quattro anni dopo con Le fiabe della virtù, quando iniziarono ad occuparsi di lui Renato Serra ed Emilio Cecchi, il primo esaltando la poetica panziniana, il secondo tracciando un profilo dello scrittore classico e moderno al contempo ne <<La Voce>> di Prezzolini. Anni dopo Panzini divenne un marchio gettonatissimo, critici importanti ed influenti del tempo facevano a gara per rilevare in lunghi scritti il “dramma” di Panzini, il problema di Panzini, l’umorismo di Panzini. Panzini appare come uno spirito semplice che però può risultare monotono, ma se lo si legge bene Panzini è uno spirito di contrappunto che vive sulle variazioni e con pochi argomenti riesce a lavorare la realtà sino al punto di soffrire e far soffrire.

Quattro sono diventati i motivi predominanti della sua vasta produzione letteraria: in primis la rievocazione fantastica di periodi e personaggi storico-letterari del passato, del mondo greco, come la rappresentazione del burrascoso rapporto matrimoniale e dei pungenti battibecchi di Socrate con la consorte e dell’amore pagano di Catullo e Clodia, ma anche della spensierata civiltà arcadica del Settecento, osservata nei risvolti domestici della vita coniugale di Gasparo Gozzi e la virtuosa e bizzarra poetessa Luisa Bergalli, che in realtà era il ritratto di Margherita Sarfatti. Con l’avvento della guerra la scrittura di Panzini si fece più cupa come si avverte nel Diario sentimentale della guerra del 1918 dove “c’è la tragedia e la commedia dell’Italia neutrale sceneggiata su piccolo palco da un gran talento” e giunge al culmine la crisi dell’intellettuale impegnato nella decifrazione degli eventi ma costretto a constatare l’impossibilità di razionalizzare il disordine, le contraddizioni e le banalità e poter svolgere un ruolo positivo; La Madonna di mamà. Romanzo del tempo della guerra, incentrato sulla rappresentazione della crisi morale di una società destinata a sfociare nell’orrendo sterminio; Viaggio di un povero letterato, in cui l’autore sceglieva stavolta come mezzo di spostamento non la bicicletta ma il treno e affrontava il viaggio con un diverso stato d’animo; infine Il mondo è rotondo che è il taccuino di un uomo puro che fissa molte cose e concetti.

Nacquero poi le Novelle d’ambo i sessi e Io cerco moglie!, un’ammiccante parodia del superomismo sparso a piene mani delle dannunziane Vergini delle rocce. Siamo al terzo tema di Panzini: l’universo femminile che racchiude in se la donna frivola e leggera, provocante ed enigmatica nelle parole e nelle azioni, eccentrica nei gusti, incostante ed irrazionale negli amori, creatura più infernale che angelica. Risaliva al 1881 l’amore di Panzini per Clotilde Maraldi, troncata anni dopo solo perché la donna nn seppe resistere alla imposizioni paterne. Da questo grande affetto derivarono Lettere a Emma, fanciulla ideale e le due novelle Il primo viaggio d’amore e Amore d’altri tempi. Ma se l’amore per Clotilde fu platonico, sensuale e travolgente fu quello per Emma Scazzieri, ispiratrice di due novelle.

La figura femminile, scriveva Alfredo Gargiulo, è ineliminabile negli scritti di Panzini; basta infatti scorrere alcuni suoi titoli (Trionfi di donna, Che cosa è l’amore, Le damigelle, Donne, madonne e bimbi), per rendersi conto in quale misura le donne scorrano dentro le sue pagine. Antonio Baldini, che con Panzini ebbe uno straordinario sodalizio intellettuale, ricordava che lo scrittore “con le donne, si rimoderva di non aver ardito di più. Si giudicava fesso”. Se da un lato la donna è un essere degno di disprezzo e scherno, al contempo è dotato di virtù angeliche, ispiratrici di poesia.

I critici d’Oltreoceano lodavano Panzini per la limpidezza e vivacità della prosa, promuovendolo come uno dei più importanti scrittori italiani della sua generazione; in Italia la sua notorietà era cresciuta a dismisura con l’affermarsi della prosa d’arte e il ritorno all’ordine, che affermavano, reagendo alle avanguardie, l’esigenza di un recupero della tradizione. Nel 1922 Panzini realizzò l’opera Il padrone sono me che ha sancito l’indiscussa popolarità dello scrittore letto e apprezzato dal grande pubblico che lo portò a nuove e prestigiose collaborazioni giornalistiche. Bisogna dire senza remore che Panzini è stato uno scrittore fascista, avverso al bolscevismo, il quale espresse ammirazione per Mussolini rivoluzionario, nutrendo un odio per le masse, paura e repulsione più estetica per gli operai scioperanti e per i contadini, che fu campione di quella cultura reazionaria che aveva conformato milioni di cervelli della piccola borghesia. Ma nei libri di Panzini c’è molto lievito anti-libertario e una reazione esplicita contro l’ubriacatura egualitaria, come si legge nella Lanterna di Diogene:

Veramente non tutti questi poveri sono poveri: vi sono tanti che hanno soltanto la truccatura del povero e mangiano sul palmo della mano, perché ciò è economico e poi illude gli altri con l’aspetto dell’uguaglianza; ma hanno il denaro nascosto, la casetta, il piccolo campo.

Nel romanzo del 1927 I tre Re con Gelsomino buffone del Re, una favola allegorica ambientata in un immaginario reame Sei-Settecentesco, Panzini intendeva dimostrare che sulla Terra non c’è mai stata tanta mancanza di libertà come nel paese della libertà abitato da ministri, prelati, e principi corrotti, al contrario, non vi è stata mai tanta libertà come nel tempo in cui il popolo è stato retto da un tiranno saggio e illuminato. Amante della vita serena, Panzini non è stato mai turbato da passioni violente; il suo è stato un perfetto ed onesto quieto vivere. Quanto fosse grande la sua fama lo testimoniano i tre volumi antologici pubblicati subito dopo la morte: Sei romanzi tra due secoli, Romanzo d’ambo i sessi, La cicuta, i gigli e le rose, una sorta di Meridiani ante litteram.

Già durante il periodo di maggior successo, in polemica con la linea formalistica allora prevalente, si era delineata nei suoi confronti una progressiva presa di distanza da parte di alcuni critici come Croce, Gramsci e Gobetti ed ecco che lo scrittore romagnolo è incorso, a partire dal dopoguerra, in un vertiginoso declino. Accantonato e catalogato tra i minori della letteratura, Panzini è stato visto non solo come una sorta di avversario di classe ma di antagonista per la sua concezione umanistica-retorica dell’arte antitetica alla nuova figura dell’intellettuale. Ma Panzini, oggi merita ancora di essere letto? Certamente, perché se la letteratura deve essere un mero distraente e neppure un genere di facile consumo ma un’urgenza silenziosa, un appello alla coscienza, allora quella di Panzini è vera letteratura. Poeta “tormentato dalla malattia della transizione”, è stato, sebbene prigioniero della sua morale e dei suoi pregiudizi, uno degli scrittori più rappresentativi delle inquietudini della borghesia della prima metà del Novecento, fautore di un genere letterario tra il ricordo e la finzione, tra il diario e la favola, romanzi cioè senza una vera e propria trama ma che oggi vanno per la maggiore, ma in cui, in Panzini, il filo narrativo serve solo come legame per una serie di considerazioni condotte sul crinale dell’ironia e dell’allusività.

 

Fonte: A. Panzini, Che cos’è l’amore?, Edizioni Helicon

‘Storia di Cristo’, la conversione di Giovanni Papini: una difesa tradizionale contro l’anarchia morale contemporanea

Giovanni Papini ha impresso il proprio nome nella Storia. Con le sue teorie strampalate, i suoi cambi di bandiera repentini e improvvisi ha stupito la cultura del Novecento italiano comparendo nel registro dei più grandi polemisti di tutti i tempi. Battagliero e feroce, si ritrovò ritto sulle barricate del secolo a infiammare il mondo. Ignorato oggi in patria, il suo nome è noto all’estero: uomini come Jorge Luis Borges, Mircea Eliade, o Henry Miller lo hanno letto, amato e ricordato. Perché non dovremmo farlo anche noi? Almeno ricordarlo…Lettore onnivoro e scrittore frammentario dallo stile dissacrante, e dall’animo irrequieto e trasformista, noto per le sue numerose stroncature, l’arrogante Papini è considerato il capo del primo Sturm und Drang italiano. A lui e Prezzolini si devono l’importazione in Italia di intellettuali come il sindacalista rivoluzionario Sorel, e i filosofi Bergson e James. Benedetto Croce fu invece il suo nemico più temibile. Inveì contro i liberali, i socialisti e i preti. Si mosse là dove vi era fervore.

Un estremista nato. Si autodefinì “l’uomo che non accetta il mondo”. Il suo pensiero è ricollegabile alla corrente reazionaria, conservatrice e antidemocratica del primo Novecento Italiano. Con le sue riviste ha influenzato filosofi della portata di Julius Evola. Sempre fiero del suo viso dai tratti demoniaci, Papini è uno di quegl’uomini a metà tra il diavolo e l’acqua santa. Da feroce iconoclasta divenne un fervente cattolico, senza mai smettere di essere un mangiatore di preti. Amò Dante e Machiavelli, Michelangelo e, poi, Sant’Agostino. L’autore di Chiudiamo le scuole rifiutò più volte le cattedre offertegli come accademico di Italia, fino a quando finì per accettare, nel 1937, la direzione dell’Istituto di Studi sul Rinascimento. Non aderì né alla RSI né alla Resistenza. Fece l’apota, come il suo amico Prezzolini. Nel 1938 firmò, tra gli altri, il “Manifesto della Razza”. Quando rimane fedele a se stesso, trincerato sulle sue posizioni, sorprende. Quando aderisce a una qualsivoglia “chiesa”, delude. Eccezione fatta per la Storia di Cristo, grande opera letteraria dall’immediato successo, sia in Italia che all’estero.

Sulla testimonianza dei Vangeli canonici, e, talora, di quelli apocrifi, narra dalla nascita all’ascensione la vita del Redentore per invocarne la grazia e la giustizia verso l’umanità corrotta: perché tutte le generazioni rifiutano e crocifiggono il Cristo, ma nessuna come questa è caduta tanto in basso. La Storia di Cristo è il libro magno della conversione di Papini; il bestemmiatore ha portato la sua violenza al servizio della fede; l’«uomo finito» ha fallito nella sua pretesa alla divinità, si è dichiarato vinto e disfatto; rinasce come apostolo della fede e la difende con tutti i suoi mezzi oratori. Dal punto di vista storico la Storia di Cristo rappresenta l’ultimo tentativo di difesa tradizionale contro l’anarchia morale contemporanea. È una difesa non ragionata, ma impetuosa e travolgente, una multiforme adesione al verbo di Cristo senza nessuno scrupolo di conformismo cattolico come nota giustamente Raffaele de Grada nella prefazione Bompiani.

Storia di Cristo di Papini: struttura e contenuti

Per comodità più che per spirito di classificazione, si potrebbe iniziare il percorso dell’opera di Papini da alcune Vite di Gesù, forse tra le più note, scritte nell’ultimo secolo.
La vita di Gesù, presentata per brevi capitoli, inizia con una lunga presentazione, nella quale Papini spiega i motivi del suo scritto e i suoi intendimenti nel proporre un argomento così contro-corrente.
Ne riportiamo alcuni brani. “… Cristo, invece è sempre vivo in noi. C’è ancora che l’ama e chi l’odia. C’è una passione per la passione di Cristo e una per la sua distruzione… Nessun tempo fu, come questo, tanto diviso da Cristo e così bisognoso di Cristo. Ma per ritrovarlo non bastano i vecchi libri… Le vite di Gesù destinate ai devoti esalano quasi tutte un non so che di mucido e stantio che respinge, fin dalle prime pagine, il lettore avvezzo a più delicati e sostanziali pasti…”

Dopo tali premesse l’autore presenta cosa l’uomo di oggi desidera incontrare: “… un libro vivo, che renda più vivo Cristo, il sempre vivente, con amorosa vivezza, agli occhi dei vivi. Che lo faccia sentir presente, d’una eterna presenza, ai presenti. Che lo raffiguri in tutta la sua vivente e presente grandezza – perenne epperciò anche attuale – a quelli che l’hanno vilipeso e rifiutato, a coloro che non lo amano perché non hanno mai veduto la sua vera faccia…” A questo punto Papini può “giustificare” la sua opera di laico già miscredente per credenti e miscredenti, un’opera quindi accreditata dalla vicenda passata del suo stesso autore: “… un libro siffatto l’autore del presente non pretende d’averlo fatto lui, benché confessi di averci pensato spesso: ma per lo meno ha tentato, per quanto arrivavano le sue capacità, di accostarsi a quell’idea… pur tenendomi fedele alle parole delle Rivelazione e ai dogmi della Chiesa Cattolica s’è studiato, talvolta, di ripresentare quei dogmi e quelle parole in modi diversi dai soliti, con uno stile violento d’opposizioni e di scorci, ravvivato da termini crudi e risentiti, per vedere se l’anime d’oggi, avvezze ai pimenti dell’errore, potessero svegliarsi ai colpi della verità…” L’autore stesso, quindi, motiva l’uso di un linguaggio violento, quasi ad invettiva, proprio per risvegliare alla Verità la coscienza addormentata dei lettori moderni.

Non ci soffermiamo sui capitoli relativi all’infanzia e alla vita di Gesù, ne proponiamo invece alcuni tratti dal secondo tomo sulla passione, morte resurrezione del Cristo. Tutti gli autori, e Papini compreso, si interrogano in particolar modo su Guida Iscariota (Ishkarioth), sul mistero del suo tradimento, soprattutto sulle motivazioni di tale azione ignobile.
Ma chi è in realtà Giuda, che personalità si nasconde nelle parole lapidarie della Scrittura?
Papini presenta un ampio ventaglio di ipotesi, ma non ne abbraccia alcuna: “… Il mistero di Giuda è legato a doppio nodo al mistero della Redenzione e rimarrà per noi miseri un mistero”; ma poi aggiunge “… se Gesù non fosse stato venduto sarebbe mancato qualcosa alla perfetta ignominia dell’espiazione…”, quindi Giuda non solo è traditore, ma è colui che ha venduto, barattato a basso prezzo un uomo, l’Uomo; Giuda fu un venditore di sangue.

Dopo aver descritto in più capitoli l’ultima cena, l’autore si addentra nel vivo del racconto evangelico con l’agonia di Gesù nell’orto degli ulivi. Solo Papini presenta questo momento come una seconda tentazione del Cristo, dopo quelle che egli subì nel deserto prima della sua vita pubblica “… ora, in questo nuovo deserto, in questa tenebra dove Gesù è solo, spaventosamente solo… Satana torna ad insidiare il suo nemico… L’altra volta gli prometteva le grandezze dei regni….ora ricorre al contrario: spera nella sua debolezza…”.

Papini accenna solo a questo profondo tormento del Cristo, poi si ritrae, quasi impaurito da tanto suo ardire “… il racconto di questa notte è il mistero di Gesù. Il mistero di Giuda è il solo mistero umano dell’Evangelo, la Preghiera del Getsemani è il più imperscrutabile mistero divino della storia di Cristo.” Ora il Cristo in questa lotta con le Tenebre gronda sangue, “suda per tutta la persona… il sangue che ha promesso agli uomini comincia a versarlo sull’erba del Monte degli Ulivi.” La lotta che Gesù affronta è il diretto confronto tra arbitrio ed obbedienza, cioè tra arbitrio e vera libertà: “la volontà abdica nell’ubbidienza che sola assicura la libertà universale. Non è più un uomo ma l’Uomo; l’Uomo tutt’uno con Dio, una cosa sola con Dio: voglio quello che vuoi.”Inquietante la descrizione che viene fatta di Anna (Hanan) e di Caifa (Cajafa, soprannome che ha diverse assonanze con Cefa, fa notare Papini): uomini senza scrupoli, più attenti agli intrighi di potere che alla religione dei Padri, più interessati ai risvolti politici della predicazione di questo sedicente messia che alle sue parole.
Con Giuseppe Cajafa, Pietra, appare anche Simone Cefa, Pietra nel momento culminante del suo tradimento e del successivo, desolato pentimento al canto del gallo, raccontato dallo scrittore con toni lirici e struggenti: “… quel canto ilare e baldanzoso fu per Simone come il grido che sveglia di colpo l’assopito da un incubo; Come il ricordo improvviso di un discorso udito in un’altra vita, come il ritorno alla casa della puerizia, all’orto mattiniero, disteso fra il lago e le campagne, come una voce da tanto tempo dimenticata che illumina una vita come un lampo la notte. Allora si poté vedere, nell’incertezza dell’albore, un uomo che andava via come un ubriaco, col capo nascosto nel mantello, e le spalle scosse dai singhiozzi d’un pianto disperato”. Sono numerosi i capitoli che Papini dedica alle torture inflitte a Gesù, ben otto, quasi volesse raccontare in tempo reale, attimo per attimo, la sofferenza fisica e spirituale del Cristo. I toni sono realistici, forti, impietosi sia nel tratteggiare giudei, romani che lo stesso Gesù sotto il peso dei tormenti.

Il consiglio ebreo che giudica il Signore è un canile di spettri; i giudei sono vecchi, massicci, nasuti, arcigni, cipigliosi, chiusi nei manti bianchi, le teste coperte da un panno, le barbe carezzate e reverenziali, gli occhi pugnaci. Il Cristo in questo consesso, “sempre colla fune annodata ai polsi spinto in mezzo a codesto canile”, pareva il condannato ad bestias negli anfiteatri romani; Egli tace e i suoi silenzi sono gravi di una soprannaturale eloquenza che ha il potere di invelenire i suoi giudici. Tutto ciò fino alla domanda diretta di Caifa, alla quale Gesù non può non rispondere perché per quella suprema testimonianza è venuto.

I gaglioffi del Tempio prendono in consegna Colui che con le sue stesse parole si è condannato: “l’uomo bestia, quando è certa l’impunità, non conosce più bel sollazzo di questo: sfogarsi contro l’inerme, con maggior gusto quando l’inerme è innocente…”, poche parole che bastano a farci comprendere le bestialità cui fu oggetto l’Innocente per eccellenza.
Un altro personaggio di questo dramma è Ponzio Pilato, il procuratore romano: se da principio il giudizio che Papini da su di lui pare abbastanza attenuato, poi però non gli risparmia le sue incapacità, i suoi tentennamenti, o meglio, l’essersi mosso per ragion di Stato e non per amore di Verità: “Pilato, a forza di stratagemmi, di rinvii, d’indolenti interrogazioni, di mezzi termini e mezze misure, di titubanze, di risoluzioni maldestre e ringoiate, di mosse mal eseguite, si trovava ora precipitato lentamente dove non sarebbe voluto cadere…”. Unica nota luminosa e positiva Claudia Procula, la moglie del procuratore, che la Chiesa orientale venera come santa, poiché si è mossa a favore di Gesù.

Terribile il capitoletto Un re incoronato, per la crudezza di descrizione, per la violenza trattenuta a stento dalle parole nel suggerire le flagellazione. Il triste corteo con il condannato a morte procede alla volta del Calvario “… in cima alla callotta del Teschio le Tre Croci, alte, scure, colle traverse aperte, come giganti pronti all’abbraccio, campeggiano sul gran cielo amoroso di primavera. Non gettano ombre ma sono orlate dalle riverberazioni scintillanti del sole. È tanta la bellezza del mondo, in quel giorno, in quell’ora, che non sembra possibile pensare ai tormenti; non si potrebbe, quell’antenne di legno, fiorirle con fiori di campo e sospendere, dall’una all’altra, festoni di foglie nuove, mascherate i patiboli con muraglie di verdura e sedere all’ombra, fratelli riconciliati e benevoli, per tutta la siesta?...”. Stupiscono questi squarci lirici che frammezzano la narrazione dell’orrore, dell’odio degli uomini verso il Cristo, eppure Papini sceglie di procedere così: allenta la tensione di un narrare serrato con la calma e la tranquillità di questi paesaggi interiori.

Con quattro chiodi, impietosamente, Cristo è conficcato alla croce tra il clamore dei suoi avversari e il silenzioso compianto delle donne, della madre e di Giovanni. Accanto a lui soffre Dismas: “… in un impeto di fede, come se invocasse la comunanza di quel sangue che grondava nello stesso momento dalle sue mani di criminale e da quelle mani d’incolpevole, proruppe in queste parole: Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo Regno!”
“Il respiro di Gesù si faceva sempre più rantolante… Il cielo, ch’era stato limpido tutta la mattina, quasi improvvisamente si oscurò… Cristo è morto. È morto sulla croce come gli uomini hanno voluto, come il Figlio ha scelto e il Padre accettò. L’agonia è finita e i Giudei son contentati. Ha espiato fin all’ultimo ed è morto. Ora comincia la nostra espiazione – e non è ancora finita.“.

I capitoli conclusivi rivivono, con commozione intensa in cui balena la medesima esperienza trasfigurante dell’autore neo-convertito, gli episodi che dalla resurrezione si dipanano fino all’ascensione di Cristo al Padre. Veramente degna di nota è la preghiera finale, nella quale si condensa tutta la fede ardente di Papini: “Abbiamo bisogno di te, di te solo, e di nessun altro. Tu solamente, che ci ami, puoi sentire per tutti noi che soffriamo, la pietà che ciascuno di noi sente per se stesso… Ma noi, gli ultimi, ti aspettiamo. Ti aspetteremo ogni giorno, a dispetto della nostra indegnità e d’ogni impossibile. E tutto l’amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amor nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore.”

 

 

Fonte: http://universalautori.blogspot.it/2012/08/letteratura-papini-g-storia-di-cristo.html

L’intellettuale dissidente

Ardengo Soffici, frammentista e biografo plurilinguista

Ardengo Soffici (Rignano sull’Arno, 7 aprile 1879 – Vittoria Apuana, 19 agosto 1964) è stato più un pittore che uno scrittore, un pittore paesano che ha trasferito nelle sue opere quella limpidezza e naturale felicità tipiche del suo paesaggio nativo. Lo si potrebbe definire anche uno scrittore di frammenti ariosi e luminosi. Nato in una famiglia di agiati agricoltori, nel 1893 Ardengo Soffici si trasferisce con la famiglia a Firenze dove assiste al tracollo finanziario del padre; si dimostra interessato soprattutto verso l’arte piuttosto che sulla letteratura e infatti nel 1900, dopo la morte dei genitori si reca a Parigi dove comincia a lavorare come illustratore per importanti riviste. Nel 1907 torna in Italia dove stringe amicizia con Papini e Prezzolini con i quali collabora alla <<Voce>> e partecipa alle numerose polemiche che in quegli anni animavano il dibattito culturale allargando le sue conoscenze. Nel 1913 insieme a Palazzeschi e a Papini fonda la rivista futurista <<Lacerba>>.

Se prendiamo in esame il racconto Lemmonio Boreo vediamo emergere in tutta la sua chiarezza lo stile di Ardengo Soffici; il personaggio di Lemmonio ha un temperamento istintivo, dotato a volte di equilibrio che lo porta, per spontaneo sentimento, a difendere le persone più deboli che da soli nulla potrebbero contro sopraffazioni e ingiustizie. Lemmonio propone un compito serio: ricondurre l’ordine rotto dalla prepotenza e dalla malvagità dei forti; si mette dunque a girare per i paesi, si allea con un violento e con un furbo, ma a fin di bene. Insomma, Lemmonio è un don Chisciotte italiano, composta per tre quarti di ingenuità e per una parte di razionalità e se la caverà sempre bene perché in fondo Lemmonio, come tutti gli ottimisti crede nel suo programma e confida nel bene presente nel mondo.

Tuttavia ciò che interessa di più del Lemmonio Boreo non è il dato psicologico, ma quella qualità dello stile di Soffici di disporre dentro un disegno pulito e finito in ogni sua parte, il colore del paesaggio, gli aspetti, le figure che in esso circolano corpose; non a caso Lemmonio si sente appagato e sereno quando contempla solitariamente le campagne, quando ammira il sole mattutino e la pioggia cadere sulla strada. Dell’uomo, egli non sa quasi nulla, gli stessi suoi amici sono nelle sue mani come fantocci che egli muove a suo piacimento. In questo senso, tutto il romanzo è un susseguirsi di macchiette, tipi, e figurine. La campagna toscana è presente in maniera festosa ed è proprio su questo aspetto che Soffici differisce dagli altri scrittori toscani che invece puntano sulla malinconia e sulla nostalgia.

Più che un vero futurista Soffici può essere definito come ha detto il critico Mengaldo, «un Apollinaire italiano in formato ridotto». Egli infatti da Marinetti ha saputo cogliere la retorica e la tecnica dell’analogia, da Apollinaire l’assenza di punteggiatura, dalla pittura futurista gli accostamenti fantastici e dal nuovo cinema lo scorrere continuo delle immagini, avvalendosi con disinvoltura di un efficace plurilinguismo, che va dal toscanismo al francesismo.

Ardengo Soffici è stato anche un acuto ritrattista letterario che ha avuto grande solidità, fermezza e serietà, tipiche qualità del”campagnolo toscano” come dimostrano Ricordi di vita artistica e letteraria e soprattutto Rete mediterranea, in cui l’autore nel primo scritto, dichiara la sua fede letteraria e idee riguardanti il concetto di arte, la mortalità dello scrittore, il senso della storia, nel secondo rievoca e rivive iil suo periodo di giovinezza partendo da una visita allo studio del pittore macchiaiolo Giovanni Fattori. Questi ricordi ci consegnano un Soffici maturo, con il suo raggiunto equilibrio morale che, dal punto di vista letteraria, è tutto improntato di classicismo. A parte alcuni brevi immagini di scrittori italiani come Carducci, Verga e D’Annunzio, l’autore toscano si concentra sui profili dedicati a scrittori amici come Bellini, ancora alle prime armi letterarie ed è bene sottolineare come in quel periodo la letteratura italiana fosse scarsa di quel genere di testimonianze biografiche utili a dare rilievo ad un periodo letterario.

Nella produzione letteraria di Soffici, oltre ad altri scritti di narrativa e di prosa (Ignoto toscano, Arlecchino, Kobilek, La giostra dei sensi, Battaglia fra due vittorie, Ritratto delle cose di Francia), figurano anche poesie (Elegia dell’Ambra, Marsia e Apollo), e saggi anche di natura artistica (Cubismo e futurismo, Giovanni Fattori, Carlo Carrà, Periplo dell’arte, Serra e Croce)

Giuseppe Ungaretti: rinnovatore ermetico

Nato ad Alessandria d’Egitto, nel quartiere periferico di Moharrem Bey, da genitori lucchesi l’8 febbraio 1888, il poeta dell’ “essenziale”, Giuseppe Ungaretti, trascorre lì l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza.

Il porto sepolto

Il padre Antonio, emigrato in Egitto come sterratore al canale di Suez, muore per una malattia contratta nel suo massacrante lavoro quando il figlio Giuseppe aveva solo due anni. Allattato da una nutrice sudanese, alla quale poi il poeta farà cenno in una delle sue poesie, “Le suppliche” (poi “Nebbia”), soffrirà in seguito di una grave forma di tracoma agli occhi costringendolo al buio per mesi.

Importante fu il ruolo svolto dalla madre Maria Lunardini nella formazione di Ungaretti che, nonostante le preoccupazioni legate alla necessità di crescere da sola i figli, riuscì a mandare avanti la gestione di un forno di proprietà con il quale garantì gli studi al figlio, che si potè così iscrivere in una delle più prestigiose scuole di Alessandria, la Svizzera École Suisse Jacot.

Gli anni egiziani sono segnati dall’amicizia fraterna con Moammed Sceab (che morirà suicida a Parigi e a cui saranno dedicati nel 1916 i versi d’apertura del “Porto Sepolto”). Con l’amico condivide la lettura del “Mercure de France”, prestigioso organo di diffusione della letteratura simbolista e decadente.

Sono questi gli anni in cui il giovane Giuseppe Ungaretti si avvicina alla letteratura francese e, grazie all’abbonamento a “La Voce”, alla letteratura italiana. Ha anche uno scambio di lettere con Giuseppe Prezzolini e successivamente inizia la frequentazione di Enrico Pea con il quale condivide l’esperienza della “Baracca Rossa”, un deposito di marmi e legname dipinto di rosso che diverrà sede di incontri per anarchici e socialisti.

Nel 1909 si trasferisce a Il Cairo dove s’impiega come curatore della corrispondenza francese negli uffici di un importatore di merci dall’Europa, ma dopo una serie di investimenti sbagliati, si sposta nuovamente e questa volta a Parigi, dove poi svolse gli studi universitari.

Venuto a contatto con un ambiente artistico internazionale, stringe amicizia con G. Apollinaire, ma anche con Giovanni Papini, Ardengo Soffici e Aldo Palazzeschi, con i quali inizia la collaborazione a “Lacerba”. Ma solo dopo qualche pubblicazione, decide di partire volontario per la Grande Guerra.

Quando nel 1914 scoppia la Prima Guerra Mondiale, Ungaretti partecipa alla campagna interventista, per poi arruolarsi volontario nel 19° reggimento di fanteria;  combatte sul Carso dopo l’entrata in guerra dell’Italia ed in seguito a questa esperienza scrive le poesie che, raccolte dall’amico Ettore Serra (giovane ufficiale), verranno stampate in 80 copie presso una tipografia di Udine nel 1916 col titolo di “Il Porto Sepolto”.

Stabilitosi a Parigi alla fine del conflitto, Giuseppe Ungaretti riceve da Mussolini l’incarico di corrispondente dalla Francia per il quotidiano “Il Popolo d’Italia”. Alla fine del 1919 appare “Allegria di Naufragi”, nel quale confluiscono le poesie del “Porto Sepolto”, il volumetto “La guerra” e altre liriche pubblicate su varie riviste italiane e francesi.

Gli anni ’20 segnano un cambiamento nella vita privata e culturale del poeta; si trasferisce a Marino (Roma), sposa Jeanne Dupoix, dalla quale ha due figli, e successivamente aderisce al fascismo firmando nel 1925 “Il Manifesto degli intellettuali fascisti”.

Nel 1936, durante un viaggio in Argentina, gli viene  offerta la cattedra di letteratura italiana presso l’Università di San Paolo del Brasile, che Ungaretti accetta; trasferitosi con tutta la famiglia, vi rimarrà fino al 1942.

In quello stesso anno ritorna in Italia dove venne nominato “Accademico d’Italia” e per chiara fama, professore di letteratura moderna e contemporanea presso l’Università di Roma.

In Italia raggiunge una certa notorietà e il 4 giugno 1970 si svolge il suo funerale a Roma, ma non vi partecipa alcuna rappresentanza ufficiale del governo italiano.

Allegria dei naufragi

“L’Allegria “segna un momento chiave della storia della letteratura italiana:  Giuseppe Ungaretti rielabora in modo molto originale il messaggio formale dei simbolisti (in particolare i versi spezzati e senza punteggiatura dei “Calligrammes” di Apollinaire, oltre all’uso delle cosiddette “mots-outils”, parole utensili che, collocate in posizione isolata aumentano la frantumazione metrica intensificando così i silenzi, in attesa di rivelazioni) coniugandolo con l’esperienza atroce del male e della morte nella guerra.

Al desiderio di fraternità nel dolore si associerà la volontà di cercare una nuova armonia con il cosmo, culminando nella poesia “Mattina” (1917):

“M’illumino d’immenso”.

 

o in “Soldati”:

“Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie”

 

Ungaretti durante il servizio militare

Questo spirito mistico-religioso, si evolverà nella conversione di “Sentimento del Tempo”raccolta caratterizzata da una complessità retorica , ritorno al classicismo, nonchè al Barocco come sentimento di decadenza di eterno, di caducità; e nelle opere successive, dove l’attenzione stilistica al valore della parola, indica nei versi poetici l’unica possibilità dell’uomo, o una delle poche possibili, per salvarsi dall’ “universale naufragio”.

Sicuramente il momento più drammatico del cammino di Giuseppe Ungaretti, è raccontato ne “Il Dolore”: la morte in Brasile, la cui natura è percepita come ostile e matrigna dal poeta, sulla scia di Leopardi, del figlioletto segnerà definitivamente il pianto dentro del poeta anche nelle raccolte successive ;struggente e drammatica a tal proposito la lirica “Gridasti: soffoco”:

 

“Non potevi dormire, non dormivi…

Gridasti: Soffoco…

Nel viso tuo scomparso già nel teschio,

Gli occhi, che erano ancora luminosi

Solo un attimo fa,

Gli occhi si dilatarono… Si persero…

Sempre era stato timido,

Ribelle, torbido; ma puro, libero,

Felice rinascevo nel tuo sguardo…

Poi la bocca, la bocca

Che una volta pareva, lungo i giorni,

Lampo di grazia e gioia,

La bocca si contorse in lotta muta…

Un bimbo è morto…

 

 

Nove anni, chiuso cerchio,

Nove anni cui nè giorni, nè minuti

Mai più s’aggregeranno:

In essi s’alimenta

L’unico fuoco della mia speranza.

Posso cercarti, posso ritrovarti,

Posso andare, continuamente vado

A rivederti crescere

Da un punto all’altro

Dei tuoi nove anni.

Io di continuo posso,

Distintamente posso

Sentirti le mani nelle mie mani:

Le mani tue di pargolo

Che afferrano le mie senza conoscerle;

Le tue mani che si fanno sensibili,

Sempre più consapevoli

Abbandonandosi nelle mie mani;

Le tue mani che si fanno sensibili,

Sempre più consapevoli

Abbandonandosi nelle mie mani;

Le tue mani che diventano secche

E, sole – pallidissime –

Sole nell’ombra sostano…

La settimana scorsa eri fiorente…

 

 

Ti vado a prendere il vestito a casa,

Poi nella cassa ti verranno a chiudere

Per sempre. No, per sempre

Sei animo della mia anima, e la liberi.

 

Ora meglio la liberi

Che non sapesse il tuo sorriso vivo:

Provala ancora, accrescile la forza,

Se vuoi – sino a te, caro! – che m’innalzi

Dove il vivere è calma, è senza morte.

 

 

Sconto, sopravvivendoti, l’orrore

Degli anni che t’usurpo,

E che ai tuoi anni aggiungo,

Demente di rimorso,

Come se, ancora tra di noi mortale,

Tu continuassi a crescere;

Ma cresce solo, vuota,

La mia vecchiaia odiosa…”

 

 

Come ora, era di notte,

E mi davi la mano, fine mano…

Spaventato tra me e me m’ascoltavo:

E’ troppo azzurro questo cielo australe,

Troppi astri lo gremiscono,

Troppi e, per noi, non uno familiare…

 

 

(Cielo sordo, che scende senza un soffio,

Sordo che udrò continuamente opprimere

Mani tese a scansarlo…)

A riconoscere in Giuseppe Ungaretti il poeta che per primo era riuscito a rinnovare formalmente e profondamente il verso della tradizione italiana, furono soprattutto i poeti dell’ermetismo che, all’indomani della pubblicazione del “Sentimento del tempo”, salutarono  il sensibile autore quale  maestro e precursore della propria scuola poetica, iniziatore della poesia “pura”, della  sacralità, del miracolo, del mistero, della parola, da recuperare insieme ad  un mondo primitivo, segreto ed innocente, attraverso la memoria (secondo le teorie di Bergson e Platone). Da allora la poesia ungarettiana ha conosciuto una fortuna ininterrotta. A lui, assieme a Umberto Saba e Eugenio Montale, hanno guardato come un imprescindibile punto di partenza molti poeti del secondo Novecento.

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