‘La cognizione del dolore’ di Gadda: una lettura psicoanalitica

La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda è uno dei primi romanzi a sfondo nevrotico, oltre che il primo romanzo che diede fama all’autore.

Gadda è uno scrittore che attingerà sempre alle vicissitudini e le esperienze familiari per ispirarsi nelle sue produzioni. Ogni libro è una trasposizione delle difficoltà affrontate nel corso della sua esistenza.

Seguendo schemi di lettura freudiani, Gadda, coglie nella propria infanzia un radicato nucleo traumatico che si esplicherà in maniera superba ne La cognizione del dolore.

Nei suoi contenuti, nel continuo richiamo alla figura materna e alle figure ”perbeniste”  che pullulano in quell’Italia marchiata dal fascismo – e al fascismo stesso! – si riscontrerà sempre e comunque un fondo nevrotico all’interno della sua scrittura.

Carlo Emilio Gadda, quando dalla sofferenza scaturisce la letteratura

L’infanzia di Gadda si cristallizza in un’immagine: quella del padre che,  per costruire la famigerata villa in Brianza, si porrà in una condizione che determinerà la sua rovina.

La madre invece, nonostante le evidenti difficoltà economiche familiari, svilupperà un attaccamento spasmodico alla villa tanto da non volerla vendere, a discapito dei suoi stessi figli. La villa diventa il simbolo del rancore verso la madre che  farà riflettere nelle sue opere e, in particolar modo, ne La cognizione del dolore; alla morte della madre lo scrittore finalmente si libera di quella che definì «la bestia nera della sua psicosi».

Una volta venduta la Villa tanto odiata in giovinezza, inizia la stesura di quello che sarà il suo romanzo introspettivo e autobiografico per eccellenza. Va alla ricerca di oscure ragioni che, impellenti, sottolineano in lui l’astio e  il rancore verso la madre, e non di meno l’odio verso la stupidità dilagante del mondo da cui si sente circondato.

Tutto questo avviene attraverso la costruzione di un perfetto alter-ego letterario che realizza ad hoc; anche per i meno attenti è facilmente intuibile come il protagonista di questa opera umoristica e dissacrante, nonostante tutto,  non è altro che lo stesso autore riflesso nell’ingegnere Gonzalo Pirobutirro.

Anche Gonzalo è un ingegnere, ed è questa sua formazione scientifica che lo sprona a rappresentare la realtà così come si pone, ponendo un’indagine razionale e un approccio scientifico, quasi sperimentale,  agli eventi, i personaggi, e le situazioni.

Lo scrittore in seguito alle sue esperienze più traumatiche, dal rapporto ostico con la madre all’esperienza del fascismo, maturerà anche grazie alla sua formazione scientifica, quanto sia un dovere scardinare la realtà e descriverla come veramente si pone senza gli orpelli del perbenismo. La realtà è sporca, abietta, sconvolgente.

La consapevolezza di appartenere a un destino condiviso

La vicenda in cui si snoda la trama de La cognizione del dolore, si svolge in un paese immaginario del Sud America. La figura centrale è, appunto, Don Gonzalo il figlio misantropo della Padrona della Villa, il quale viene affidato alle cure del Dottor Lukones  al quale Gonzalo comunica la sua visione sugli uomini e sul mondo, società in cui rientra anche la madre uguale alla massa stessa.

Gadda/Gonzalo riconosce nella moltitudine contenitori vuoti e inutili e se ne distacca, consapevole di non far parte di un  gregge privo di valori. Gonzalo è dominato dal pensiero di morte e ossessionato dalla figura della madre: pensieri nevrotici che andranno snodandosi pian piano in ogni pagina investendo ogni  porzione di vita del protagonista.

Grazie a questo insano rancore verso la figura materna, Gadda si mette alla ricerca delle ragioni per il quale Gonzalo ne La cognizione del dolore odia tutti per difendersi da un’esistenza in potenza, una vita attiva dalla quale si sente respinto.

La sua è un’ira che non risparmia nessuno, nemmeno gli umili, una collera infettata da raziocinio che lo porta sì a esser consapevole della stupidità del mondo ma, anche, a concretizzare la consapevolezza di far parte anche lui  di questa sofferenza comune e di avere il medesimo destino di tutti coloro che rifiuta.

Il dolore di Gonzalo

É questa insofferenza, questo dolore, il cardine dell’irritazione di Gonzalo, la causa dei suoi pensieri deliranti e sarcastici. Il rapporto con la madre ne consegue essere solo una conseguenza.

In psichiatria si parlerebbe quasi di una forma di delirio interpretativo che, come lo stesso Gadda fa intendere, non deve avere un’accezione di diagnosi al negativo, tutt’altro! Nelle pagine del romanzo, ci si ritrova di fronte a un personaggio scostante, nevrotico, allucinato e delirante.

Tuttavia Gonzalo non distorce la realtà, non inventa universi paralleli. I suoi pensieri deliranti hanno dei moventi razionali poiché tutto è conseguenza, è una reazione ad un trauma. Un’opera grottesca, nevrotica, sarcastica che l’autore lascerà incompiuta, atterrito e spento dalla ”vanità vana del nulla!”.

Psicoanalisi e surrealismo, il romanzo psicoanalitico: Freud, Lacan, Breton, Allan Poe e Dalì

Uno dei primi surrealisti, Emile Malespine, affermava che per capire Freud occorreva inforcare dei testicoli come fossero occhiali.
Fatto sta, che il padre della psicoanalisi ha contribuito non poco ad alimentare la fantasia e stimolare il genio creativo di molti artisti, in particolar modo dei surrealisti, appunto. Nondimeno, la letteratura è sempre stata di grande ispirazione per Freud, tanto che per molti la psicoanalisi è essa stessa un’opera d’arte molto simile a un romanzo. Ma come si sono conosciuti psicoanalisi e surrealismo e com’è nata la reciproca attrazione? Attorno al 1915, Luis Aragon e André Breton, studenti in medicina, interessati alla neurologia e alla psichiatria, hanno fatto propri i lavori di Pierre Janet, professore al Collège de France e, all’epoca, figura di spicco della psicologia. Nel suo saggio “Automatisme psychologicque” del 1889, Janet sosteneva il ruolo fondamentale dei traumi psicologici sulla frammentazione dello spirito e anticipava di poco Freud nell’affermare l’importanza dei ricordi subconsci nella quotidianità.

Su questa scia intellettuale e culturale, nel 1924, Breton formula il ben noto manifesto del surrealismo, definendolo “un automatismo psichico puro per mezzo del quale ci si propone di esprimere, o verbalmente, o per iscritto, o in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza d’ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori d’ogni preoccupazione estetica o morale … “

I surrealisti, quindi, hanno cominciato a considerare la creatività automatica come una forma di attività artistica superiore, l’unica in grado di raggiungere la fonte della creazione poetica suprema, svincolata dalla tirannia della ragione, appellandosi a quel nebuloso universo subconscio tanto proclamato da Freud. Breton, in realtà, aveva letto solo documenti di seconda mano riguardo Freud e le sue teorie, anche perché lui, così come la maggior parte dei suoi colleghi, non conosceva il tedesco. Nel 1921, decise di fare un viaggio a Vienna proprio per incontrare il mitico padre della psicoanalisi, il quale però pare lo ricevette piuttosto sbrigativamente, liquidandolo con una compassionevole pacca sulla spalla. Nonostante la sua delusione, Breton sostenne la psicoanalisi, sopportando anche le forti e continue tensioni ideologiche tra il movimento surrealista e quello psicoanalitico.

I surrealisti, infatti, non hanno mai sposato uno dei concetti fondamentali della psicoanalisi, quello del complesso d’Edipo, definendolo come una ridicola uniforme per un astratto manichino. Era il sogno l’anima del surrealismo. Così Freud, consapevole e forse un po’ invidioso del crescente riconoscimento che questi giovani sobillatori stavano conquistando anche in virtù di alcune sue teorie, cominciò a intrattenere una fitta corrispondenza con Breton. L’argomento fondamentale del loro epistolario era la relazione tra sogno e creazione artistica e, pare, che il tono tra i due fosse sempre piuttosto teso, reciprocamente sfidante come fossero due duellanti calamitati da sentimenti contrapposti d’amore e odio, sempre in bilico tra l’ironico e il pedante. Breton fu comunque fino all’ultimo un ammiratore di Freud, pur mantenendo una certa distanza dalle sue teorie, così come dal leninismo e dal marxismo, tanto che prese fermamente le sue difese durante la persecuzione nazista del 1938.

D’altro canto, anche la psicoanalisi è stata fortemente influenzata dal surrealismo. Jacques Lacan, che frequentò filosofi come Heidegger, Claude Levi-Strauss, dedicando molta attenzione anche alla teoria della comunicazione di un linguista come Jakobson e per il quale bisognava liberare l’Io dal proprio narcisismo per far venir fuori l’inconscio, entro della vita pulsionale del soggetto e condizionato dal linguaggio e che coincide con la totalità del soggetto stesso, mentre la cura cerca la Verità non la guarigione. Appare quindi evidente come il tema della contaminazione di saperi sia stato centrale nella vita di Lacan e non sia estraneo alla sua idea di formazione. Tema che è spesso al centro dei pensieri di Lacan e su cui combatte le principali battaglie della sua vita professionale. Inoltre, nel 1956, ne “Il seminario su La lettera rubata”, Lacan commentò al racconto di Edgar Allan Poe, elaborando la tesi che collega l’elaborazione di Freud sulla pulsione di morte alla presa dell’ordine simbolico, responsabile innaturalità dell’esistenza umana.

Battaglie che daranno origine a strappi che possiamo senza dubbio definire drammatici.  S’ispirò quasi certamente a Salvador Dalì nel suo famoso metodo della critica paranoica e gli stessi concetti di dialettica del desiderio, immaginario e inconscio strutturato sembrano ispirarsi in tutto e per tutto a due opere di Breton, L’Amour fou e Le message automaticque.
L’irriverenza e la licenza artistica dei surrealisti ha, infine, permesso loro di sopravvivere alla prepotenza della psicoanalisi, traendo il meglio di Freud per elaborare in maniera originale i metodi di esplorazione delle origini nascoste della metafora. Ogni opera surreale, infatti, può essere interpretata come metafora della realtà trasferendo così al fruitore un messaggio vivo, con una forza devastante, in maniera molto più eloquente e incisiva di qualsiasi opera dichiaratamente realista. In questo, lo scrittore surrealista somiglia un po’ a un astronauta ribelle che se ne va a zonzo nello spazio creativo per i fatti suoi, in un altrove letterario dove tutto è possibile, prendendo per mano il lettore e trasportandolo in un metauniverso colorato, onirico, senza confini, lasciandolo libero di pensare senza mai farlo prigioniero. Forse, Freud – ma questa è solo una mia fantasia – era persino invidioso di questo magico dono proprio degli artisti surrealisti, quello cioè di poter trasformare i sogni ad occhi chiusi in un prolungamento verso la realtà, traducendoli in sogni ad occhi aperti.

Si sa, i poeti, quelli veri, vedono sempre più lontano!
Anche Freud, comunque, ha avuto le sue soddisfazioni in campo letterario, realizzando forse un sogno ad occhi aperti, tanto da meritarsi il premio Goethe, conferitogli nel 1930 a Francoforte. Se tutta la psicoanalisi può essere considerata davvero come uno strabiliante romanzo, la sua più bella creazione è, infatti, Freud stesso, il suo romanziere. Nel bene e nel male. Sigmund, come il Sigfried di Wagner, ha saputo forgiarsi una spada invincibile, che i nani della sua epoca mai avrebbero saputo inventare. Una spada cesellata di ‘inconscio’ e ‘resistenze’, inattaccabile quindi dalla ragionevole sfida intellettuale, e affilata da una dialettica potente e suggestiva, da far invidia a qualsiasi narratore d’ogni tempo. Non per niente – forse non tutti lo sanno – Sigmund in tedesco significa ‘bocca trionfante’, e questo eroico nome, accanto al cognome Freud, che significa ‘gioia’, sembra incredibilmente predire il senso della vita di quest’uomo, che ha fatto della sua esistenza una leggenda.

Se Freud era ambivalente nei confronti degli scrittori surrealisti, amava molto, invece, leggere Conan Doyle. Apprezzava particolarmente il metodo d’indagine logica di Sherlock Holmes che, in fin dei conti, non è poi molto lontano da quello di Freud stesso, perché gioca attorno a continue interpretazioni che sembrano dedotte da osservazioni altamente scientifiche. E guarda caso, il personaggio inventato da Doyle ha finito per prendere corpo, diventare un fantasma in carne ed ossa, tanto che per parecchio tempo, la posta di Londra ha ricevuto lettere indirizzate a: Sherlock Holmes, Baker Street 221b. Allo stesso modo, al numero 19 della Bergasse di Vienna, Freud analizzava le sue e i suoi pazienti come un artista all’opera. Immaginava di vedere sfilare davanti a sé l’inconscio delle persone, così come un viaggiatore seduto in treno, dal suo vagone, osserva il paesaggio scorrere e fluire fuori del finestrino. E così facendo, affrontando i demoni della psiche, assorbendo sensazioni e annotando fiumi di interpretazioni, questo Sherlock Holmes dell’anima ha scritto non solo il suo personalissimo, intimo romanzo, tessuto di sogni, fantasie, pulsioni, paure, frustrazioni e desideri altrui ma ha scolpito anche l’immenso prologo dell’intera storia della psicoanalisi, trascendendo la storia stessa per entrare definitivamente nella leggenda.

Non capita spesso che il senso del proprio vissuto sia compreso durante la vita stessa, più facile è lasciare che siano gli altri, a posteriori, a darne interpretazioni e giudizi. Invece, Freud sembrava rendersi perfettamente conto dell’impronta indelebile che stava lasciando sul suo cammino, tanto che durante uno dei suoi dialoghi con gli amici pare abbia affermato: “Se le mie deduzioni dovessero far nascere l’opinione che io abbia scritto un romanzo psicanalitico, risponderei che io stesso non mi esagero la portata dei miei risultati.”

Questo conferma, infine, come Freud e la psicoanalisi siano intimamente affini al surrealismo, invischiati in un reciproco e fertile contagio tuttora vivo e palpitante. E alla famosa massima cartesiana Cogito ergo sum, ovvero Penso dunque sono, emblema del realismo, l’irriverente surrealismo bretoniano ribatterebbe con un ironico sorriso, parafrasando così: Penso dunque sogno. In parole più esplicite, se il realismo mira all’essenza dell’Essere, il surrealismo aspira al suo Mistero, esattamente come la psicoanalisi.

 

Fonti:

http://www.outsidernews.net/psicoanalisi-e-surrealismo-la-strana-coppia/

‘Il male oscuro’, la psicoanalisi secondo Giuseppe Berto

Il male oscuro è un romanzo del 1964 edito da Rizzoli, dello scrittore trevigiano Giuseppe Berto, tornato al successo dopo un periodo non felice, affetto egli stesso dal male oscuro. Lo scrittore, che non ha mai fatto parte dell’establishment culturale italiana, dell’intellighentia che contava, isolandosi e iscrivendosi al partito dei perdenti, non semplicemente a quello dei “bastian contrari”, opera un’analisi del proprio vissuto attraverso un uso insistito del flusso di coscienza, senza ricorrere a interposizioni narrative. Egli rivela così i diversi avvenimenti della sua infanzia, specialmente il suo rapporto difficile con il padre che lo spinge verso la depressione in seguito alla morte del genitore (simbolo del super-io oppressivo), ed in seguito il suo complesso di Edipo, dunque l’ambigua e latente conflittualità sessuale nonché lo smodato desiderio di gloria, a sua volta all’origine di forti sensi di colpa. La trama segue la descrizione e l’evoluzione della malattia (che dura complessivamente un decennio), il matrimonio e la nascita della figlia Augusta, in un continuo alternarsi di flashback. La costante ricerca di medici più o meno esperti, spinge il protagonista a rivolgersi a uno psicoanalista che risolverà in parte i suoi problemi, fino al tradimento della moglie e al ritiro dell’autore in Calabria. La prosa del romanzo è volutamente povera di punteggiatura, al fine di rendere lo scritto un ininterrotto flusso di coscienza, riproducendo l’instabilità interiore del tempo codificato e l’idea di quel che l’autore avrebbe potuto dire, in sede di analisi, proprio al suo psicanalista. Berto dissolve la struttura narrativa e fa del suo libro una novità assoluta nel panorama letterario italiano novecentesco.

Il male oscuro, che si è aggiudicato il Premio Campiello e il Premio Viareggio, è un’ininterrotta confessione, e lo stile segue il percorso del pensiero. A differenza di altri autori, Berto non va alla ricerca di una cifra formale e linguistica, ma egli approfondisce l’indagine per riprodurre in maniera più efficace i collegamenti del pensiero. Il risultato è simile a quello di un monologo teatrale, che inevitabilmente richiama alla mente il flusso di coscienza di James Joyce.

Il male oscuro: capolavoro sull’ipocondria sulla scia della Coscienza di Zeno

Il male oscuro di cui parla Berto è storico e cosmico, unito ad un profondo senso di colpa che deriva dall’incapacità di perdonarsi delitti che in realtà non si sono mai commessi. L’opera di Berto è un capolavoro sull’ipocondria, che racconta con ironia grottesca, l’assurdità del vivere quotidiano, le meschinità che spesso tengono in piedi rapporti familiari e relazioni. Berto mette a nudo il concetto di padre, addentrandosi in un’analisi tormentata di tutti i valori di quella civiltà, di quell’Italia post-rurale in cui l’autore nacque e crebbe; tuttavia lo scrittore dimostra di nutrire pietà e compassione verso le tradizioni e la morale cattolica, cui da giovane aveva tentato di sottrarsi. Grazie al suo innato piglio scorrevole e “confidenziale”, Berto ha saputo rendere il suo romanzo leggero e divertente, nonostante l’argomento trattato, quello della nevrosi depressiva, presente anche in altri grandi romanzi del ‘900, come nella Coscienza di Zeno (di cui Il male oscuro potrebbe essere considerato non a torto come la sua naturale prosecuzione, basti pensare all’esposizione ironica delle teorie freudiane) di Svevo e nella Cognizione del dolore di Gadda.

Berto inoltre, nel suo vorticoso inseguimento di pensieri, non risparmia frecciatine satiriche alla classe borghese del boom economico del dopoguerra, giocando con il lettore in maniera spregiudicata; sembra quasi dirgli: “Ma davvero credi a tutto quello che sto dicendo?”. Ne emerge un Giuseppe Berto sincero, sorprendentemente moderno se si considera il suo essere conservatore per natura, ossessionato dal successo, un po’ cialtrone, sofferente che può far pensare a qualche lettore che in fondo Il male oscuro non è altro che un testo di una banale e comune lagnanza pre-senile. Tuttavia il romanzo di Berto ci comunica implicitamente qualcosa di più profondo: la sofferenza è di tutti e la vita è un posto pieno di dissimulatori, commedianti umani che recitano una parte, che nascondono delusioni e disperazioni dietro grandi sorrisi. Forse, per chi ha una visione mistica della sofferenza, il male oscuro, qualunque esso sia, purifica l’anima e ci rende più sensibili e vicini alle sofferenze altrui. O forse, in fin dei conti, ciò che chiamiamo malattia, disturbo, non è un modo di essere diversi, “normali”, “sani”, ma non comuni e dunque la psicoanalisi non è garanzia di guarigione? Da cosa si deve guarire? E qual è allora il rimedio alla nevrosi proposta da Berto? Un processo di “transfert” con il quale lo scrittore trasferisce ogni suo rimorso nel rapporto con il suo analista. Le sue colpe si dissolvono e l’identificazione patologica con il padre morto di tumore si risolve nella seguente constatazione: “In quale enorme misura somigli al padre mio lo vado scoprendo per mezzo di questa figlia Augusta a mano a mano che cresce, e sta a vedere che lui mi amava come io amo lei ossia immensamente potrei dire”.

Tuttavia come Svevo, per il quale tutti sono malati, essendo la vita stessa una malattia, anche Berto non considera la psicoanalisi una terapia curativa, bensì un valido sistema che consente di attivare un particolare tipo di conoscenza dell’animo umano. Non a caso, infatti, prima della psicoanalisi, Berto descrive la nevrosi che lo attanaglia come una malattia basata sulla paura, ma dopo i due anni trascorsi in cura dall’analista confessa: “Ho un sacco di fobie, sono quindi ancora malato e credo che non guarirò mai. Però sono guarito per quel tanto che volevo disperatamente guarire, ossia non ho più paura di scrivere”.

Il personaggio di Berto non è certamente un esempio di simpatia, anzi, suscita piuttosto fastidio, soprattutto perché il suo intento non è quello di suscitare pietà nel lettore, ma non si può augurargli del male, perché è sincero. Lo stesso scrittore nell’Appendice al romanzo ha dichiarato: “Nonostante racconti la più straordinaria sequela di disgrazie che possano capitare a un uomo, Il male oscuro non è, spero, un romanzo deprimente e neppure noioso. Ha, spero, un continuo umorismo che si mescola anche agli avvenimenti più tragici e tristi. Non è certo un’invenzione mia: Svevo e Gadda ci sono arrivati assai prima e meglio di me, e d’altronde un nevrotico non potrebbe scrivere se non fosse sostenuto dall’umorismo: una fortuna in mezzo a tanti malanni”.

Psicoanalisi e arte nel romanzo del ‘900

Per comprendere meglio cosa siano l’Io e l’Altro in psicoanalisi, soprattutto cosa sia l’Altro che con il suo destarsi e le sue rivolte, scatena sofferenze e conflitti testimoniati dalla deformazione della fisionomia del personaggio-uomo del romanzo del ‘900, bisogna uscire per un momento dal campo dell’arte.

La psicoanalisi di Freud e la deformazione dei personaggi

Solitamente si pensa per tradizione che gli artisti continuano a passare per ispirati, che siano fautori di visioni del mondo, di grandi interpretazioni della vita che poi prevarranno nella storia vissuta e persino nelle ipotesi su cui si fondano le scienze. Invece, nel caso della scoperta della dualità di Io e Altro, l’iniziativa è toccata alla scienza e più precisamente alla psichiatria; l’arte non fa altro che constatare, in un momento successivo, gli effetti dolorosi di quel dualismo, i drammi che si possono leggere nel sintomo della frantumazione dei personaggi.

Si prenda ad esempio Dolore e grandezza di Wagner di Thomas Mann, lo scrittore mostra come certi episodi dei drammi wagneriano sono già psicoanalisi ante litteram: le evocazioni dell’immagine materna da parte di Sigfrido prima del duello con il drago e della corsa verso l’amore da parte di Parsifal nel giardino del mago Klingsor. Anche Nietzsche in Nascita della tragedia, isola il momento dionisiaco nell’anima greca e lo contrappone al momento apollineo della serenità, facendo la psicoanalisi dell’anima e dell’arte greca mettendo a nudo addirittura i movimenti dell’Altro dentro l’Io. Freud ha scoperto la causa, l’agente che determina il sintomo, cioè l’Altro che dal di dentro si scatena contro l’Io, cui è stato dato il nome di Inconscio. La psichiatria poi si mette ad osservare le nevrosi che appartengono alla classe borghese, già in crisi perché sta perdendo il suo predominio. La psicoanalisi dunque individua una scissione nell’unità della persona e a identificare l’Io e l’Es, conscio ed inconscio; gli artisti e i romanzieri che hanno bisogno di dare corpo alle idee, hanno subito visto che quelle deformazioni si potevano leggere sulle facce dei personaggi, la cui coscienza di sviluppa in senso verticale, anziché orizzontale.

La letteratura e l’arte, dunque, rappresentano sul visibile gli effetti di un fenomeno di cui la scienza ha già cercato di individuare le cause: il neuropsichiatra polacco Josef Babinski fu di aiuto al neurologo francese Charcot e portò contributi memorabili secondo gli addetti ai lavori, alle ricerche sulla patogenesi dell’isteria. Il suo nome rimarrà legato anche alla storia letteraria visto che durante la sua attività professionale ebbe tra i suoi pazienti Marcel Proust, probabilmente malato di un’affezione allergica. Babinski ha coniato il termine pitiatismo in relazione alla massima diffusione di una certa malattia in un determinato periodo del tempo, che predomina su tutte le altre, come se persuadesse il corpo umano (oggi la malattia più “persuasiva” è il cancro).

Applicando al ragionamento che verte sulla letteratura e l’arte, la nomenclatura di Babinski si potrebbe affermare che l’arte moderna è la denuncia di un pitiatismo esercitato dalla malattia dell’Altro, dal <<complesso>> dell’Altro. Ed ecco il male di vivere, i drammi che soffre il personaggio-uomo; se nel romanzo tradizionale il personaggio dava la colpa dei suoi mali al destino (pensiamo solo a Madame Bovary), nel romanzo del ‘900 il personaggio-uomo dà la colpa al problema. Quando nel saggio L’esistenzialismo è un umanismo, Sartre afferma che l’avvenire è il mio progetto, l’ovvia obiezione è che io non possa fare un progetto diverso da quello che i miei mezzi personali mi consentono e la frase di Goethe che esclama: “Non sarei stato tanto stupido da estrarre nella lotteria della vita il biglietto perdente”, si cerca di ammettere che il destino è già stato molto favorevole da concedere ai due scrittori l’intelligenza di aggiudicarsi un destino favorevole. Ma le cose cambiano quando all’idea del destino si sostituisce quella di un problema storico-strutturale che si può risolvere con la ragione e l’attività umana. Per il personaggio-uomo le sue difficoltà è come se dipendessero da un ospite esagitato che porta dentro di se; a tal proposito lo psichiatra Jung ha osservato che i complessi generati dalla vitalità dell’inconscio sono come tumori maligni che proliferano all’interno di noi stessi. Questo tumulto interiore si riversa sull’aspetto esteriore dei personaggi che sono deformati, brutti, perturbati, sul cui volto si imprime una smorfia.

Quando Kafka dice che la sola cosa che può interessare è la smorfia, non ha bisogno di dichiarare; quando nel Castello egli narra l’apparizione dei due valletti nella taverna, forse non si rende conto che costruisce figurazioni e movimenti da balletto onirico, di cui qualunque esegeta riuscirebbe a trovare la genesi e le motivazioni, avvalendosi della casistica e dei metodi esposti da Freud nell’Interpretazione dei sogni.

 

Bibliografia: G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento.

Julia Kristeva, tra semiologia e psicoanalisi

Julia Kristeva (Sliven, Sofia- 24 giugno 1941), è una semiologa e psicanalista bulgara naturalizzata francese, che ha teorizzato e sviluppato il concetto di intertestualità e costruito un’interessante relazione tra semiologia e psicoanalisi. Ha studiato all’università di Sofia e dal 1966 all’École pratique des hautes études a Parigi, dove ha conosciuto personalità come Barthes, Goldmann e Sollers, Derrida e Foucault. La Kristeva, acquisita la cattedra di linguistica all’Université Paris VII, diviene  una delle figure di spicco nella rivista d’avanguardia Tel Quel.

Alla critica tradizionale, Julia Kristeva ha affiancato il progetto di una scienza della letteratura fondata sull’apporto della linguistica, della semiotica, della psicoanalisi e inizialmente anche del marxismo. Uno dei suoi contributi teorici più importanti è l’elaborazione del concetto di intertestualità (derivato da M. Bachtin) secondo cui il testo non è qualcosa di isolato, ma si inscrive in una rete di relazioni con altri testi non solo dello stesso autore ma anche di altri autori e con modelli letterari coevi o precedenti.
I suoi studi e i suoi primi saggi si concentrano sulla fondazione di un nuovo ramo della semiologia definita “semanalisi” profondamente analizzata in Séméiôtiké. Ricerche per una semanalisi del 1967 Si è occupata di semiologia della pittura e della questione femminile. Parallelamente all’attività di saggista, a partire dagli anni Novanta si è dedicata anche al romanzo.

Il lavoro della Kristeva è cominciato dunque dalla semiologia analizzando e occupandosi di dialogo, verosimiglianza, ideologemi, moda e letteratura. Il suo interesse si è rivolto ad autori come Roussel, Bataille, Beckett (con Le père, l’amour, l’exile).
Un’importante monografia La rivoluzione del linguaggio poetico del 1974 è dedicata al poeta Stéphane Mallarmé. Pouvoirs de l’horreur (1980), pubblicato in Italia col titolo Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione analizza la produzione dell’autrice Céline affiancando alla critica letteraria la psicoanalisi. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta l’attenzione della critica si sposta sull’amore e sulla depressione, sull’idea di esilio e sul problema della fede. Da questa ricerca nascono testi come Sole nero. Depressione e melanconia, del 1986, Stranieri a sé stessi, di due anni dopo; Storie d’amore (1983) e In principio era l’amore. Psicoanalisi e fede del 1985. Il romanzo semi-autobiografico I samurai del 1990 ricostruisce i suoi anni d’impegno politico maoista e gli incontri con gli intellettuali dell’epoca avuti al suo arrivo in Francia. In coda a questa ricerca figurano Una donna decapitata (1996), Bisogno di credere. Un punto di vista laico e Santa Teresa d’Ávila: l’estasi come un romanzo del 2008.

Nel 1979 Julia Kristeva diventa psicanalista guidata dal grande psicoanalista francese Jacques Lacan. A questo punto la sua ricerca si estende al “genio femminile” con studi che culminano nei libri su tre figure femminili del secolo precedente: Hannah Arendt, La vita le parole del 1999, Melanie Klein. La madre la follia del 2000 e Colette. Vita d’una donna del 2002.
Attualmente la Kristeva insegna Semiologia alla State University of New York e all’Université Paris VII Denis Diderot. Dirige il “Centro Roland Barthes”. Per le sue ricerche sull’interazione tra lingua, cultura e letteratura e per il suo impegno nelle scienze sociali e umane nel 2004 ha ricevuto il Premio Holberg, importante riconoscimento istituito dal governo norvegese.

Intellettuale poliedrica Julia Kristeva rappresenta un importante punto di riferimento per la cultura contemporanea soprattutto se si affrontano tematiche spinose e di scottante attualità come la fede, la religione, e difatti la Kristeva parla di fede da un punto di vista laico: L’uomo ha bisogno di credere nel fatto che la vita collettiva sia migliore della guerra, di tutti contro tutti, dell’individualismo. La narrazione del cristianesimo crea e riproduce il collante sociale e culturale di una società che guarda, tutta insieme, al futuro. Nessuna pretesa superiorità per una chiesa, ma l’ammissione che il cristianesimo è questa narrazione complessa in grado di dare prospettiva alla società occidentale, alle sue tante culture e mitologie differenti. Il Dio che soffre e muore in croce rappresenta la forza e contemporaneamente l’umana debolezza che fa il senso d’umanità.

Secondo la critica la nostra eredità culturale è doppia. Da un lato il cristianesimo, dall’altro l’illuminismo, rottura irreversibile della civilizzazione europea. Nel momento in cui la nozione di peccato perde senso per la parte secolarizzata della popolazione, resta la grande preoccupazione sul significato dell’etica laica. Dunque quali domande dobbiamo porci oggi? E’ giusto insegnare una morale laica o orientarsi piuttosto verso un insegnamento laico della morale? Sarebbe opportuno riconoscere la specificità della vita interiore di ciascuno di noi e quindi trovare la versione personalizzata delle regole senza preconfezionarle? E che cos’è la trasgressione, la violazione della norma, il peccato? Davvero il concetto di limite ca scomparendo? La Kristeva non ne è sicura e ritiene che ci sia bisogno di un’autorità che ponga dei limiti, ma non per ottemperare ai voleri di una chiesa, ma per una necessità psichica, credendo fermamente della forza e nel potere del connubio tra tradizione giudaico-cristiana e illuminismo al fine di dare vita d un nuovo umanesimo che si faccia largo tra il tradizionalismo religioso e il nichilismo.

Il personaggio-uomo, protagonista indiscusso del romanzo del Novecento

Protagonista indiscusso del romanzo del ‘900 è il cosiddetto personaggio-uomo, termine coniato dal critico piemontese Giacomo Debenedetti, il quale, attraverso autori come Kafka, Proust, Svevo, Pirandello, Tozzi, Joyce, pone l’attenzione sulla rottura che il romanzo dei primi decenni del ‘900 segna con il romanzo ottocentesco naturalista. Quest’ultimo si preoccupava di analizzare il visibile, occultando il materiale narrativo-descrittivo; il romanzo novecentesco fa esattamente il contrario: disocculta la realtà, epifanizza, per usare un termine caro a Joyce, soprattutto il personaggio, o meglio, il personaggio uomo o l’anti-personaggio.

Questo personaggio-uomo è sempre in trincea, come se fosse un pezzo sparso di un mosaico che si compongono e scompongono di continuo, è un’entità deformata che sembra essere uscita da un quadro espressionista (emblematico a tal proposito è il celebre dipinto di Munch “L’urlo”); dominato dall’angoscia e dall’inettitudine, perde la sua identità e diventa un alter  ego del lettore. Ma è  ancora Giacomo Debenedetti a fornirci un ritratto preciso di tale personaggio nel suo saggio “Il personaggio-uomo nell’arte moderna” del 1963: <<Chiamo personaggio-uomo quell’alter-ego, nemico o vicario che […] ci viene incontro dai romanzi e adesso anche dai film. Si dice che la sua professione sia quella di risponderci, ma molto più spesso siamo noi i citati a rispondergli. Se gli chiediamo di farsi conoscere, […] esibisce la placca dove sta scritta la più capitale delle sue funzioni, che è insieme il suo motto araldico: si tratta anche di te>>.

Un’importante caratteristica che emerge leggendo i ritratti dei vari personaggi-uomo dei romanzi del Novecento è l’assenza di bellezza fisica, i personaggi-uomo subiscono un abruttimento fisico che Debenedetti fa risalire a Dostoevskij e che mette in particolare evidenza in Tozzi ( iniziatore, con Svevo, del romanzo moderno in Italia) e in Pirandello. La coscienza frammentaria del  personaggio-uomo coincide, se volessimo fare un parallelo con la fisica (grande protagonista del Novecento), con la scissione dell’atomo.

Ma perché i protagonisti dei romanzi del ‘900 soffrono la vita? Per rispondere a questa domanda è utile chiedere supporto alla sociologia e alla psicoanalisi. Il nuovo personaggio di fronte alle tragedie della vita invece di lottare per venirne fuori, dovrebbe, secondo Debenedetti, <<sciogliere il problema di struttura storico-sociale>>. La colpa quindi non è  dell’ uomo inetto, ma è del problema stesso, che trascende noi stessi; più banalmente si potrebbe dire che la colpa è del destino di fronte al quale l’uomo ha pochi mezzi per cambiarlo a suo vantaggio, questa impotenza porta molto spesso l’uomo ad essere distruttivo ed autodistruttivo, sentendosi ogni giorno in trappola e vivendo una doppia vita, quella privata e quella pubblica, poiché l’uomo è fortemente influenzato dalla società in cui vive ma non sa che il suo disagio è legato a mutamenti strutturali come ha giustamente osservato il sociologo americano Wright Mills.

Se la sociologia pone l’accento sul rapporto uomo-società- collettività, la psichiatria osserva certe nevrosi che appartengono, perlopiù, alle classi sociali abbienti, alla borghesia; la psicoanalisi arriva ad individuare una scissione nell’unità della persona, a stabilire i termini dell’inconscio, Io ed Es, l’Io che rappresenta la nostra maschera (qui intesa come persona) e quell’Altro da sé che è nel sé. Ma il medico austriaco guarda la malattia da un altro punto di vista che implica uno stoico ottimismo: potenzialmente tutti gli uomini sono malati, ma il fine di questa malattia è la trasformazione interna, anche morale, dell’individuo. Questo non significa che bisogna rinunciare a curare il paziente, ma è necessario che quel disagio, quella nevrosi, sia vissuta liberamente in tutte le sue manifestazioni per poter sprigionare i suoi effetti rinnovatori. Visione non alla portata di tutti, quella di Freud, soprattutto per la nostra epoca “ipocondriaca” , dove difficilmente si riflette sul proprio malessere e lo si vive come una possibilità, un’ occasione oper migliorarci e per scoprire le nostre potenzialità, essendo troppo presi dal successo, dal lavoro, dalla fretta, dalla brama di essere protagonisti a tutti i costi.Dati questi fattori, non c’è spazio per l’uomo contemporaneo per vivere la malattia secondo un’altra prospettiva.

Anche Jung condivide l’idea della malattia come “bene doloroso” ma, a differenza di Freud, che ha deciso di fare lo scienziato e il medico, restando fedele alle sue scelte professionali iniziali, lo psichiatra svizzero, come dice Debenedetti ne Il romanzo del Novecento, “ci appare come un mistico della malattia”. Jung infatti incoraggia l’arte; per spiegare il conflitto interiore dell’uomo si serve della mitologia.

Certamente Freud ha aperto un’epoca nuova nell’indagine e nella conoscenza dell’uomo ma è stata la letteratura stessa a fornire materiale alla psicoanalisi, la quale, secondo alcuni, rappresenterebbe proprio una forma di letteratura, poggiandosi su alcune nozioni fondamentali  quali inconscio, rimozione, conflitto, pulsione. Tuttavia Freud era ben consapevole del fatto che gli scrittori siano stati precursori della sua scienza e, secondo lo studioso J. Starobinski, “l’ Interpretazione dei sogni, sul piano del sapere, vuole essere l’equivalente di ciò che fu Amleto nello sviluppo dell’opera teatrale di Shakespeare. Il poeta è un sognatore che non si è analizzato, ma che, nondimeno, ha reagito drammaticamente; Freud è uno Shakespeare che si è analizzato”.

Ma torniamo al personaggio-uomo in relazione alla narratività del romanzo del ‘900. Davvero questo personaggio si rivela a noi attraverso la narrativa? Risponde acutamente lo scrittore britannico E. M. Forster (“Passaggio in India”, “Camera con vista”, “Casa Howard”) distinguendo tra l’uomo, personaggio della vita, e l’uomo, personaggio di romanzo, e più precisamente tra homo sapiens e homo fictus. Il primo, trascurato dai romanzieri, è decisamente più informato del secondo, in quanto ne sa di più rispetto a cibo, sonno e amore. A parte l’amore, che occupa molte pagine di un romanzo, lo scrittore non può dedicare molto spazio al cibo e al sonno, pena la noia del lettore. Tuttavia qsto uomo fictus si pone come un importante indizio della narrativa e dell’arte moderna ai fini di disoccultare qualcosa, laddove non era riuscito il romanzo naturalista.

Per concludere, prendiamo in cosiderazione il rapporto tra il personaggio-uomo e il suo autore; questi  attua una sorta di sciopero nei confronti del proprio autore, si rivoltano contro di lui, e in merito a questa peculiarità ci sembra opportuno citare ancora una volta Giacomo Debenedetti che prende come esempio uno dei suoi scrittori preferiti, Marcel Proust:

“Proust seguita a dichiarare che sta cercando delle leggi, ma in lui si è potuto vedere quasi subito lo “sciopero dei personaggi”. Ci buttate nella vita, parevano dire, come un popolo di trovatelli, fidandovi che basti da sola, quella vita che ci avete data, a risolvere le nostre sorti. Non tenete conto che siamo incalcolabili […] Effettivamente i personaggi di Proust, vivi come sono, […] finiscono tuttavia col fondersi, col fare coro per testimoniare una finalità, una destinazione del vivere, che non vale per essi, tutti rimasti irrisolti nella desolazione del tempo che li ha consumati, tuttavia vale per il loro autore. E si tratta di un processo di iniziazione umana, svolgentesi per vie quasi mistiche e piene di sacri sgomenti, negli ipogei del Temps retrouvé, dove il romanzo di Proust […], conduce l’autore ad una delle più alte esperienze religiose del nostro secolo.”

 

 

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