Guerra in Ucraina. È sul fronte dell’informazione la battaglia che tutti dobbiamo combattere

I russi non conoscono la realtà della tragedia ucraina; molti italiani hanno idee sbagliate sulla crisi climatica. Censura e fake news distorcono la percezione, vanno contrastate con la conoscenza e la partecipazione.    

Lo hanno scritto in molti: l’invasione russa dell’Ucraina ha scatenato una doppia guerra. La prima si combatte sul campo, la seconda sui mezzi di informazione. La propaganda ha da sempre accompagnato i conflitti, ma in questo caso colpisce la sproporzione delle condizioni. Nei Paesi liberi abbiamo accesso a tutte le notizie e le dichiarazioni diffuse da entrambe le parti. In Russia, il Cremlino mantiene un ferreo controllo: nonostante i terribili eccidi che le sue truppe compiono in Ucraina e le sconfitte sul campo, Vladimir Putin non sta affatto perdendo il suo supporto tra la popolazione russa. È facile spiegare che questo si deve al totale dominio sui mezzi di comunicazione di massa: social media bloccati, stampa di opposizione chiusa, televisione completamente controllata dal regime.

Accanto agli indispensabili aiuti all’Ucraina che combatte, sarebbe importante riuscire a perforare questa barriera offrendo alla popolazione russa una informazione credibile e alternativa. Lo si è fatto durante la Guerra fredda con Radio free Europe, che trasmetteva al blocco sovietico in una ventina di lingue. I comunisti contrattaccavano con Radio Tirana, anche in italiano, che trasmetteva musiche balcaniche, come cantava Franco Battiato, ma anche tanta propaganda, udibile persino in Africa e in Sud America. Radio free Europe esiste ancora, e diffonde anche istruzioni per bypassare il blocco delle trasmissioni voluto da Mosca, ma evidentemente non basta per raggiungere la popolazione russa. Oggi certamente esistono mezzi più sofisticati, ma non mi sembra che a questo tema si dedichi adeguata attenzione.

In un contesto che (per fortuna) è totalmente diverso, la distorsione delle informazioni riguarda anche l’Italia. È sconfortante apprendere dalla ricerca “Media e fake news”, svolta da Ipsos per Idmo (Italian digital media observatory) e segnalata da “Media e dintorni”, la bella rubrica di Radio radicale, che il 39% degli italiani ritiene “la comunità scientifica molto divisa sul tema del cambiamento climatico”. Si tratta della percentuale più alta, tra le affermazioni scelte dagli intervistatori per verificare le posizioni nella categoria “Accordo con fatti falsi”. E si abbina, nella categoria “disaccordo con fatti veri”, con le affermazioni “L’acqua del rubinetto è salutare quanto quella in bottiglia” (30% che non ci crede) e “L’Italia è il Paese con la percentuale più alta di riciclo dei rifiuti in Europa” (29% che lo nega).

Pochi giorni dopo la diffusione della ricerca, è stata pubblicata la terza parte del rapporto Ipcc, dedicata alla mitigazione. Accanto alla precedente pubblicazione sulle politiche di adattamento, mostra che tra gli scienziati c’è invece un larghissimo consenso, su un messaggio complessivo di grande drammaticità: se vogliamo mantenere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura entro 2°C, meglio ancora 1,5°C, le emissioni devono diminuire già dal 2025, altrimenti il mondo si avvia verso un aumento di oltre i 3 gradi a fine secolo. Si stima che per raggiungere il limite di 1.5°C i flussi finanziari per la transizione energetica devono aumentare di sei volte entro il 2030; di tre volte, invece, se intendiamo restare al di sotto di 2°C; obiettivi non impossibili, vista la quantità di denaro liquido disponibile sul mercato, con effetti positivi anche su economia e occupazione.

Anche quanto si sta facendo per l’adattamento, cioè per fronteggiare le conseguenze comunque inevitabili del cambiamento climatico, non è sufficiente a proteggere le popolazioni. Questo vale soprattutto per i più poveri, per quel 50% della popolazione mondiale responsabile (ricorda l’Ipcc) solo del 15% delle emissioni, mentre possiamo immaginare che il 10% più ricco e che emette il 40% dei gas serra troverà il modo di proteggersi meglio.

Anche se molti hanno idee sbagliate, la gente è preoccupata per la crisi climatica. Gli Stati Uniti certamente non sono all’avanguardia nella battaglia per la transizione ecologica: il loro livello di consumi, se imitato in tutto il mondo, brucerebbe ogni anno le risorse prodotte da cinque pianeti, rispetto alla media mondiale di 1,7, ci dice l’Earth overshoot day. Eppure la popolazione americana è tutt’altro che insensibile: un recente sondaggio Gallup ci informa che da sette anni il 45% degli statunitensi si dice “molto preoccupato” e una altro 27% “abbastanza preoccupato” per le condizioni dell’ambiente.

Analoghe ricerche in Italia ci danno indicazioni simili, anche se alla preoccupazione non corrispondono adeguate conoscenze e disponibilità ad agire. C’è poco da stupirsi: il Risk report che fornisce ogni anno, per conto del World economic forum, un sondaggio sui più gravi timori di mille leader mondiali, colloca sistematicamente, in testa a tutte le altre, le preoccupazioni per l’ambiente. Anche quando infuriava il Covid, i timori per la pandemia erano solo al sesto posto, mentre restavano in cima alla classifica l’allarme per la mancanza di accordi sul clima, per la perdita di biodiversità e per i fenomeni meteorologici estremi. Insomma, tutti si preoccupano per il clima, anche i big delle imprese e della politica, ma pochi hanno chiaro che cosa bisogna fare, o hanno il coraggio e la disponibilità a mettere in atto le ricette che pure esistono.

Torniamo all’Italia. Il rapporto Ipcc ha avuto un’ampia copertura su stampa e televisioni, compatibilmente con il prevalente e comprensibile orientamento dell’attenzione verso la crisi ucraina, ma penso che, anche se avesse avuto più spazio, non avrebbe inciso significativamente sull’atteggiamento dell’opinione pubblica e tanto meno su quello dei politici. Si pone dunque la domanda: se la diffusione dei fatti attraverso i media tradizionali non basta, che cosa dobbiamo fare per promuovere un salto di consapevolezza degli italiani sulle misure necessarie per fronteggiare una crisi come quella del clima, incombente e gravissima, che potrebbe compromettere il futuro delle nuove generazioni se non anche il nostro?

Certo, annunci politici condivisi che sensibilizzino sulla gravità della situazione e sulla necessità di fare whatever it takes per combattere la crisi climatica potrebbero raggiungere lo scopo. Gli italiani sono anche pronti a sacrifici e a cambiare idea se necessario, come rivela il sondaggio Ipsos – Repubblica a seguito della crisi ucraina, presentato in un articolo di Concetto Vecchio:

Quasi nove italiani su dieci (86,6 per cento) si dicono disposti a ridurre i propri consumi in caso di una crisi energetica provocata dalla guerra in Ucraina. Quasi sei su dieci (58,5 per cento) sono pronti ad accettare l’utilizzo del carbone e il 51,3 per cento si dichiara disponibile a discutere l’ipotesi di un’Italia che torni a investire nel nucleare.

Questo però avviene solo per temi sui quali l’opinione pubblica è stata fortemente sensibilizzata e sui quali avverte una sostanziale unità di buona parte della leadership politica. Non è così sulle misure per il clima, dove si verifica un circolo vizioso: gli italiani sono poco informati su quello che si dovrebbe fare veramente per la mitigazione e l’adattamento; i politici per timore di perdere consenso non si espongono se non con affermazioni generiche. Non informano e non decidono.

C’è dunque una grande battaglia da combattere sul fronte della informazione e in buona parte andrà condotta sui social mediaanche perché l’indagine Ipsos – Idmo già citata ci informa che

La stragrande maggioranza degli italiani (7 su 10) si informa esclusivamente tramite fonti gratuite o solo 1 su 4 è disposto a pagare per accedere ad informazioni di cui si fida.

social, però, spesso contribuiscono a consolidare convinzioni sbagliate, anche perché gli utenti tendono a scambiarsi informazioni tra persone con le stesse idee, creando conventicole contrapposte. La soluzione, come dice la stessa indagine, è il debunking, cioè lo “sfatamento”, l’attività di distinguere il vero dal falso attraverso un adeguato fact checkingNell’indagine si afferma che “il 90% degli italiani dichiara di fare almeno un’attività di controllo davanti a un’informazione trovata online”, ma sulla efficacia di questa attività si possono avere dubbi, se si considera che

il 60% degli italiani ritiene che una notizia sia più affidabile quando condivisa da tante persone (quota più alta tra i più giovani e i meno istruiti) e il 55% (ben più di 1 cittadino su 2) ritiene che sia più affidabile se condivisa da un amico molto attivo suisocial (quota che sale tra i più giovani e tra i meno istruiti, mentre scende nella fascia d’età 31-50 anni e tra i più istruiti).

Insomma, anche le chiacchiere da bar, se sono condivise, tendono a essere considerate vere.

Per contrastare questo effetto si devono impostare battaglie ben precise e mirate, basate su informazione e coinvolgimento. È urgente, ad esempio, promuovere la sensibilizzazione delle comunità locali sulla necessità di accelerare l’installazione delle energie rinnovabili, operazione resa ancor più importante dalla scelta di liberarci per quanto possibile dalla dipendenza dal gas russo. I progetti ci sono, ma spesso sono paralizzati dall’“effetto nimby” (not in my backyard – non nel mio cortile), che in molti casi nascono dalla mancanza delle informazioni necessarie per compiere una adeguata valutazione costi – benefici. Abbiamo scritto più volte che sono necessari interventi governativi (peraltro parzialmente avviati) per snellire gli iter burocratici che condizionano le autorizzazioni. Ma difficilmente l’obiettivo di un grande sviluppo delle rinnovabili entro il 2030 potrà essere raggiunto senza un adeguato impegno sul fronte della informazione e della partecipazione locale. I cittadini devono sentirsi partecipi delle decisioni: di questo tema, “La costruzione partecipativa delle città del domani”, si è parlato il 7 in un webinar di QN città future, organizzato con la collaborazione dell’ASviS.

Un aiuto alla transizione energetica, elemento determinante della protezione ambientale, è arrivato all’inizio di quest’anno dalla modifica dei principi fondamentali della Costituzione che ha introdotto appunto “la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”, tra i principi della Carta. Se n’è discusso in un evento dell’ASviS il 5 aprile, arrivando anche in questa sede a una conclusione che ci impegna per il futuro: gli strumenti per la transizione ecologica ci sono, ora più che mai, ma adesso bisogna farli conoscere e agire di conseguenza.

 

Fonte dell’immagine: industryview/123rf

 

Donato Speroni

‘Arcipelgo Gulag’, il saggio di inchiesta narrativa capolavoro di Solzenicyn. Cos’è oggi il Gulag?

Arcipelago Gulag scritto dallo scrittore russo Aleksandr Solzenicyn sotto forma di saggio di inchiesta narrativa, tra il 1958 e il 1968, rappresenta spaccato di storia dolorosamente vissuta sulla Russia stalinista. Dal Circolo polare artico alle steppe del Caspio, dalla Moldavia alle miniere d’oro della Kolyma in Siberia, le “isole” del Gulag – l’organismo che gestiva i campi d’internamento nell’Unione Sovietica – formavano un invisibile arcipelago, popolato da milioni di cittadini sovietici. Nei Gulag è vissuta o ha trovato fine o si è formata un'”altra” Russia, quella di cui non parlavano le versioni ufficiali, e di cui Solzenicyn, per primo, ha cominciato a scrivere la storia. In un fitto intreccio di esperienze dirette, di apporti memorialistici, di minuziose ricostruzioni dove non un solo nome o luogo o episodio è fittizio, Arcipelago Gulag racchiude una tragica cronaca di quella che è stata la vita del popolo sovietico “del sottosuolo” dal 1918 al 1956. Un’opera corale che ha visto la luce per la prima volta a Parigi nel 1973. Solzenicyn è più che un scrittore, in Russia è un mito, un filosofo, rispettato tantissimo per le sue idee, per la sua inflessibilità e per il suo coraggio di scrivere sempre e comunque la verità.

Arcipelago Gulag è un’opera corale la cui versione francese recepisce sia le aggiunte e integrazioni apportate al testo dallo stesso Solženicyn nel 1980 sia i successivi interventi volti a esplicitare nomi e luoghi effettuati nell’edizione curata da sua moglie nel 2006.

L’opera è lunga (poco più di 1300 pagine), a tratti difficile per un europeo in quanto si rimanda a fatti o avvenimenti della storia russa (ci sono ovviamente note a fine libro) ma questo non rappresenta un ostacolo per la resa dell0opera che risulta avvincente e coinvolgente.

L’autore russo è coscienza della Russia, implacabile accusatore del regime comunista e di quello degli oligarchi e di Boris Eltsin, che lui definiva pseudo-democratico. E adesso sostenitore convinto della «democrazia guidata» appena trasmessa da Vladimir Putin a Dmitrij Medvedev.

Il grande scrittore premio Nobel per la letteratura, compiuti i novant’ anni molti anni fa, ha visto pubblicare la prima monumentale biografia (quasi mille pagine) letta e approvata dallo stesso ex recluso nei campi di lavoro e dall’ inseparabile seconda moglie Natalia. Lui è malato, quasi non può camminare e da cinque anni non esce di casa. Ma scrive tutti i giorni, cura la pubblicazione della sua Opera omnia e, soprattutto, continua a sparare bordate contro l’ Occidente, l’America di George W. Bush e coloro che criticano la politica del governo russo.

Così Solzenicyn descrive l’ossessione della scrittura, una ossessione che perde e che salva. Raccontando la storia, Solzenicyn vive “come in sogno”. Ogni gesto di scrittura, se grande, accade dal carcere, scavando il tempo dalle pareti, come i carcerati, gratificando le unghie.

Da dissidente a supporter del «suo» presidente e del «suo» primo ministro. Tanto da arrivare a difendere persino il passato nel Kgb di Vladimir Putin e a sostenere, lui che per anni è stato vittima dei servizi segreti, che «servire nello spionaggio estero non è una cosa che viene vista negativamente in molti Paesi».

La biografia scritta da Lyudmila Saraskina – per le edizioni Molodaya Gvardiya – è stata pubblicata a Mosca. Novant’ anni che coprono quasi per intero il «secolo breve», dalla nascita in una famiglia di ex proprietari terrieri subito dopo la rivoluzione (e in casa non si doveva mai parlare del nonno ufficiale zarista), alla partecipazione alla guerra come comandante di una compagnia di artiglieria. Il giovane Aleksandr era un comunista convinto, ma in una lettera privata criticò Stalin e finì nelle grinfie dell’ Nkvd, predecessore del Kgb. Otto anni di campo di lavoro e poi il confino.

Dalla sua esperienza in Kazakistan e in altri luoghi di «espiazione» nacquero i grandi capolavori. Una giornata di Ivan Denisovich, che raccontava la quotidianità dei lager, venne pubblicato durante il breve disgelo kruscioviano nel 1962 e fece un immenso scalpore. Giubilato Kruscev, il nuovo potere sovietico impedì allo scrittore di pubblicare alcunché e alla fine lo cacciò dall’ Unione Sovietica. Dopo che uscì all’ estero Arcipelago Gulag, la dettagliata analisi del mondo della repressione nata con Lenin e proseguita con Stalin, i tentativi di persecuzione continuarono. «Contromisure attive», come le chiamavano i ragazzi degli «Organi» repressivi.

La sua biografa ci racconta che Jurij Andropov, allora direttore del Kgb, era ossessionato dallo scrittore. Fece pubblicare in Italia e in Giappone un libro denigratorio scritto della ex moglie di Solzenicyn. Poi fece uscire sull’ Unità, l’ 11 luglio del 1975, una lettera della figlia del direttore di Novy Mir, la rivista che aveva pubblicato Una giornata di Ivan Denisovich. Dopo lo scioglimento dell’ Urss, il Vate riebbe la cittadinanza russa e poté tornare a casa dal Vermont, dove si era stabilito. Giunse in Estremo Oriente nel 1994 e attraversò tutto il Paese in treno, con migliaia di persone alle stazioni.

Ma ben presto il feeling con il Paese venne meno, anche a causa delle sue opinioni assai particolari. Profondamente antidemocratiche, le hanno definite i suoi critici. Anatolij Chubais, uno dei più brillanti tra i giovani riformisti degli anni Novanta (e tra i più criticati) ha detto: «Un odio simile verso la Russia moderna non l’ho visto nemmeno nei comunisti di Ziuganov».

Per un po’ l’ideale di Solzenicyn è stato il ritorno a una Russia agraria e religiosa. Poi, più recentemente, ha sposato la «democrazia guidata» di Vladimir Putin. Ha appoggiato le sue campagne contro l’ ingresso nel Paese della Chiesa cattolica e delle sette protestanti; se l’ è presa con l’Ucraina che ha accettato «l’abbraccio mortale dell’ Occidente e della Nato», che vogliono solo «accerchiare totalmente la Russia e farle perdere la sua sovranità».

Solzenicyn è morto 13 anni fa ed è diventato un’icona buona per le conferenze e i servizi in tv: d’altronde, chi ha oggi il coraggio di dire che il Gulag sono stati una azienda sovietica efficiente e che la sopraffazione è un atto buono e giusto? Così, leggiamo Arcipelago Gulag come la testimonianza di un tempo che fu. Ma non è oggi il Gulag, in un’altra forma, magari più sofisticata e sagace questo sistema di di frustrazione, smarrimento patente che viviamo? Cosa dire poi della Russia di Putin, del suo microcosmo oligarchico.

Già. Chissà cosa penserebbe oggi Solzenicyn di quello che sta accadendo in Russia, di Putin, di Navalny, degli scontri nelle piazze, dell’attenzione dell’Europa.

 

Fonte: Q-Libri

Addio al dissidente Eduard Limonov, scrittore e uomo in rivolta

Insopportabile, estremista, avventato, vagabondo, dissidente, avventuriero. Da qualunque punto di vista lo si veda, Eduard Limonov, classe 1943, scomparso lo scorso 17 marzo, ha fatto della sua vita un’opera d’arte, devoto alla rissa, coerente nella contraddizione. Soprattutto, Limonov è scrittore autentico, che scortica, disturba, che scrive dissipandosi. Reso celebre dal romanzo Il boia, libro di spericolata violenza, “scritto a Parigi nel 1982”, diceva lui, pubblicato nel 1986 dalla “casa editrice Ramsay, che temendo la censura mutò con imbarazzo il titolo in Oscar et les femmes”,  racconta, dietro il velo romanzesco, aspetti della vita newyorkese underground di Limonov.

Il boia narra di una vertiginosa ascesa sociale ed economica, alimentata da donne dell’upper class desiderose di essere sottomesse, tra noir e grottesco, segnata da due omicidi, in cui Oscar, “il boia”, trova nel sesso e nella dominazione sugli altri quel riscatto negatogli dalle ambizioni infrante. Limonov non giudica. Come se impugnasse una cinepresa, descrive in modo crudo e dettagliato le estreme pratiche sessuali e gli istinti ferini dei protagonisti di quel carnevale che è la vita mondana di New York, ragionando in maniera seria, da un punto di vista letterario, sul sadomasochismo.

Limonov è stato un piccolo delinquente nelle strade di Charkiv, in Ucraina, dove è cresciuto. Suo padre era membro dell’NKVD, antenato del KGB, ma la strada di Limonov era destinata a non incrociare quella dei suoi genitori. E così, tra una rapina e una rissa, Limonov trovava il tempo di scrivere e recitare poesie. In breve è a Mosca, dove inizia a frequentare un gruppo di letterati underground, costretti alla clandestinità dal duro regime sovietico.

Limonov ha una scrittura attraente perché insieme intima e gelida, figlia di una esistenza estrema, anticonformista e distante da ogni materialismo. Era stato in Italia in più occasioni e aveva raccontato il Belpaese con suggestioni folgoranti nel Libro dell’acqua (Alet), la sua opera più originale perché salda affreschi paesaggistici a sfumature sentimentali e passioni amorose. Descriveva con dettagli ora truci ora pieni di umanità l’Adriatico come il Tevere, Ostia e le lande pasoliniane o la Fontana di Trevi a Roma (tra il 1974 e il 1982), accompagnato dall’amata Elena Scapova (moglie che lo lasciò per diventare in seguito vedova di un ricco italiano).

Dall’Italia passava alla Moscova nella capitale russa, tinteggiata mentre sfilava in corteo con decine di giovani che sventolavano il vessillo rosso con al centro la Limonka, la bomba a mano a forma di limone, che diede il nome alla testata che dirigeva. In Italia era tornato con una certa frequenza negli ultimi anni, dopo la celebrità che gli aveva donato la biografia Limonov (Adelphi) scritta da Emmanuel Carrère, tra fiere del libro e ospitate nei circoli identitari (come Terra Insubre), per presentare Zona industriale (Sandro Teti). Politicamente la sua linea era tracciata in Drugaya Rossiya, manifesto dove coesistevano Julius Evola e Lenin, Drieu La Rochelle e Gorky.

I suoi partiti di matrice nazional-bolscevia, però non ebbero successo, anche se era apprezzato dalla giornalista Anna Politkovskaja, che ne elogiava il coraggio civile rispetto al conformismo filogovernativo (una costante in tutti i sistemi politici del nostro tempo). Considerava Putin, il presidente dei ricchi, e gli Stati Uniti d’America un piacevole inferno.

Uomo in rivolta, spregiudicato nel fare proprie le battaglie irredentiste più disparate corre il rischio di diventare icona pop, non solo per il suo abbigliamento da eterno punk e per la parlantina tagliente (in Italia solidarizzava con le forze sovraniste), ma soprattutto perché gli ha dedicato un post anche il cantante Fedez.

La vita di Eduard Limonov, è  stata un romanzo di avventure: al tempo stesso avvincente, nero, scandaloso, scapigliato, amaro, sorprendente, e irresistibile. Perché Carrère è riuscito a fare di lui un personaggio a volte commovente, a volte ripugnante – perfino accattivante. Ma mai, mediocre. Che si trascini gonfio di alcol sui marciapiedi di New York dopo essere stato piantato dall’amatissima moglie o si lasci invischiare nei più grotteschi salotti parigini, che vada ad arruolarsi nelle milizie filoserbe o approfitti della reclusione in un campo di lavoro per temprare il “duro metallo di cui è fatta la sua anima”, Limonov vive ciascuna di queste esperienze fino in fondo.

L’autorevole disincanto con cui ha parlato della Morte è la cifra della complessità umana e letteraria di Limonov: “è chiaro che abbiamo paura della Morte, tutta la nostra vita è segnata da questo appuntamento… pare che ci sia silenzio un attimo prima, Aldo Moro scrisse “se ci fosse luce sarebbe bellissimo”… penso che non si abbia il tempo di piangere, quindi le lacrime e le parole teniamole e usiamole adesso che siamo vivi, sono un dono, usiamole bene”.

Fonte

https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/cinema-e-spettacoli/1213175/addio-a-limonov-il-dannunzio-russo-lesteta-armato-e-i-suoi-viaggi-in-italia.html

Solo Assad può salvare Erdogan

Beirut. Giornalisti e intellettuali col ditino puntato, prima di scrivere o parlare dell’assedio di Idlib, per onestà intellettuale, hanno il dovere di spiegare a lettori e auditori tre questioni fondamentali. Primo. Chi occupa il territorio e tengono in ostaggio i civili sono gruppi terroristici in passato legati a Jabhat al Nusra, ramo siriano di Al Qaeda, nemici di Assad e anche dei curdi. Secondo. La presenza militare della Turchia, membro della Nato, in quel territorio è una violazione del diritto internazionale oltre che della sovranità della Siria. Terzo e ultimo punto. La Turchia, membro della Nato, protegge gruppi terroristici in passato legati a Jabhat al Nusra, ramo siriano di Al Qaeda, nemici di Assad e anche dei curdi, che tengono in ostaggio milioni di civili. Se mancano questi elementi qualsiasi narrazione che sentirete o leggerete è dunque parziale, sensazionalistica o ideologica, di conseguenza, falsa.

La realtà sulla vasta provincia di Idlib ci dice che di “ribelli moderati” non se ne vedono più da un pezzo. La maggior parte dei suoi combattenti siriani provengono dalle zone riconquistate negli ultimi anni dall’Esercito Arabo Siriano, Hama, la Ghouta Orientale, Aleppo, senza contare tutti gli stranieri già presenti sul posto prima dell’attuale assedio. Persino gli Stati Uniti per bocca dell’inviato Brett McGurck sono stati costretti ad ammetterlo definendolo “il più grande santuario di Al Qaeda dopo l’Afghanistan”.

Non a caso proprio lì si trovava, protetto probabilmente dall’intelligence turca, il Califfo dello Stato Islamico Abu Bakr Al Baghdadi, prima di essere ucciso, pare, da un raid americano. Ecco perché gli appelli strappalacrime di ONG e influencer su Idlib lasciano il tempo che trovano. Non perché le vite dei civili valgano poco, anzi, bensì perché chi vuole ricordarli oggi, da morti, avrebbe dovuto farlo in questi otto anni di guerra quando erano vivi, imprigionati, presi in ostaggio, usati come scudi umani dai gruppi jihadisti.

Quanto accade in questi giorni in Siria, nella provincia di Idlib, rientra nella diplomazia muscolare russo-turca, per cui ha il diritto di sedersi al tavolo delle negoziazioni solo chi ha il coraggio di sacrificare militari operativi sul campo. Turchia e Russia non arriveranno allo scontro diretto perché non è nell’interesse di nessuno.

Da un lato Putin, oggi, è l’unico amico rimasto a Erdogan in Medio Oriente, sempre più isolato nella Nato, e nemico giurato della “Nato araba”, il quale allo stesso tempo alza la posta con l’Europa con la minaccia migratoria per avvicinarla ai suoi interessi allontanandola da quelli atlantici; dall’altro Putin, che non scaricherà Assad per nessuna ragione al mondo, soprattutto ora che gioca la partita parallelamente anche sul fronte libico, ha lanciato un avvertimento al suo interlocutore diretto su un territorio che appartiene al governo siriano, occupato da gruppi terroristici, illegalmente da soldati turchi, e che nella realtà, giorno per giorno, sta per essere riconquistato dall’Esercito Arabo Siriano (a molti è sfuggito che di recente la principale via di comunicazione del Paese, l’autostrada M5 che collega le quattro principali città del Paese, Damasco, Homs, Hama e Aleppo, è stata liberata e riaperta). Insomma, Russia e Turchia, e di rado l’Iran, non possono perdere la più grande occasione che hanno per dettare l’agenda di Nordafrica e Medio Oriente.

E l’Italia in questa vicenda internazionale ha la possibilità di replicare e applicare con forza la strategia adottata col dossier libico, e inserirsi anche in quello siriano come mediatore nella diplomazia muscolare tra Putin e Erdogan, e tutelare i suoi interessi strategici nazionali, vale a dire, riconoscere la legittimità di Bashar Al Assad, riaprire per primi in Europa la nostra ambasciata a Damasco, e partecipare con le nostre aziende alla ricostruzione del Paese.

Per riuscire in questa impresa occorre però ridimensionare l’interventismo di Erdogan e farli rispettare i patti. Nessuno vuole assolverlo, soprattutto dopo aver approfittato della destabilizzazione della Siria per indebolire un suo vecchio amico, leader del mondo arabo, Bashar al Assad, e rafforzare il suo disegno neo-ottomano. In questi anni la frontiera turco-siriana è stata una vera e propria “autostrada della Jihad” nonché una retrovia strategica per i gruppi terroristici, pertanto la Turchia, dal fallito colpo di Stato in poi si è progressivamente allontanata dagli Usa, esclusa dalla “dottrina Trump”, e riavvicinata a Russia e Iran, tanto da entrare nei colloqui di Astana, rendendosi disponibile a modificare strategia, disarmare i gruppi jihadisti, ritirarsi dal Paese che oggi occupa illegalmente, in cambio di una ricollocazione dei rifugiati siriani ed ex combattenti siriani nell’area a maggioranza curda, di preciso in quella cintura temporanea di sicurezza, profonda 30 chilometri, collocata nella parte nord orientale. Tutto questo non è impossibile perché il presidente turco, oltre ad essere isolato sul piano internazionale, potrebbe essere il prossimo a finire sulla black list occidentale (soprattutto dopo che Bashar Al Assad se l’è scampata). E i russi, che lo hanno salvato già una volta nel 2016, quando fallì il golpe, non lo faranno una seconda. Soprattutto se gli accordi di Astana non verranno rispettati.

 

Sebastiano Caputo

Riassetto geopolitico: Trump, Putin, Assad

La situazione in Siria, e con essa nel resto del pianeta, si fa sempre più intricata: Assad è da anni impegnato in un’insurrezione all’interno del proprio paese che vede tra le varie frange anche una forte ingerenza dell’Isis. Ma a sua volta si dimostra un despota spudorato, capace di falcidiare masse in larga parte composte da bambini con armi chimiche, come accaduto pochi giorni fa. La risposta dell’America è stata immediata: a sua volta ha bombardato il luogo di provenienza delle armi con 52 missili “Tomahawk”. Da qui un serio attrito diplomatico con Putin, che da indiscrezioni e indagini interne sembrava l’occulto mentore di Trump, ma che da sempre protegge Assad, ragion per cui non ha tardato a mostrare il suo energico disappunto per la decisione presa dalla Casa Bianca.

La cena di Vladimir Putin per lo scorso Capodanno

Poco prima della fine del 2016 il presidente degli Stati Uniti tuttora in carica Barak Obama ha espulso gli ambasciatori russi come risposta ai sospetti dell’Fbi circa un’ingerenza di questi ultimi a favore di Donald Trump, durante la recente campagna elettorale. Come contromisura il presidente russo Putin con ostentata signorilità ha invitato gli ambasciatori americani al cenone di capodanno da lui organizzato. Si tratta ovviamente di un gesto politico, in attesa dell’insediamento del nuovo presidente Usa molto più congeniale al capo del Cremlino, peraltro famoso per aver liquidato i suoi nemici interni attraverso metodi tutt’altro che ortodossi, retaggio dei suoi remoti esordi al Kgb.

Donald Trump e Hillary Clinton: l’inquietante e la muffa

Diciamo la verità: i candidati per le vicinissime Presidenziali USA non brillano per profondità intellettuale e contenuti. Anche il terzo e ultimo scontro tenutosi pochi giorni fa a Las Vegas tra il repubblicano miliardario Donald Trump e la democratica moglie di Bill Clinton, Hillary è stato certamente deludente per chi si aspettava colpi di scena, conigli dal cilindro o comunque qualcosa che andasse oltre colpi bassi e insulti reciproci.

Donald Trump ha dichiarato ancora una volta che rifiuterà un’eventuale sconfitta, lanciandosi  in un attacco ai media e al loro ruolo nel manipolare le elezioni. Hillary, dal canto suo, ha affermato che l’affermazione di Trump è in contrasto con la storia democratica degli Stati Uniti, storia con luci ma anche molte ombre, in verità, i quali probabilmente, a dispetto di quello che pensano in molti e cioè che l’impresentabile è solo ed esclusivamente Trump, meritano, proprio in virtù della loro storia, due pessimi candidati come Donald Trum e Hillary Clinton.

Donald Trump rappresenta un’anomalia nel panorama politico statunitense ed internazionale attuale, e la sua analisi permette di capire l’evoluzione della mentalità e delle concezioni politiche del popolo a stelle e a strisce. Donald Trump ha ottenuto consensi in un paese smarrito, in crisi di identità, che desidera un leader forte e carismatico. Gli USA sono un Paese lacerato da disuguaglianze sociali e ridurre i milioni di americani sostenitori di Trump a un branco di buzzurri reazionari, populisti, xenofobi e fanatici delle armi, come fanno diversi commentatori, anche di casa nostra, che si concentrano solo sulle uscite infelici del candidato repubblicano, vuol dire essere riduttivi e superficiali. Bisognerebbe andare oltre le banali semplificazioni e cercare di comprendere perché Trump è riuscito a porsi in posizione di vantaggio su tutti gli altri concorrenti alla nomination repubblicana. Perché parla alla pancia del Paese, dirà qualcuno, frase ormai stantia, adoperata ogni volta anche in Italia per spiegare il successo del M5S; ma l’outsider politico Trump è un fenomeno complesso, tipicamente americano.

Donald Trump: l’inquietante outsider politico

Senza dubbio Donald Trump è un uomo controverso, eccentrico, involontariamente comico, inquietante, protagonista di sgradevoli commenti sulle donne, imprevedibile che utilizza un linguaggio semplice e diretto accompagnato da una retorica che non è ben vista dalle élites. Il business-man newyorkese viene considerato un pericolo per la democrazia da buona parte della stampa e dall’establishment politica qualora dovesse diventare il prossimo presidente degli USA. Ma perché il cattivone Trump è inviso ai circoli intellettuali che contano, ai giornali patinati come il New York Times e allo Star System che invece appoggiano Hillary Clinton?

Donald Trump in fondo è un provincialotto made USA, propugnatore dell’isolazionismo (perlomeno a parole), che non aspira a giocare a “globocop”. Anche Obama nel 2008 era il leader della distensione, promettendo di mettere la parola fine alla crociata cominciata da Bush in Medio Oriente contro il mondo arabo-musulmano e persiano. Ma con il passare dei mesi le élites di potere ed il Pentagono lo hanno ricomprato costringendolo a sostenere vecchi e nuovi fronti di guerra.

Tra le accuse mosse a Trump oltre a quelle di razzismo e islamofobia vi sono quelle di sessismo avallate da  testimonianze di diverse donne che hanno sostenuto di essere state molestate in passato da Trump e da una registrazione spuntata qualche settimana fa dove il candidato repubblicano affermava che “se sei una star puoi fare quello che vuoi”. Ci dovrebbe essere meno imbarazzo quando si dice la verità: ci sono donne che di fronte all’uomo di potere si umiliano, ci sono uomini che fanno valere il loro potere nelle loro relazioni con le donne e donne che ci stanno, perché gli conviene. Quando si tira fuori con grancassa mediatica la storia dell'”offesa alle donne, le quali sono sempre e solo povere vittime del porco di turno”, il più delle volte è una bufala.

L’ipocrisia sulle battute pseudo-sessiste

Quelle di Donald Trump sono tipiche battute scollacciate da ambiente maschile, che anche le donne conoscono benissimo e non si scandalizzano. Semmai è curioso che queste “povere” donne spuntino come funghi a distanza di anni dalle presente molestie e accusino Trump. Non si può giudicare un politico per le volgarità da bar che dice in privato; cosa succederebbe se si registrassero tutti i commenti privati sulle donne espressi dai vari politici ipocriti che oggi inorridiscono e si imbarazzano arrossendo per le vanterie e le battute sboccate di Trump?

Non è forse più grave e volgare la risata pubblica della signora paladina delle donne, Hillary Clinton sul barbaro scempio del cadavere Gheddafi linciato dai guerriglieri libici alleati della Nato? Senza rammentare a buona parte dell’opinione pubblica che il marito della futuribile presidente degli USA risponde al nome di Bill Clinton (la signora utilizza il cognome del consorte, non il proprio), di certo non un stinco di santo, dell’ex Presidente alla Casa Bianca con Monica Lewinsky non si hanno video ma possiamo benissimo immaginare di che tipo di trattamento si sia trattato, così come gli altri tradimenti di Bill. Probabilmente ad aver attratto Monica Lewinsky e altre è stata la folgorante bellezza di Bill Clinton non il tipico fascino che deriva dal potere.

Tutti ricordiamo lo scandalo giornalisticamente noto come Sexgate, che costrinse Clinton a subire un lungo procedimento giudiziario per le accuse di spergiuro seguite alle sue dichiarazioni in merito alla vicenda rilasciate nel corso del processo per un caso di presunte molestie sessuali nei confronti della giornalista Paula Jones, conosciuta da Clinton quando era governatore dell’Arkansas. Durante quel processo il presidente degli Stati Uniti negò di avere avuto rapporti sessuali con Monica Lewinsky, ma nel corso della sua testimonianza di fronte al Grand jury del 1998 Clinton ammise invece di avere avuto una “relazione fisica impropria” con la stagista. Forse solo la signora Clinton che certamente ha perdonato il marito per amore, non per convenienza e fare carriera, ha rimosso quella triste vicenda e sentenzia contro Donald Trump.

Chi è davvero Hillary Clinton?

Ma chi è davvero Hillary Clinton, colei che si autodefinisce come l’ultima speranza per il popolo americano, l’ultima cosa tra i cittadini statunitensi e l’Apocalisse, e che si pone come la nonna buona e rassicurante delle favole? Partiamo da una mail inviata dalla Clinton nell’agosto 2014 a John Podesta, uno dei più stretti collaboratori della famiglia Clinton ed oggi a capo della sua campagna elettorale: <<I governi di Qatar e Arabia Saudita stanno fornendo supporto finanziario e logistico clandestino all’Isis e ad altri gruppi sunniti radicali nella regione>>. La mail rilasciata da Wikileaks ha del clamoroso, come altre che ha signora Clinton ha provveduto a cancellare. Nonostante Hillary Clinton sapesse dell’appoggio che i regimi del Golfo alleati degli Usa danno all’Isis, ha continuato ad accettare milioni di dollari di finanziamento per la sua Fondazione proprio da questi regimi che lei stessa riconosce essere sponsor del terrorismo di matrice islamica. Questo è davvero imbarazzante e sconcertante non le battute pseudo-sessiste di Trump.

Durante questa campagna elettorale per le Presidenziali, Trump è stato ripetutamente attaccato per il suo atteggiamento non ostile nei confronti della Russia di Vladimir Putin; dipinto come un fantoccio manipolato da potenze straniere. Nell’ultimo dibattito televisivo, la Clinton ha affermato: “Non è mai successo prima che un avversario (Putin) si adoperasse così tanto per influenzare il risultato delle elezioni”. Ma Putin non finanzia la campagna elettorale di Donald Trump e la Russia è impegnata a combattere l’Isis e il terrorismo in Siria e in Asia Centrale. Al contrario, i sauditi amici della Clinton finanziano la sua Fondazione di famiglia con la stessa mano con cui finanziano l’Isis e Al Qaeda. A tal proposito risulta illuminante l’affermazione di Glenn Greenwald, importante giornalista d’inchiesta di area liberal: “Tutti coloro che desiderano sostenere che i sauditi abbiano donato milioni di dollari alla Fondazione Clinton per il desiderio magnanimo di aiutare le sue cause benefiche, alzino la mano”.

Ciò che si sa con certezza su Trump è che non è sopportato dall’oligarchia che ha ordinato ai media statunitensi di distruggerlo con ogni mezzo. Se Trump dovesse insediarsi alla Casa Bianca, non significa che potrebbe prevalere sull’oligarchia, la quale è radicata a Washington e controlla cariche di politica economica ed estera, gruppi di lobbisti, e naturalmente i media. Il popolo non controlla un bel niente.
Cosa dobbiamo pensare davvero quando vediamo condannare Donald Trump perché non vuole la guerra con la Russia o la delocalizzazione dell’economia americana?

Hillary Clinton è colei che disse ai banchieri di Wall Street che le riforme del settore finanziario americano devono essere appannaggio di coloro che sono meglio posizionati all’interno del settore stesso. E questi eletti, ovvero banchieri e multinazionali condividono con la Clinton lo stesso sogno, ovvero quello di stabilire un mercato comune mondiale, senza confini.

Se l’imprenditore miliardario Donald Trump con i suoi lati oscuri, la sua rozzezza rappresenta un elemento destabilizzante, di disturbo, di rottura, di inquietudine, un’anomalia insomma, Hillary Clinton è la muffa che si ripropone, appoggiata da personaggi come Soros, dalla JP Morgan e dalla Goldman Sachs, rappresentando quel cinismo nell’uso di un potere senza regole, nella manipolazione dei media sui quali non si troveranno notizie uniti ad una visione del ruolo degli Stati Uniti come sentinelle del mondo autorizzate a scatenare guerre umanitarie dietro pretesti inventati (e la Libia ne è un esempio lampante), a macchinare crisi nazionali e “colpi di Stato democratici” (vedi Ucraina), oltre che un serio pericolo per il mondo. Ma la Clinton è donna come Obama era nero, dunque entrambi ideali condottieri di una nazione, capitati nel momento storico giusto.

Due bassi profili politici entrambi dunque, per motivi diversi, ma se si dovesse scegliere il meno peggio, probabilmente tra i due, sarebbe proprio il cattivone Donald Trump soprattutto in virtù del fatto che quello che possa essere Trump, non lo sappiamo, quello che è ed è stata Hillary Clinton, invece, è tutto documento. Documento marcio.

Una cosa è certa: Donald Trump non è la causa della crisi del Partito Repubblicano, semmai una sua manifestazione e non è lì per caso. E la Clinton non è l’ultima speranza per il popolo a stelle e strisce. Sarebbe opportuno chiedersi perché gli USA non riescono ad esprimere candidati all’altezza del loro ruolo e delle sfide globali che devono affrontare. Che la ragione sia che sono entrati in una crisi che nessuna delle loro élite ha le soluzioni giuste per fronteggiare?

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